Corriere della Sera
29 09 2014
Sempre più numerosi gli stranieri nelle scuole italiane. Uniti in classe, separati al pomeriggio: secondo un sondaggio di Skuola.net, a frenare sono i genitori italiani
di Antonella De Gregorio
I ragazzi non conoscono barriere. Non puntano a isolarsi, creare gruppi chiusi. Non quanto gli adulti, almeno. Lo rivela un’indagine realizzata da Skuola.net per Corriere Scuola, che indaga come gli studenti italiani vedono i compagni stranieri e viceversa. Gli studenti che hanno risposto al sondaggio, un migliaio circa (divisi proporzionalmente in maniera analoga alla popolazione scolastica: 10% stranieri e 90% italiani), hanno permesso di scattare una fotografia di ragazzi che tendono a integrarsi e a frequentarsi fuori dalla scuola, a far amicizia tra di loro, senza distinzioni o chiusure in gruppi etnici. A fare resistenza, sarebbero piuttosto i genitori. Il 65% dei ragazzi afferma infatti che «i compagni stranieri sono uguali a tutti gli altri», il 75% degli stranieri dice di «voler fare amicizia con tutti», indistintamente. Ma sono le risposte relative agli scambi di visite per «fare i compiti insieme» a mostrare i muri che dividono: le occasioni di scambio capitano «spesso» al 12,9% dei ragazzi italiani, qualche volta al 44,9%, mai al 33,7%. E 8,5 italiani e 10 stranieri ogni 100 rispondono decisamente «no, perché i miei genitori non vogliono». In generale, i rapporti tra le due popolazioni sondate sono buoni per la maggioranza (72,7% è la risposta degli italiani; 61,6% dicono gli stranieri. Solo il 4,2% afferma che la diversità dei compagni crea diffidenza; il 30,5% riconosce la diversità, ma - dicono anche - «la cosa non mi condiziona».
Prove di integrazione
E però la cronaca parla di classi dove a far notizia è l’unica bambina con passaporto italiano che siede tra i banchi. E altre in cui il primo giorno di lezione i bambini si ritrovano divisi: stranieri in una stanza, italiani in un’altra. Scuole dove su dieci alunni, 8 non conoscono (o parlano poco) l’italiano. E poi ci sono avamposti del «meticciato» dove il numero di stranieri cresce anno dopo anno e gli italiani ritirano i figli e li iscrivono altrove. Succede a Padova; a Pratola Peligna, piccolo comune dell’Abruzzo; a Bologna; a Milano. Prove monche di integrazione, nelle scuole di un Paese dove siedono tra i banchi 850mila alunni di 190 nazionalità diverse, due volte più di dieci anni fa. E dove le sforbiciate alle spese hanno ferito anche il tessuto sottilissimo e delicato della formazione degli insegnanti e dell’orientamento dei ragazzi e delle famiglie.
Tagli
Sono spariti gli insegnanti di Italiano Lingua2, per esempio. Gli enti locali hanno sempre meno risorse e sono costretti a tagliare le ore di alfabetizzazione. Volatilizzate le ore di compresenza, che nelle classi a tempo pieno permettevano di fare recupero, lavorare a gruppi. Si toglie, mentre il numero di alunni stranieri aumenta: altri 30mila, nel 2014/2015, che vanno a gonfiare le statistiche. E che compariranno nel prossimo numero del rapporto annuale Miur-Ismu sugli «alunni con cittadinanza non italiana», che verrà pubblicato in marzo. «Erano 786.630 all’ultima rilevazione, l’8,8% della popolazione scolastica; oggi sono il 9,6%» conferma Vinicio Ongini, uno fra i massimi esperti di multiculturalità nella scuola italiana. Che aiuta a leggere tra i numeri: «Aumentano i nati in Italia: sono il 50%, spesso hanno fatto l’asilo o le elementari con i bimbi italiani e parlano l’italiano come e meglio di loro; calano - al 4% - i “neoentrati”, il segmento più critico: arrivano di solito per ricongiungimenti familiari, non conoscono la lingua e il più delle volte hanno un’età critica per la socializzazione».
L’Osservatorio
Per seguirne l’inserimento, per studiare le criticità, suggerire politiche scolastiche e nuove modalità di didattica e verificarne l’attuazione, è stato da poco costituito l’Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri. «In realtà ri-costituito - precisa Ongini - Nato nel 2006, con il governo Prodi, dal 2008 non veniva più convocato. Si ripromette di unire periodicamente intorno a un tavolo, ma anche di far dialogare a distanza, rappresentanti di alti uffici governativi, grandi associazioni internazionali e dirigenti scolastici delle scuole più multiculturali d’Italia, da Milano, a Roma, Trieste, Prato, Ancona. Realtà «ad alto impatto» (dove, cioè, la presenza di alunni con cittadinanza non italiana supera il 50%). Non sono moltissime, circa 450, concentrate per lo più al centro-nord (e 4 quelle dove la percentuale di stranieri è del 90%). Sono però la dimostrazione che non ha funzionato la famosa circolare Gelmini del 2010 che voleva imporre un tetto di presenza straniera del 30%. E rischiano di diventare enclave di gioventù di origine immigrata, isolate rispetto alla realtà degli autoctoni e lontane dall’idea di una multietnicità equilibrata, nonché dall’obiettivo di una piena integrazione.
Razzismo «istituzionale»
Il meccanismo che produce un’alta concentrazione di stranieri nelle classi, con inevitabili ripercussioni nella didattica, l’ha attentamente studiato Ivana Bolognesi, docente di Pedagogia all’Università di Bologna ed esperta di intercultura. Quando viene meno una politica capace di regolare flussi migratori molto consistenti, di disseminare l’arrivo dei nuclei familiari in tutti i centri abitati circostanti alle zone produttive, si creano forme di «razzismo istituzionale», spiega. Un razzismo «senza attori, che non agisce direttamente sull’immigrato, ma che produce la separazione e la ghettizzazione degli immigrati: gli italiani se ne vanno, mettendosi al sicuro in “scuole di italiani”». È successo a Padova, nella scuola materna Il Quadrifoglio, diventata un caso nazionale dopo la denuncia della mamma dell’unica bimba italiana tra 65 piccoli, figli di arabi, indiani, bengalesi, nigeriani, cinesi, rumeni e moldavi. E prima è successo a Luzzara (Reggio Emilia): 20 bambini in una prima elementare, tutti di origine straniera. O a Milano, in via Paravia, 18 iscritti, ma al primo giorno gli italiani si sono ritirati e si sono presentati 12 alunni in tutto. Nascono classi-ghetto, dove l’integrazione degli alunni stranieri diventa un miraggio e l’apprendimento degli allievi italiani rischia di subire un notevole rallentamento. Che fare? «Tocca a enti locali e istituzioni intervenire e gestire le iscrizioni, evitare concentrazioni di “conflittualità” e promuovere progetti volti all’integrazione tra gruppi culturali differenti. La scuola non può fare tutto», dice Bolognesi. «E va monitorato lo spostamento di famiglie italiane da una zona all’altra della città, non per la presenza di stranieri ma per degrado ambientale, disinvestimento delle politiche sociali-abitative». Le scuole, insomma, sono la punta dell’iceberg di un disagio che ha radici più ampie. Ma è in classe che si condensa la paura della diversità, che si avverte la minaccia per la propria lingua, la religione, i riferimenti culturali. La propria identità. «La scuola deve essere in grado di attivare al suo interno la partecipazione e il confronto tra genitori, riflettere sul dialogo come principio educativo indispensabile alla costruzione di processi di confronto e di scambi, di gestione dei conflitti, di superamento del reciproco “etnocentrismo”». E, sostiene la pedagogista «svolgere un ruolo propositivo, fatto di scelte educative e didattiche che possono rendere la qualità dell’offerta formativa elevata per tutti».