carteBollate - ottobre 2013
La nostra associazione prende il nome da una tragedia di Sofocle. Antigone è una donna che osò sfidare Creonte, il re. Creonte dette ordine di non seppellire Polinice, fratello di Antigone, in quanto ritenuto da lui un traditore. Antigone, giovane ma decisa nei suoi sentimenti e nelle sue idee, con fermezza disobbedì all’ordine regio e ugualmente seppellì Polinice, perché tutti, nessuno escluso, secondo lei meritavano degna sepoltura. Ciò le costò la morte. Mise il suo corpo e la sua anima a disposizione di un progetto più ampio che non quello di una esistenza grigia, riguardosa nelle forme ma sostanzialmente priva di ideali. Antigone che si ribella al re e decide di seppellire suo fratello non è tanto e non è solo la metafora del rapporto tra la legge ingiusta (del re Creonte) e la giustizia giusta (degli Dei e di Antigone), quanto invece segna il conflitto tra l’obbedienza e la resistenza, parole entrambe presenti nella lettera. Esiste un dovere morale di resistenza rispetto alle ingiustizie palesi di un sistema che nel nome della legge azzera la dignità degli esseri umani?
Antigone riteneva di sì. Noi riteniamo di sì. La parola resistenza a sua volta evoca la parola trasformazione. Le nostre prigioni sono oggi luoghi che vanno smascherati nella loro tragicità, resi trasparenti vista la loro opacità. Questa lettera aiuta una operazione di osservazione critica della realtà penitenziaria nonché legittima azioni di resistenza politica e culturale. Essa aiuta a rendere meno oscura e scontata una condizione, quella delle donne e dei bambini in carcere, sulla quale molti versano lacrime che poi scopri¬remo essere lacrime di coccodrillo. La lettrice ci scrive da “libera”, dopo avere trascorso otto anni nel carcere romano femminile di Rebibbia, specificando che lo fa usando un personal computer. Ci dice che fuori dal carcere ha dovuto imparare tutto, visto che gli ultimi otto anni sono stati quelli della rivoluzione informatica e del web.
Il carcere è però indifferente a tutto questo. Al sistema carcerario poco importa che le vecchie poste sono lì lì per chiudere, che nessuno scrive con carta e penna fuori dalle patrie galere, che Obama ha vinto le elezioni grazie ai social network o che Grillo usa il blog come se fosse un’agenzia di stampa. In cella il computer è vietato. In carcere internet è considerato al pari dell’eroina o del sesso. Tutto vietato! Come si può sostenere che la pena debba tendere alla rieducazione del condannato - in questo caso della condannata - se si vieta alla persona reclusa di stare al passo dei tempi? Internet non è il male. Ai detenuti e alle detenute - quanto meno alla gran massa degli stessi - va consentito l’uso delle mail, che non sono altro che lettere più rapide rispetto a quelle di un tempo.
Il carcere è spesso il luogo delle decisioni illogiche prese nel nome della sicurez-za, una illogicità che non viene messa in discussione neanche quando si tratta della ingiusta detenzione di un bimbo piccolo insieme alla propria madre. Non è la logica che governa il carcere. La discrezionalità tende a tracimare nell’arbitrio. Ci vorrebbe invece una più rigorosa regia che lasci meno spazi agli eccessi di custodialismo insensato. La pena detentiva è una pena a stare chiu¬si in carcere e non a stare chiusi in cella. La determinazione di alcune donne ha favorito l’allontanamento dei bimbi dalla sezione di alta sicurezza. È questo che intendiamo quando abbiamo, a proposito di Antigone, evocato la resistenza contro l’obbedienza.
Antigone riteneva di sì. Noi riteniamo di sì. La parola resistenza a sua volta evoca la parola trasformazione. Le nostre prigioni sono oggi luoghi che vanno smascherati nella loro tragicità, resi trasparenti vista la loro opacità. Questa lettera aiuta una operazione di osservazione critica della realtà penitenziaria nonché legittima azioni di resistenza politica e culturale. Essa aiuta a rendere meno oscura e scontata una condizione, quella delle donne e dei bambini in carcere, sulla quale molti versano lacrime che poi scopri¬remo essere lacrime di coccodrillo. La lettrice ci scrive da “libera”, dopo avere trascorso otto anni nel carcere romano femminile di Rebibbia, specificando che lo fa usando un personal computer. Ci dice che fuori dal carcere ha dovuto imparare tutto, visto che gli ultimi otto anni sono stati quelli della rivoluzione informatica e del web.
Il carcere è però indifferente a tutto questo. Al sistema carcerario poco importa che le vecchie poste sono lì lì per chiudere, che nessuno scrive con carta e penna fuori dalle patrie galere, che Obama ha vinto le elezioni grazie ai social network o che Grillo usa il blog come se fosse un’agenzia di stampa. In cella il computer è vietato. In carcere internet è considerato al pari dell’eroina o del sesso. Tutto vietato! Come si può sostenere che la pena debba tendere alla rieducazione del condannato - in questo caso della condannata - se si vieta alla persona reclusa di stare al passo dei tempi? Internet non è il male. Ai detenuti e alle detenute - quanto meno alla gran massa degli stessi - va consentito l’uso delle mail, che non sono altro che lettere più rapide rispetto a quelle di un tempo.
Il carcere è spesso il luogo delle decisioni illogiche prese nel nome della sicurez-za, una illogicità che non viene messa in discussione neanche quando si tratta della ingiusta detenzione di un bimbo piccolo insieme alla propria madre. Non è la logica che governa il carcere. La discrezionalità tende a tracimare nell’arbitrio. Ci vorrebbe invece una più rigorosa regia che lasci meno spazi agli eccessi di custodialismo insensato. La pena detentiva è una pena a stare chiu¬si in carcere e non a stare chiusi in cella. La determinazione di alcune donne ha favorito l’allontanamento dei bimbi dalla sezione di alta sicurezza. È questo che intendiamo quando abbiamo, a proposito di Antigone, evocato la resistenza contro l’obbedienza.
Se il tema della detenzione dei bambini piccoli e delle loro mamme evoca pietà e solidarietà umana pur senza avere prodotto riforme efficaci nel nome della libertà e del rispetto dei diritti dell’infanzia, quello della detenzione durissima di persone ritenute pericolose pare che non si possa mettere neanche in discussione. Il regime di cui all’articolo 41 bis, secondo comma, dell’ordinamento penitenziario, riguarda oggi circa 600 persone. Del loro trattamento nessuno si preoccupa anzi il tema non può essere sollevato senza il rischio di essere accusati di profondo disinteresse verso la sicurezza dello Stato. La disumanità e la degradazione dell’uomo a oggetto non può mai trovare giustificazione, neanche nella ragion di Stato.