OGNI VITA E’ UNA VITA

di Bianca Pomeranzi
20 dicembre 2011

Recentemente, una studiosa palestinese di cittadinanza israeliana Nadira Kevorkian, nota per le sue ricerche sul femminicidio, mi ha detto che i suoi studi  attuali sono rivolti al modo in cui vengono trattati i corpi nella nascita e nella morte a Gerusalemme, poiché da tempo aveva riscontrato una grande diversità nel trattamento dei corpi delle donne e degli uomini. La cura dedicata agli uni infatti, non viene riservata alle altre.

Nella città, culla dei monoteismi religiosi non poteva essere altrimenti, ma comunque la cosa mi ha colpito perché mette a nudo, in modo crudo e inequivocabile, un aspetto finora poco indagato del biopotere che discrimina a partire dalle differenze iscritte nel corpo.

Nascita e morte dunque, fenomeni che di solito non sono considerati politici, sono tornati al centro della "polis ", poiché  il corpo è  giustamente visto come  un elemento decisivo della qualità della vita, ma è anche il luogo su cui si esercitano le maggiori ingiustizie a partire dalle modalità con cui si organizza la produzione e il mercato e dalle gerarchie di valori che regolano la gestione della riproduzione. 

Nell’epoca in cui viviamo, l’accelerazione imposta dal capitalismo finanziario globalizzato ha fatto saltare  l’equilibrio tra questi sistemi e ci costringe a ripensare la loro genesi.  
A novembre del 2011 infatti,  la popolazione mondiale ha varcato la soglia dei sette miliardi, secondo le stime dell’UNFPA, il Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione, e ha reso evidente la contraddizione tra il modello economico e la volontà di garantire a tutte e a tutti: bambini, giovani, adulti e anziani, un futuro degno e il godimento dei dritti fondamentali così come individuati dal pensiero moderno.

La crisi che stiamo vivendo mette dunque in luce l’intima correlazione tra conservazione del modello economico vigente e il dominio delle  religioni, svelando anche la fragilità di un pensiero laico che non aveva saputo varcare la soglia della famiglia, ovvero quell’intreccio di relazioni e di equilibri di potere dove la materialità è regolata sulla naturalità del dominio del capo padre e padrone.

Sembra scontato dire che senza il femminismo degli anni settanta la connessione tra sistemi economici, politici e simbolici non sarebbe mai venuta fuori, eppure è necessario ricordarla poiché ogni discorso sulla laicità contemporanea deve saper varcare quella soglia, soprattutto adesso che la fragilità degli stati, della politica e dell’economia  costringe a ripensare i modelli di “welfare” ovvero della “cura” degli individui.

Non è difficile, soprattutto per noi oggi in Italia, constatare come vi sia una forte tentazione da parte di chi governa a rimettere nelle mani delle religioni la questione della cura ovvero tutta quella parte che eccede la produzione, il mercato e la finanza, tornando al discorso della “sussidiarietà” e alla carità. Tuttavia, questo sarebbe solo un palliativo inefficace perché troppe sono le religioni e troppe le nuove soggettività che non potrebbero accettare una simile restaurazione.

E’ necessario quindi, andare avanti sulla base delle poche certezze che in questi anni di grande trasformazione si sono realizzate. Per questo a noi femministe spetta il compito di prendere parte, ovvero divenire partigiane, nel conflitto evidente tra modelli economici e modelli di vita. 

Per questo motivo ritengo che una prima risposta alla definizione di una  nuova laicità  che tenga conto del corpo, di ogni corpo, possa essere quella che abbiamo avviato con il Gruppo del Mercoledì – di cui faccio parte insieme a Bandoli, Boccia, Dejana, Gallucci, Paolozzi, Sarasini, Stella e Vulterini –  mettendo l’accento sul “riconoscimento” dei soggetti  in relazione  per il “buon vivere” di ciascuno. 

Non si tratta infatti di tornare al rigore morale per gestire vita e morte, corpi e diritti, si tratta piuttosto di riconoscere che “ogni vita è una vita” così come veniva scritto, quasi mille anni fa, nella Carta Mandem, voluta da Sundjata Keita il giorno della sua incoronazione a sovrano dell’Impero del Mali, che stabiliva alcuni principi essenziali per una convivenza basata sul rispetto della vita umana, della libertà e della solidarietà.

Principi che sono patrimonio dell’unica novità politica dei nostri giorni: il movimento chiamato “occupy” che dalle piazze del mediterraneo a quelle americane sta cercando di mettere in crisi i dispositivi simbolici e materiali, ovvero religiosi e economici, di comando sulle vite  del 99% della popolazione mondiale. A quel movimento il femminismo transnazionale deve ricordare la riflessione sull’esperienza della cura dei corpi in relazione.
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