Dinamo Press
02 10 2014
La Trattativa", è l'occasione giusta per fare i conti con aspetti del potere e dell'economia del nostro paese che non sempre analizziamo a sufficienza.
Qualche giorno fa in Corte d'assise a Palermo, dove si sta celebrando il processo volgarmente detto “trattativa Stato-Mafia”, era di scena, in qualità di teste, l'ormai ultraottantenne Ciriaco De Mita. Concludendo un ragionamento, l'ex segretario Dc ha rievocato con sarcasmo un passato colloquio con il predecessore dell'attuale pubblico ministero, Nino Di Matteo: “... lo dissi già all'onorevole Ingroia quando mi sentì".
Di Matteo subito ha reagito: "Perché lo chiama onorevole?".
"Be' , so che si presentò alle elezioni", ha risposto De Mita.
"Ma non fu eletto", ha puntualizzato il pm.
"Ah, non lo elessero ? - ha riflettuto ad alta voce l'ex segretario democristiano - Pensi che non me lo ricordavo. Sa, l'età …".
La frecciata intinta nel veleno del politico irpino contiene la storia della vicenda della “trattativa” di cui sopra e dunque i suoi nodi problematici decisivi: il conflitto tra la sfera penale e quella politica, la necessità della magistratura di farsi attore politico e di trasferire in una congettura giudiziaria i processi sociali e rapporti di potere che hanno scritto la storia della Repubblica, da Portella della Ginestra a via D'Amelio, coinvolgendo stallieri in trasferta ad Arcore, fascisti in combutta coi servizi segreti, massoni in società con politici e uomini in divisa. Zone d'ombra di potere. Logge massoniche e clan criminali sono stati spazi di compensazione, accordo e incontro tra atlantisti anticomunisti, aspiranti golpisti e affaristi di ogni genere. Tutte cose che probabilmente configurano anche singoli reati ed evocano fattispecie penali ma che difficilmente troveranno sintesi coerente nel corso di un singolo processo, di un'unica resa dei conti tra i cavalieri del bene in toga e la forze del male in coppola e lupara. Per dirla in altri termini, come ha spiegato il giurista siciliano Giovanni Fiandaca in un pensoso saggio la pubblica accusa del processo sulla “trattativa” ha serie difficoltà a trovare persino un capo d'imputazione previsto nel codice penale. Non tutto il male può essere combattuto per via giudiziaria, dunque. E, come sperimentiamo da tempo con l'eterno ritorno del fantasma berlusconista, le faccende che riguardano i conflitti sociali e politici non possono essere delegate a chi opera nelle aule dei tribunali.
Degli ultimi venti anni di questa storia si occupa da tempo Sabina Guzzanti. Lo aveva fatto anche qualche anno fa, raccontando L'Aquila e strappando il sipario immondo dalla macchina mediatico-cementizia che ha supportato la costruzione selvaggia della new town (ogni progetto reazionario contiene elementi di perversione distopica, diremmo con Ballard) e disarticolato la città colpita dal terremoto e le sue relazioni sociali. “Draquila”, raccontava con lucidità questa versione berlusconiana della shock economy, metafora efficacissima della dilagante egemonia del neoliberismo all'italiana. Citizen BerlusKane come fenomeno complesso e pervasivo, impossibile da ridurre alla dimensione della corruzione e agli articoli del codice penale, dunque. Quel ragionamento prosegue nel nuovo film di Guzzanti, che si intitola appunto “La Trattativa” e che mette in scena la rappresentazione (in una raffinata e riuscita operazione di meta-teatro cinematografico che si riallaccia all'impegno di Gian Maria Volontè) si occupa di raccogliere la matassa di indagini, indiscrezioni, fatti di cronaca e analisi politiche che ruota attorno alla transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica. Il film ha il merito di farlo dentro e oltre le mere ricostruzioni processuali. Lo spiega chiaramente l'attrice e regista negli ultimi fotogrammi e nelle note diffuse alla stampa che lo accompagnano: “Nei quattro anni che sono stati necessari per la realizzazione di questo film, il processo sulla trattativa è stato popolarissimo, bistrattato, credibile, sputtanato, centrale, marginale, appassionante, indifferente”. E ancora: “L'illusione che le contraddizioni insanabili che paralizzano questo paese si possano risolvere nei tribunali è tramontata da tempo”.
Più che disegnare un processo unitario e coerente, noi abbiamo visto questo film come un sentiero lungo la storia degli assestamenti di potere e dei colpi e contraccolpi che accompagnano, dopo il crollo del muro di Berlino e la fine della Democrazia Cristiana, il riassestarsi di nuove forme di governo dei processi e di garanzia degli equilibri politico-mafiosi. Un sentiero che taglia trasversalmente i poteri, non risparmiando neanche la magistratura di Caselli e Tinebra o le forze di polizia di Mori e De Gennaro. Una storia tutt'altro che lineare, che procede per salti. L'interruzione improvvisa della strategia stragista, ad esempio, che conduce alla nascita di Forza Italia interroga più i contesti complessi di sociologi e analisti politici che le indagini giudiziarie. È una storia che accompagna l'egemonia di una nuova classe sociale che affonda le radici nella zona grigia tra mercato legale e affarismo criminale: la borghesia mafiosa. Solo quest'ultima ha la capacità unica di gestire l'accumulazione capitalista in un'area periferica, con il preciso scopo di introdurla selvaggiamente, in tempi rapidi e con l'ausilio di una violenza che le normali garanzie democratiche non consentirebbero, nel mercato.
La mafia, in altri termini, riesce a garantire quel mix di modernizzazione e arretratezza, di medioevo iperlocale e proiezione globale, che è una delle peculiarità della produzione contemporanea: la commistione di più tempi storicie la persistenza più modelli di produzione, da quello schiavistico a quello a capitalismo avanzato, all'interno dello stesso ciclo economico che sarà oggetto di analisi di molti pensatori postcoloniali. La borghesia mafiosa è probabilmente, dicevamo, la classe che più facilmente riesce a gestire la complessità di questa composizione produttiva: una trattativa si consuma ogni giorno sotto i nostri occhi, tra migranti che raccolgono i pomodori e caporali mafiose, tra studiosi precari e baroni nei centri di ricerca, tra lavoratori e padroni nella giungla della crisi e del mercato selvaggio.
L'anomalia della borghesia mafiosa italiana, rispetto a quelle del sud America o dell'Asia, è consistente e sotto gli occhi di tutti: essa controlla il territorio come avviene in zone della Colombia o della Thailandia. Ma questo fenomeno si presenta in un paese occidentale, che può (poteva) consentirsi una spesa pubblica corposa e che siede tra le potenze economiche del pianeta. Ecco perché negli anni della Prima Repubblica l'alleanza tra borghesia mafiosa e ceto politico si è cementata in nome dei valori universalmente riconosciuti del “progresso” e dello “sviluppo”. Ed ecco perché negli anni scorsi ha funzionato la stravagante alleanza romana tra la Sicilia dell'ein plein di Forza Italia (nel 2001 qui Berlusconi conquista 61 collegi su 61) e le terre del Nord di Umberto Bossi e Giulio Tremonti.
Francesco Raparelli e Giuliano Santoro