La doppia pena delle straniere in carcere

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Ana Aikawa
carteBollate - ottobre 2013

Intervistando una brasiliana le chiediamo quale è stata la peggiore cosa che le è successa dopo l’arresto. La risposta è stata di essere buttata in una cella in una delle carceri lombarde. Un vero inferno dove la maggior parte delle ragazze che si trovano là, è la prima volta che vedono un carcere.
La difficoltà è che non essendo nel proprio Paese dove puoi avere la possibilità di incontrare dei parenti, ti ritrovi senza un centesimo in tasca per poter comprare qualcosa da mangiare o per fumare, dovendo andare a letto con i crampi della fame, dovendo riempire la pancia d’acqua e pane, perché il mangiare è poco e a volte sembra un impasto adatto ai cani.

Facendo una analisi generale tante donne straniere si trovano in una situazione disperata, perché a parte il non capire una sola parola di quello che viene detto (soprattutto al momento dell’arresto) e il non riuscire a spiegarsi, il peggio è essere buttati in un carcere totalmente privo di strumenti per dare un ausilio alle nuove venute, che si pensa debbano rimanere per poco tempo. La mancanza di una psicologa che possa seguirti in un momento delicato come l’arresto influisce sullo status generale della straniera.

C’è anche l’impossibilità di avvisare i propri parenti dell’accaduto, soprattutto per ragazze che entrano nel mondo del crimine per la prima volta. Le ragioni che inducono alcune ragazze a commettere un reato, nella fattispecie quello di trasportare droga dal Sudamerica, sono molteplici e tutte motivate dalla disperazione. Ho conosciuto una brasiliana che ha fatto il viaggio per poter comprare le apparecchiature necessarie per il proprio figlio, nato con una forma di sindrome di Down e ora può solo contare sulla carità di chi ha preso a cuore la sua situazione.

E la pena è stata di quattro anni senza diritto all’espulsione. È giusto questo? La cosiddetta “mula” in genere affronta il viaggio inconsapevole della gravità dell’azione, spesso lo fa pensando solo ed esclusivamente ad aiutare i propri figli che si trovano, nella maggior parte dei casi, in una condizione di inedia. Per questo vengono ingannate con l’assicurazione che tutto andrà bene e caricate su un aereo, preso per la prima volta. Le autorità dovrebbero capire che chi fa il viaggio non appartiene a nessuna organizzazione e che non possono essere considerate alla stregua di un narcotrafficante, perché di fatto esse stesse sono vittime di organizzazioni criminali. L’arresto le separa traumaticamente dai propri figli, che devono essere cresciuti da altre mamme con altrettanti figli in uno stato peggiore di quello precedente all’arresto.

La solitudine è un grande problema. Il giorno del colloquio vediamo le donne (la maggior parte italiane) ricevere i parenti che portano amore, affetto e noi senza alcuna possibilità di ricevere un abbraccio, un bacio dalle nostre famiglie. I figli incontrano le loro madri e noi lontano da loro. Solo una madre può ca¬pire tanto dolore. La mancanza di comprensione, il preconcetto nell’accettarci e la difficoltà nell’adattarsi, sono barrie¬re quasi insormontabili. Fortunatamen¬te esistono persone buone e solidali che ci aiutano.

Oggi molto è cambiato; siamo più serene perché siamo giunte a Bollate: abbiamo più comodità e gli operatori di questo istituto ci trattano umanamente, abbia¬mo la possibilità di parlare delle nostre difficoltà e necessità e il più delle volte si trova una soluzione ai nostri problemi, anche se a volte ci si sente un po’ abbandonate. Qui ad esempio c’è un’educatrice, Anna Viola, che ha il compito specifico di occuparsi dei detenuti stranieri, è bene che si sappia che tramite la solita domandina si può chiederle un incontro e nel caso di problemi legali lo si può fare anche attraverso lo sportello giuridico. Naturalmente sarebbe bello se anche al femminile si organizzassero con lei degli incontri perché la maggior parte di noi non l’ha mai vista e non sa che esiste questa possibilità. Una pecca è che al femminile non abbiamo tante opportunità, come al maschile.

Soffriamo di una discriminazione in relazione a loro, sia per il numero delle attività interessanti, sia per le possibilità di limitare le restrizioni della carcerazione. C’è oltretutto la grande difficoltà nel recarsi al reparto maschile per effettuare qualche attività. Se potessimo avere più agevolazioni nel frequentare le stesse attività, la nostra detenzione avrebbe un senso e ci sentiremmo meno tristi. Viviamo con la speranza che le autorità interne prendano delle decisioni positive in un prossimo futuro e che guardino a noi con mag¬gior attenzione, anche se in quest’ultimo anno qualcosa è cambiato.

Sarebbe nostro desiderio riuscire ad avere un’infermeria tutta per noi, senza dover essere accompagnate tutte le volte all’infermeria del maschile (centrale). Insomma, compatibilmente con le restrizioni della vita carceraria, vorremmo avere gli stessi doveri, ma anche gli stes¬si diritti dei nostri compagni detenuti.
 
Ultima modifica il Mercoledì, 13 Novembre 2013 08:47
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