Il Manifesto
29 07 2014
Oltre mille morti, tremila feriti, duecentomila sfollati. Una regione al collasso per i pesanti bombardamenti subiti e per i combattimenti ancora in corso. La maggioranza delle vittime è composta da civili (tra i morti anche giornalisti e fotografi, compreso l’italiano Andrea Rocchelli) mentre il governo di Kiev si scopre – come prevedibile – traballante e senza un parlamento in grado di sostenerlo: la camera nei giorni scorsi ha votato contro le leggi che dovrebbero permettere di ricevere gli aiuti del Fmi, procurando le dimissioni del premier, e ieri ha invece approvato – su indicazione del premier uscente Yatseniuk — una nuova tassa per finanziare l’esercito impegnato a riconquistare le regioni orientali.
É la fotografia dell’Ucraina, in parte scattata ieri dal quarto rapporto dell’Onu dall’inizio della crisi. Una relazione che mostra ancora una volta quanto molti media, specie nostrani, hanno tentato di minimizzare nel corso degli ultimi mesi: in Ucraina c’è una guerra in corso, con l’utilizzo di armi pesanti, bande e gruppi paramilitari che imperversano e un numero di vittime altissimo. L’Alto commissario Onu per i diritti umani, Navi Pillay, ha sottolineato che da metà aprile al 26 luglio, i morti nel conflitto sono almeno 1.129, mentre sarebbero 3.442 i feriti. «Paura e terrore sono state inflitti dai gruppi armati sulla popolazione dell’Ucraina orientale», mentre l’abbattimento dell’aereo malese, può essere considerato un «crimine di guerra».
Navi Pillay ha infine sottolineato come fattore «imperativo», l’apertura di «un’inchiesta rapida, minuziosa, efficace ed indipendente» sui fatti. Nel rapporto, l’Onu accusa entrambe le parti, invitando a «cercare di evitare che altri civili possano essere uccisi o feriti». Ma i combattimenti continuano, rendendo difficile e arduo il lavoro degli esperti, che dovrebbero condurre le indagini sul luogo dove è stato rinvenuto il relitto dell’aereo malese abbattuto. Ieri il team di poliziotti olandesi e australiani, ha rinunciato a raggiungere la zona dove si trovano i resti dell’aereo, a causa dei forti scontri nell’area, risoltisi in serata con la conquista della zona da parte delle forze ufficiali dell’esercito ucraino. Tutto questo, mentre arrivavano le prime conclusioni delle analisi sulle scatole nere del velivolo abbattuto. Secondo i dati recuperati, l’aereo della Malaysia Airlines sarebbe stato distrutto da una «forte decompressione esplosiva» provocata dalle schegge di un missile. Ad affermarlo, secondo quanto riportato dal Wall Street Journal, sarebbe stato il colonnello Andriy Lysenko, portavoce del Consiglio di sicurezza e difesa ucraino.
Sulla vicenda, che potrebbe essere dirimente nell’attuale conflitto in corso, ieri è intervenuta la Russia, nell’ormai classico botta e risposta con la Casa Bianca. Mosca ha contestato l’autenticità delle immagini pubblicate da Washington nei giorni scorsi, che proverebbero il coinvolgimento diretto della Russia nei bombardamenti contro le postazioni militari ucraine. Secondo il portavoce del ministero della Difesa russo, Igor Konashenkov, a causa dell’assenza di localizzazioni precise e della scarsa risoluzione delle immagini «è impossibile stabilire l’autenticità» delle fotografie satellitari. La Russia – infine — è tornata ad avvisare gli Usa contro un possibile invio di armi al governo a Kiev. «Una misura del genere non farebbe altro che spingere ad una soluzione non negoziale del conflitto» ha detto il ministro degli Esteri Lavrov che ha chiesto inoltre a Washington di fornire «finalmente» le informazioni sui presunti consiglieri militari Usa che starebbero aiutando il governo ucraino. «Da tre mesi chiedo al segretario di Stato americano se siano vere le notizie riguardo ai 100 esperti americani nel consiglio di sicurezza ucraino, ma finora non ho ricevuto risposta» ha detto il ministro. Obama ha risposto ieri a seguito di una conference call con il presidente francese Hollande, la cancelliera Angela Merkel, il premier Matteo Renzi e il britannico Cameron. I cinque hanno deplorato «che la Russia non abbia fatto effettive pressioni sui separatisti per indurli a negoziare e non abbia assunto le misure concrete che si attendevano da essa per garantire il controllo della frontiera russo-ucraina».
Il Manifesto
22 07 2014
Polonia. I medici sottoscrivono una «dichiarazione di fede» per disattendere la già restrittiva legge. Viaggio nel Paese ipercattolico dove è legale solo l’interruzione di gravidanza terapeutica, eppure a causa dell’alta percentuale di medici obiettori di coscienza le donne sono alla mercé delle "mammane" o costrette a espatriare verso le cliniche slovacche. Ma stavolta il premier Donald Tusk ha richiamato i sanitari agli obblighi di legge. Un primo piccolo argine ai fondamentalisti
Tutto è pronto per partire. Le due piccole valigie sono state caricate nel portabagagli. Sarà un soggiorno breve. Si tornerà a casa il più presto possibile. Il viaggio sarà lungo. Per arrivare a Levice, una piccola città della Slovacchia, da Varsavia ci vogliono 8–10 ore di macchina. Piotr, 26 anni, studente universitario, ha pensato che fosse meglio partire in prima serata, fare la strada con calma, magari una piccola sosta per sgranchire le gambe e riposare qualche ora, così da arrivare puntuali alla clinica. Con lui c’è Magda, la sua ragazza, 24 anni, anche lei studentessa universitaria. Giungono a Levice alle 9,30. L’appuntamento era stato fissato per le 10 del mattino. Alla reception, i due ragazzi vengono accolti da un’infermiera che li fa accomodare davanti una scrivania con un computer per espletare i documenti e procedere al pagamento dell’intervento: 350 euro. Subito dopo, Piotr viene cortesemente invitato a lasciare il reparto e tornare dopo le 2 del pomeriggio.
La coppia chiede di restare insieme, ma l’infermiera risponde che non è possibile perché in sala operatoria si trova un’altra ragazza, anche lei polacca, e per motivi di privacy non è permesso a nessuno la permanenza. Lui abbraccia Magda e va fuori. Giusto il tempo di fumare un intero pacco di sigarette e fare avanti e indietro lungo il vialetto che porta all’entrata della clinica e sono già le due. Piotr torna dentro il reparto, e poco dopo esce insieme a Magda. L’intervento è pienamente riuscito. La tiene stretta a lui, la consola e gli asciuga le lacrime che le solcano il viso. Non c’è tempo per fermarsi, devono subito ripartire per Varsavia.
Vi sembra una storia romanzata? Non lo è. Le uniche parole di fantasia sono i nomi dei due ragazzi. Il resto è il racconto di una delle tante, tantissime coppie polacche che ogni giorno affollano il reparto di ginecologia della Mediklinik di Levice. A prima vista sembra una cittadina anonima, fuori dai circuiti turistici. Niente meraviglie architettoniche o musei da urlo, ma il centro storico è curato e le strade sono pulite, e c’è anche un grande parco pubblico pieno di mamme con i passeggini, anziani che siedono sulle panchine e coppiette di adolescenti che amoreggiano. La clinica si trova a 10 minuti di macchina dalla stazione ferroviaria, in una collina immersa nel verde e nella tranquillità. E’ specializzata in ortopedia, chirurgia estetica e (da alcuni anni) aborto terapeutico. Sul sito web (www.mediklinik.sk) è possibile leggere in polacco tutte le informazioni necessarie. Basta telefonare, fissare l’appuntamento e presentarsi in clinica. Tutti gli esami verranno effettuati prima dell’intervento. Il tutto dura poche ore e poi si può tornare a casa. Il personale medico ed infermieristico parla polacco (slovacco e polacco in paragone sono come spagnolo e italiano) e rende meno traumatica la degenza delle pazienti.
Zoltan Csendes, direttore della clinica, ci dice che l’80% di chi viene qui per l’aborto terapeutico è polacco, ragazze tra i 20–25 anni. In media vengono effettuati 4 interventi al giorno. Il costo dell’operazione è la metà, rispetto ad una clinica privata in Germania o Gran Bretagna, e vista la ristrettissima legge polacca sull’aborto, sono tanti quelli che scelgono di mettersi in viaggio per Levice invece di trovare un ginecologo compiacente in Polonia per l’aborto clandestino, il cui costo varia dai 2 ai 4 mila zloty (500–1.000 euro). Non esistono dati ufficiali, ma le associazioni per i diritti delle donne calcolano che in Polonia ogni anno vengono effettuati circa 180 mila aborti clandestini. Nella maggior parte dei casi, l’intervento chirurgico viene fatto in appartamenti privati, in un ambiente poco sterile e con l’ansia costante del medico che vuole portare a termine l’operazione nel più breve tempo possibile. Se viene scoperto, finisce in galera.
Tutto ciò, ovviamente, se hai i soldi per farlo. In caso contrario, ci sono le “mammane”. È nelle campagne, lontano dalla modernità, che si consuma la tragedia di tante giovani donne. «Molte arrivano in ospedale quando oramai non c’è più nulla da fare perché hanno perso troppo sangue», si confida il dottor M., che ci chiede l’anonimato. Lavora nel reparto di ginecologia in un ospedale pubblico di Poznan. «La situazione in Polonia è drammatica – continua – non solo per le donne, ma anche per i medici. I direttori di molti ospedali sono legati a doppio filo alla politica e hanno amicizie influenti nelle gerarchie ecclesiastiche. Sono loro che dettano la linea, e se la politica ufficiosa dell’ospedale è quella di dire no all’aborto, sempre e comunque, anche i medici non obiettori sono tenuti a farlo. In caso contrario perdi il lavoro».
Abbiamo provato a fare un giro negli ospedali di Varsavia e di Poznan, cercando di parlare dell’argomento scottante con i dottori e gli infermieri in servizio. «No comment», è l’atteggiamento generale. Un’infermiera a Varsavia ha tagliato corto dicendo che «in questo ospedale siamo contro l’aborto, non ci interessa altro». Ed è proprio da queste parole che viene fuori una realtà imbarazzante e paradossale. Pur avendo una donna i requisiti di legge necessari per poter chiedere l’interruzione legale della gravidanza, ciò viene sistematicamente ignorato dalla maggior parte delle strutture sanitarie nazionali.
L’aborto terapeutico viene percepito come un crimine da una parte del mondo medico ed un serio ostacolo alla carriera, salvo poi, per molti di loro, spartirsi senza rimorsi di coscienza il ghiotto mercato degli aborti clandestini. Nel mese di maggio, 3 mila medici hanno firmato una «dichiarazione di fede» in cui chiedono gli sia riconosciuto il diritto di operare in linea con le proprie convinzioni religiose e rigettano alcune pratiche mediche come l’aborto, la contraccezione, la fecondazione in vitro e l’eutanasia. Un documento fortemente appoggiato dalla Curia polacca e dal partito ultraconservatore Prawo i sprawiedliwosc (Pis, Legge e giustizia) che vuole rendere l’aborto completamente illegale. Il governo polacco, stavolta, non ha fatto orecchie da mercante. Il premier moderato Donald Tusk ha sottolineato che «i medici sono obbligati a rispettare la legge; ogni paziente deve essere sicuro che i dottori applicheranno tutte le procedure necessarie in accordo con la legge».
Che sia il primo stop contro l’invadenza della Chiesa Cattolica nella vita pubblica del Paese? Forse no, ma è un passo avanti.
Il Manifesto
10 07 2014
Artiste. Un'intervista con la fotografa yemenita Boushra Almutawakel, in mostra a New York presso la galleria Howard Greenberg. «L'occidente è pieno di stereotipi nei nostri confronti, pensa che siamo vestite di nero 24 ore su 24. E trovo inutile discutere se sia giusto o no portare il velo...Noi, abbiamo altro da fare»
Il filo di perle non spunta più dalla camicetta verde, quando Boushra Almutawakel (Sana’a, Yemen 1969) avvolge il capo nell’hijab nero. Procede lentamente davanti alla parete della galleria Howard Greenberg di New York, dove si susseguono nove fotografie della serie Mother, Daughter, Doll (2010), esposte in occasione della mostra The Middle East Revealed: A Female Perspective (visitabile fino al 30 agosto).
È riconoscibile il suo volto, quello di una madre con la sua bambina che, a sua volta, stringe protettiva la bambola. Sagome che progressivamente perdono la spensieratezza annullando colori e profili in un nero cupo che parla da sé. I primi schizzi e l’idea iniziale risalgono al 2008, ma solo due anni dopo la fotografa yemenita ha avuto l’occasione di realizzare il progetto durante un workshop.
«Dovevamo organizzare un set e le foto sarebbero state esposte in occasione della mostra finale — spiega Boushra Almutawakel — Inizialmente pensavo di fotografarmi insieme a tutte e quattro le mie figlie, ma risultò troppo difficile, così alla fine è presente solo una di loro. Il lavoro non è che la mia osservazione su una situazione molto conservatrice come quella dello Yemen, che oggi è ancora più «chiuso» di un tempo. Riguarda vari settori, uno è il modo in cui non solo le donne devono coprirsi, ma anche le ragazze. Come adulta, personalmente, non sono contraria all’uso dell’hijab. Il motivo è coprirsi alla vista degli uomini. Ma non funziona. Anche se ci copriamo dalla testa ai piedi, gli uomini ci trapassano con lo sguardo e fanno commenti. Invece di dare tutta la responsabilità alle donne, è necessario che gli uomini si assumano le loro e comincino a rispettarci come esseri umani».
Nel 2005–2006, in Yemen, lei ha lavorato per il Ministero dei diritti umani per mettere a fuoco la condizione femminile nel suo paese, tematica centrale anche nel suo lavoro artistico… Qual è la forza di uno strumento come il linguaggio fotografico?
Da parte mia, almeno all’inizio, non c’era la consapevolezza delle potenzialità di questo strumento. Ma, fin dall’inizio, sono rimasta molto sorpresa dalle reazioni che ho registrato — in Yemen e fuori — nei confronti del mio lavoro e di quello di altre artiste. Mi colpiva soprattutto come le persone discutessero fra loro, arrivando quasi a combattere. È molto potente che io possa dire qualcosa con la fotografia. Forse è più accettabile per la società che io sia un’artista visiva. Se fossi stata una scrittrice, non sono certa che avrei potuto dire le stesse cose. Posso esprimermi, anche se non a tutto il mio pubblico piace quello che dico e porto alla luce con i miei argomenti.
«Mother, Daughter, Doll» (2010) è una delle sue serie più famose. Vedendo la sequenza luminosa che si conclude con il buio totale che avvolge le figure, mi è venuto in mente un mio ricordo di Sana’a di qualche anno fa, quando sono stata in un vecchio hammam. Lì, naturalmente, le donne, che in giro sono velatissime (quasi tutte indossano anche guanti neri) erano spogliate e sembravano unite da una certa complicità. In occidente vige l’idea di una sorta di schizofrenia che vive la donna araba indossando il velo. Come risponde?
In Yemen non ci si rende neanche conto di questo. È una società molto segregativa. Come nell’hammam, ci si riunisce tra donne anche in altre occasioni. Pure gli uomini lo fanno tra di loro. Non usiamo mischiarci. Non so se lei ha mai frequentato qualche festa. In tali occasioni, le donne curano molto il loro abbigliamento e indossano abiti scollati e sexy, perché si sentono libere di poterlo fare. È in Occidente che c’è chi non capisce questa realtà. Si pensa che siamo vestite di nero 24 ore su 24. Ma quella è una parte della nostra esistenza. E non ha importanza solo ciò che indossiamo. Abbiamo una testa, un cuore, un’anima, dei pensieri. Vederci in quel modo, è uno stereotipo. Lo è anche ragionare sull’essere favorevoli o meno al velo.… La vita per noi va avanti e non stiamo certo a pensare che stiamo indossando l’hiqab o l’hijab. Abbiamo ben altro da fare.
Ricevere nel 1999 il titolo di «Prima Donna Fotografa dello Yemen» da parte dell’Empirical Research and Women’s Studies Centre dell’Università di Sana’a le ha dato delle possibilità in più?
È stato un progetto della mia insegnante di Studi sulla Donna. Rauffa Hassan, che ora non c’è più… era una persona meravigliosa. Era femminista e all’epoca stava scrivendo un libro sulle pioniere in Yemen. Nell’elenco, che include anche la prima donna che è andata in bicicletta in pubblico, la prima pilota, il primo medico… ci sono finita pure io. Ha intervistato ognuna di noi e ci ha invitate in occasione di quell’evento. È stato un modo per riconoscere il mio lavoro, ma non credo che mi abbia dato altre opportunità.
Ha mai avuto problemi nello svolgere il suo lavoro artistico?
Forse sarebbe stato differente se non fossi stata sposata. Il matrimonio mi ha dato una grande libertà. Sono stata fortunata perché mio marito è molto aperto e mi supporta. Sì, comunque, in alcune occasioni ci sono persone che non si sono fatte fotografare perché ero donna o altre che mi hanno in presa in giro. Se mi fossi lasciata condizionare sarebbe stato pesante, ma non ci ho fatto caso. Piuttosto, le difficoltà maggiori sono state quelle di trovare delle risorse per andare avanti.
Il Manifesto
01 07 2014
Spazi sociali. Tutti insieme come non accadeva da tempo. «Gli spazi occupati e autogestiti sono un bene comune della città. Fissato un confronto con il vicesindaco Nieri. Domani al Campidoglio assemblea tra movimenti e amministratori sull'articolo 5 del piano Casa Lupi
Si sono presentati in più di cento a bussare alle porte del dipartimento al Patrimonio di Roma Capitale, la cui delega è in mano al vicesindaco di Sel Luigi Nieri. Attivisti di una coalizione di «spazi sociali e autogestiti». Ci sono le occupazioni «storiche» della città come il Corto Circuito e il Forte Prenestino, nate tra la fine degli anni ’80 e i primo ’90. Poi ci sono l’Angelo Mai, il Teatro Valle Occupato, il Cinema Palazzo, gli studentati autogestiti, e i centri sociali degli anni Duemila come l’Astra, Esc, Strike, Spartaco, Acrobax. Poi Communia, la Torre, Scup, Officine Zero.
Tutti insieme come non accadeva da tempo, tutti insieme per pretendere dalla giunta di Ignazio Marino impegni chiari, per difendere l’«anomalia romana» fatta di decine di occupazioni abitative, ma anche di straordinarie e longeve esperienze di autogestione e recupero di spazi nei territori. La storia degli spazi occupati e autogestiti ha cambiato il volto e la geografia di Roma negli ultimi anni, un patrimonio incredibile che ha coinvolto generazioni e migliaia di persone.
«Abbiamo occupato spazi lasciati all’abbandono o alla speculazione, recuperandoli con le nostre forze all’uso pubblico e condiviso, raccogliendo autonomamente le risorse per sostenere la continuità e il proliferare delle attività», spiegano gli attivisti mentre espongono cartelli e striscioni. «Gli spazi occupati e autogestiti sono un bene comune della città, esperimenti avanzati di creazione e gestione collettiva. Non corrispondono ai canoni dell’amministrazione pubblica né tantomeno a quelli dell’uso privato.
Sono progetti di autovalorizzazione del patrimonio, a partire dall’uso e non dal valore, che l’amministrazione dovrebbe riconoscere nella loro specificità, garantire e tutelare favorendone lo sviluppo. Invece, appellandosi alla legalità e adottando un criterio rovesciato di giustizia, il Dipartimento del Patrimonio batte cassa e cerca di regolare il bilancio disastroso del Comune di Roma presentando il conto proprio ai centri sociali, mentre agisce l’emergenza abitativa sgomberando gli occupanti e garantendo la rendita immobiliare». Alla fine di un incontro amministrazione e spazi sociali si sono riconvocati per un tavolo con il vicesindaco Nieri il prossimo lunedì «per affrontare le questioni più urgenti che sono sul piatto e iniziare un percorso di confronto».
Proprio oggi il Marino e il Prefetto Pecoraro avrebbero dovuto incontrarsi per discutere della sicurezza a Roma e dello sgombero di 60 edifici, annunciati a mezzo stampa dalla Procura dove sulle occupazioni sta lavorando il pool antiterrorismo. L’incontro potrebbe essere sfumato per i guai della Giunta Marino, sempre più ostaggio dei vincoli di bilancio con venerdì in agenda l’appuntamento con il premier Renzi a cui il primo cittadino della Capitale dovrà presentare il piano di rientro, pena il commissariamento.
Domani invece nella sala del Carroccio in Campidoglio i movimenti per il diritto all’abitare hanno incontrato ad un confronto «tutti gli amministratori capitolini e i parlamentari romani, i Consiglieri, gli Assessori e i Presidenti dei Municipi, come i Consiglieri e gli Assessori Comunali, insieme ai rappresentanti delle forze politiche, dei sindacati, delle associazioni e dei movimenti che hanno a cuore i diritti e la dignità delle persone».
All’ordine del giorno l’articolo 5 del Piano Casa del governo Renzi: «come si può pensare di staccare le utenze a migliaia di persone? A impedire di prendere la residenza ai cittadini che vivono stabilmente, magari da un decennio, in una casa? Le amministrazioni e le istituzioni che si dicono contrarie agli sgomberi e all’applicazione dell’articolo 5 come vogliono contrastarlo concretamente?».
Queste le domande che i movimenti porranno ad amministratori e figure istituzionali ad ogni livello. Intanto l’estate si avvicina, e occupanti e occupazioni sperano almeno in una tregua. Ma le intenzioni di una giunta potrebbero non bastare di fronte alle volontà della magistratura e del ministero degli Interni.
Il Manifesto
01 07 2014
L’effimero e ipocrita «mai più» dopo l’ecatombe di Lampedusa del 3 ottobre 2013 si è scolorato ormai fino a cancellarsi. Al punto che nel giorno dell’ennesima strage — 30 morti asfissiati — nel Canale di Sicilia, con involontario senso dell’umorismo nero il «nostro» Renzi c’invita all’euforia: anche noi dovremmo provare un brivido di piacere per essere chiamati (noi?) a realizzare il sogno degli Stati Uniti d’Europa.
Non commuove più, neanche per un giorno, la teoria quasi quotidiana dei cadaveri restituiti dal Mediterraneo o persi nei suoi abissi. Oppure, come quest’ultima volta, intrappolati in imbarcazioni troppo anguste per contenere tutta l’ansia di salvezza di esseri umani travolti dal disordine mondiale, spesso provocato o favorito dalle grandi potenze. Quel disordine ha costretto ben 51 milioni di persone (un dato della fine del 2013) a fuggire da conflitti armati o altre gravi crisi, come ha ricordato l’Agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite.
Questa cifra, la più alta dalla fine della Seconda guerra mondiale, è costituita per la metà da bambini.
Ma neppure il loro numero crescente, fra salvati e sommersi, muove a compassione collettiva, tale da farsi indignazione pubblica e protesta organizzata, di dimensione e forza continentali, contro la fortezza europea. Neppure le iniziative di movimento, coraggiose ma ancora sporadiche - come la recente Freedom March di rifugiati e migranti, che, con il No Borders Train, ha violato le frontiere per giungere a Bruxelles - ce la fanno a competere col mare d’indifferenza che riduce questa tragedia a vile computo di salme o la volge a proprio vantaggio politico. Che sia l’ondata nera di partiti che in tutt’Europa s’ingrassano di risentimento e xenofobia o la retorica dei Renzi e degli Alfano contro l’Unione europea cinica e bara, «che ci lascia soli e lascia morire le madri con i bambini».
Intanto Alfano lascia morire di disperazione una madre strappata ai cinque figli, quattro dei quali minorenni, per essere ristretta in un Cie e poi «rimpatriata» - lei apolide, in Italia da vent’anni - in una «patria», la Macedonia, di cui non è cittadina.
Anche noi, ridotti all’impotenza, ricorriamo alle cifre per tentare di scuotere qualche coscienza mostrando la dimensione mostruosa dell’ecatombe.
Malgrado Mare Nostrum, in questi primi cinque mesi del 2014, quasi quattrocento sono probabilmente i morti di frontiera nell’area del Mediterraneo.
Ed essi vanno ad aggiungersi ai ventimila cadaveri conteggiati approssimativamente dal 1988 a oggi.Ridotti ogni volta a computare i morti, quando dovrebbe bastare un solo cadavere di bambino a suscitare commozione, indignazione e rivolta, neanche noi siamo innocenti, noi che almeno ci ostiniamo a denunciare la strage.
Ma la nostra denuncia è impotente a scuotere perfino la sinistra politica italiana detta radicale, che sembra aver derubricato a faccenda minore, da delegare a qualche specialista o a qualche fissato/a, una questione che invece è il senso (o uno dei sensi cruciali) dell’Unione europea oggi.
La quale coltiva l’illusione che il proprio sovranazionalismo, esemplarmente rappresentato dalla fortezza in cui pretende di barricarsi e da Frontex, che ne è il braccio armato, possa contrastare i nazionalismi, anche aggressivi, nominati con l’etichetta eufemistica di euroscetticismo, che vanno rafforzandosi per reazione agli effetti sociali disastrosi della crisi economica e delle politiche di austerità.
È da molti anni che le associazioni per la difesa dei migranti e dei rifugiati propongono un programma – razionale, articolato, perfino realistico, nonché aggiornato di volta in volta - per cambiare il segno delle politiche italiane ed europee su immigrazione e asilo.
Per parlare solo dei rifugiati, si dovrebbe almeno riformare radicalmente Dublino III, che impedisce ai richiedenti asilo i movimenti interni al territorio dell’Ue; soprattutto, come raccomanda lo stesso Commissariato Onu per i rifugiati-Unhcr, creare corridoi umanitari e garantire l’effettivo esercizio del diritto d’asilo in tutti i paesi di transito, «con adeguate garanzie di assistenza e protezione per chi è in fuga da guerre e persecuzioni».
Non sono i programmi a mancare, dunque, bensì la volontà politica di uscire da quel paradigma nefasto che concede ai capitali il massimo di libertà di circolazione - e di dominio sulle nostre vite - negandola alle vite, ancor più irrilevanti, dei dannati della terra.
Il Fatto Quotidiano
26 06 2014
La tortura non è un reato. Non lo è in Italia dove il Papa ci ricorda che è almeno un “peccato mortale”. Ma è un reato secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo che ci condanna per l’ennesima volta.
Dimitri Alberti, un cittadino italiano della provincia di Verona, viene arrestato dai carabinieri in un bar. Quattro ore più tardi è in carcere con tre costole fratturate e un ematoma al testicolo sinistro che, secondo i giudici europei “appaiono incompatibili sia con una condotta legale dei carabinieri che con la tesi, sostenuta dai militari, che Alberti se le fosse inflitte da solo”.
Quest’ultima frase la leggo sul Manifesto. Uno dei pochi quotidiani che riportano la notizia. Eppure oggi è la giornata internazionale a sostegno delle vittime di tortura, la Nazionale torna sconfitta dal Brasile: la stampa dovrebbe avere una distrazione in meno e più tempo per concentrarsi su questioni importanti.
Pare che anche Renzi sia uscito dall’aula del Senato per andarsi a vedere la partita. Adesso speriamo che rientrino tutti per votare una legge contro la tortura che in Senato è già passata, ma deve essere approvata alla Camera. Ce lo chiede l’Onu e ce lo ricorda l’Europa con l’ennesima condanna.
Siamo fuori dal mondiale del calcio, ma almeno cerchiamo di entrare nel mondo civile.
Ascanio Celestini