carteBollate - ottobre 2013
La lettera della mamma di Rebibbia, è una testimonianza molto dura nella sua intensità, è la voce di una donna che riconosciamo, conosciamo il suo dolore, che pur nella sua unicità appartiene alle donne che vivono la carcerazione mentre sono ma¬dri. È la vicinanza a quel particolare dolore che risuona, ma anche la loro forza di resistenza alle ferite, la forza della memoria. Risuona per la vicinanza a molte donne che ho incontrato in questi 11 anni di carcere con Bambinisenzasbarre. E ancora oggi.
L’urgenza è sempre per un figlio, un figlio fuori che si vuole vedere assolutamente, un figlio lontano in un altro paese a cui si vuole far sapere, o il figlio dentro che dopo i tre anni viene allontanato ed è qualcosa che non si può sopportare. Ancora oggi le urgenze sono queste e gli stessi dolori. Ed è questa forza di resistenza, che il carcere per fortuna consente e innesca come autocura di sopravvivenza, che trapela dalla testimonianza della mamma di Rebibbia, che sostiene anche quando si è fuori. Forse sostiene anche noi che ne siamo testimoni.
L’urgenza è sempre per un figlio, un figlio fuori che si vuole vedere assolutamente, un figlio lontano in un altro paese a cui si vuole far sapere, o il figlio dentro che dopo i tre anni viene allontanato ed è qualcosa che non si può sopportare. Ancora oggi le urgenze sono queste e gli stessi dolori. Ed è questa forza di resistenza, che il carcere per fortuna consente e innesca come autocura di sopravvivenza, che trapela dalla testimonianza della mamma di Rebibbia, che sostiene anche quando si è fuori. Forse sostiene anche noi che ne siamo testimoni.
Accanto ai sentimenti che la lettera provoca c’è la situazione generale che rappresenta. Ci siamo impegnati e tuttora lo siamo a livello istituzionale, nazionale ed Europeo, perché in particolare la situazione delle relazioni genitoriali in carcere migliori, che i bambini non ci vivano, che il loro diritto sia un diritto prioritario rispetto a tutto il resto.
E la situazione ci porta inevitabilmente ad accennare alla recente legge 62 dell’aprile 2011, in vigore pienamente dal prossimo gennaio 2014, ultimo atto di un percorso legislativo di attenzione al tema della genitorialità detenuta che parte dalla Legge Finocchiaro del 2001 con la sua detenzione domiciliare speciale.
La nuova legge esclude il carcere per le donne con figli fino a 6 anni di età, salvo esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, ma per tutta una serie di possibili interpretazioni restrittive e di difficoltà applicative rischia di peggiorare la situazione o di lasciarla quantomeno inalterata, in attesa che le case famiglia, disposte dalla legge, riescano a essere una soluzione praticata, lasciando agli enti locali l’onere finanziario di sostenerle.
La recente audizione del 23 luglio (insieme alla associazione Aromainsieme Leda Colombini, che opera a Rebibbia e con cui abbiamo condiviso tutti questi anni di impegno per la modifica della Legge Finocchiaro) a cui siamo stati convocati dalla Commissione speciale dei diritti umani del Senato, presieduta da Luigi Manconi, ha sollecitato due mozioni al governo di cui stiamo seguendo l’iter. Per completare le informazioni citiamo anche la petizione che abbiamo promosso, prima in Italia e poi in Europa, perché venga applicata la Risoluzione 2116 del 2008 da ogni Stato membro, con tutti gli interventi e buone pratiche che sollecita.
Ma forse basterebbe l’applicazione della Carta Onu dei diritti dell’Infanzia come diritto primario rispetto a tutto il resto, il carcere ne sarebbe trasformato.
Ci convinciamo sempre di più che “guardare il carcere con gli occhi di un bambino” sia un pensiero guida e uno strumento radicale di trasformazione, nonostante appaia retorico nella sua apparente semplicità. Un esempio di questa potenzialità è stato il recente ciclo di Formazione promosso dal Prap su questo tema, riservato a una rappresentanza di operatori penitenziari di tutte le carceri della Lombardia. Gli operatori, educatori e agenti, e noi con loro, sono stati molto colpiti dall’influenza profonda di questo “punto di vista” che permette di umanizzare il carcere e le relazioni che lo abitano.