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CORRIERE DELLA SERA

Corriere della Sera
09 04 2015

Spari in un’aula di Palazzo di Giustizia di Milano. A sparare in tribunale sarebbe stato Claudio Giardiello, imputato per bancarotta fraudolenta.

Secondo quanto raccontano gli avvocati presenti in aula, l’uomo ha sparato dopo che il suo difensore ha rinunciato al mandato.

Ha sparato contro un testimone e poi contro altri due uomini seduti nelle panche riservate al pubblico. Ci sarebbero almeno due morti. L’uomo sarebbe in fuga, ma ancora all’interno del palazzo di Giustizia milanese.


Condannata a 20 anni per "feticidio"

La 27 Ora
02 04 2015

Testa china e sguardo basso. Parvi Patel, 33 anni, ha cercato di nascondere il viso dietro ai lunghi capelli neri lasciati sciolti. Nessun commento ai cronisti che l’aspettavano fuori dall’aula del tribunale di South Bend, in Indiana. La donna ha preferito continuare a camminare, con le mani ammanettate dietro la schiena e scortata dagli agenti della polizia penitenziaria. Patel è la prima donna negli Stati Uniti ad essere stata condannata a oltre vent’anni per feticidio e abbandono di minore. Accuse che la donna ha sempre respinto: “Ho avuto un aborto spontaneo, non sapevo cosa fare ero terrorizzata”.

Questo caso preoccupa le associazioni che si occupano di diritti delle donne e sta facendo discutere negli Stati Uniti attivisti ed esperti legali. Sotto la lente d’ingrandimento c’è la macchina legislativa dello stato dell’Indiana, la quale non è la prima volta che mette sotto accusa una donna per ragioni simili.

Era il 13 luglio 2013 quando Patel è entrata al St Joseph Regionale Medical Center, ospedale di Mishiwaka, cittadina di 50mila persone. La donna sanguinava e, secondo Kelly McGuire, il ginecologo che l’ha visitata, aveva il cordone ombelicale che le penzolava tra le gambe.

La donna ha spiegato ai medici di aver scoperto di essere incinta tre giorni prima, dichiarazione poi confutata in aula. Quel pomeriggio ha cominciato ad avere dei dolori forti alla schiena e quando si è rifugiata nel bagno del ristorante dei genitori ha avuto un aborto spontaneo. Quando ha visto il feto senza vita, ha provato a rianimarlo, poi nel panico ha tagliato il cordone e l’ha buttato nel cassonetto dietro l’uscita secondaria del locale. McGuire ha subito informato la polizia e insieme sono andati a cercarlo. Il medico ha subito pronunciato la morte del feto.

Patel è stata prima accusata di abbandono di minore e quindi di feticidio. Secondo la ricostruzione della procura la donna ha comprato su internet delle pillole abortive illegali, perché terrorizzata dalla possibile reazione della famiglia. Ma negli esami del sangue non c’è traccia di questa droga. L’accusa si è basata su un sms che la donna avrebbe mandato a un’amica. Non è chiaro nemmeno di quante settimane la donna fosse incinta. Gli esperti chiamati in tribunale da entrambe parti non mai stati d’accordo e parlano di un feto tra le 23 e le 30 settimane.

Sono almeno 38 gli stati che hanno una legge sul feticidio, ma fino adesso è stata usata per violenza sulle donne incinta e aborti illegali.

In Indiana un’altra donna è stata accusata di feticidio. Bei Bei Shuai ha cercato di suicidarsi con veleno per topi e ha avuto un aborto alla 33esima settimana. La donna, di origini cinesi, si è sempre dichiarata innocente per questa accusa, mentre si è dichiarata colpevole per avventatezza. La donna ha patteggiato ed è stata in carcere 435 giorni prima di essere rilasciata su cauzione.

Dopo la sentenza di Patel, gli attivisti si sono detti preoccupati. Lynn Paltrow, direttore del National Advocates for Pregnant Women, ha spiegato in una nota che “la durata crudele di questa sentenza è la prova che leggi come quella sul feticidio e le altre misure promosse dalle organizzazioni contro l’aborto, puniscono le donne e non le proteggono”.

Sulla stessa linea Alexa Kolbi-Molinas, consulente legale dell’American Civil Liberties Union (ACLU). “Queste leggi prendono di mira le donne più vulnerabili”, ha detto a Vice.

Infatti molti medici medici in Indiana hanno paura che le donne delle comunità emarginate smettano di curarsi o di fidarsi dei medici.

“Se si scoraggiano le donne incinte ad andare ai controlli medici per paura di essere accusate di feticidio, non si stanno proteggendo i feti, ma li si mette in pericolo”, ha dichiarato David Orentlicher, medico ed ex rappresentante nel governo dell’Indiana.

Benedetta Argentieri

Corriere della Sera
02 04 2015

Caro direttore, nelle scorse settimane sono state promosse in Parlamento due iniziative parallele, entrambe su questioni ruvidamente controverse. La prima ha portato alla costituzione di un intergruppo parlamentare favorevole alla legalizzazione della cannabis; la seconda è finalizzata alla depenalizzazione delle fattispecie che variamente, nel codice penale, si riferiscono all’eutanasia. Nel primo come nel secondo caso, le adesioni hanno raggiunto un numero consistente, pur rappresentando solo una minoranza rispetto al totale di deputati e senatori.

Ma l’anomalia che emerge è, piuttosto, un’altra. Scorrendo l’elenco dei sottoscrittori, un dato balza agli occhi: tra chi aderisce alla prima iniziativa e chi aderisce alla seconda risultano solo parlamentari appartenenti al centrosinistra e alla sinistra (se si considerano in qualche modo all’interno di quest’area anche quelli del Movimento 5 stelle). Con due sole e isolatissime eccezioni: all’appello per depenalizzare l’eutanasia aderisce Daniele Capezzone (Forza Italia), all’intergruppo per la legalizzazione della cannabis Antonio Martino (Forza Italia).

Dunque, risulta una sovrapposizione quasi perfetta tra schieramento di centrosinistra e sinistra e domanda di diritti di libertà e di autodeterminazione. In altre parole, la frattura destra/sinistra in Italia, nella sfera politico-parlamentare, sembra collocare tutti i fautori di più libertà civili e sociali in un campo e tutti i critici di quelle stesse libertà civili e sociali nel campo opposto. E, infatti, poco più movimentata appare anche la situazione dei due schieramenti intorno alla tematica delle unioni civili.

Ovvio che si tratta di problematiche, per così dire, estreme: ma non c’è dubbio che rimandino a un principio di autonomia individuale e di indipendenza del cittadino dallo Stato: ovvero due capisaldi del pensiero liberale. Ma così non sembrano pensarla i parlamentari di centrodestra.

Una prima spiegazione, assai semplice, è che non sia scontata l’appartenenza del centrodestra a una cultura liberale (se non, appunto, con rare eccezioni); e non è scontato nemmeno che la cultura liberale, quando pure vi sia, si riconosca pienamente nell’affermazione dei diritti civili. Esiste, ad esempio, una cultura liberale di ispirazione cattolica che sul tema esprime una posizione di massima prudenza quando non di forte avversione.

Non solo: alcuni segmenti del centrodestra, scopertisi privi di un sistema di valori che ne definisse l’identità e ne rafforzasse la capacità di attrazione, si sono rivolti al cattolicesimo e al suo codice morale, come l’unico capace di tenere insieme («laicamente») ciò che resta delle tradizionali culture andate in pezzi. Ne è derivato un liberalismo che guarda al cattolicesimo, o che si dice cattolico, di netta fisionomia conservatrice.

D’altra parte, liberalismo non corrisponde immediatamente a libertarismo, anzi. E, dunque, è immaginabile anche un liberalismo tutto concentrato sulla sfera dell’economia e delle istituzioni e scarsamente attento ai diritti individuali, se non a quelli propri dell’impresa e dell’autonomia individuale nei confronti dello Stato e della sua pretesa di ingerenza nella vita dei cittadini. Anche in questo caso, pertanto, si avrebbe un liberalismo estraneo o comunque non sensibile alla tematica dei diritti civili. O, se si preferisce a quei diritti civili così radicali e, come si è detto, così ruvidamente controversi.

Ma anche una simile risposta non può soddisfare. La nuova generazione di diritti impone l’esigenza di affrontare dilemmi etici laceranti, sui quali in tutti gli altri Paesi anche i liberali, e spesso soprattutto i liberali, si interrogano con coraggio e razionalità. In Italia, non accade quasi mai.

E la spiegazione potrebbe essere ancora meno rassicurante. Potrebbe darsi, cioè, che sia proprio il tema dell’autonomia individuale e delle garanzie a sua tutela che è rimasto estraneo allo sviluppo delle idee liberali in Italia. Quasi che tali idee siano state sempre monche, sempre limitate a una interpretazione economicistica o formalistica della libertà e sempre preoccupate della stabilità delle relazioni sociali più che della loro trasformazione nel segno della pluralità dei diritti.

Ne potrebbe conseguire un’ulteriore e ancora più allarmante implicazione. Quell’orientamento schiettamente conservatore — e, per certi versi, fin autoritario — delle culture di destra potrebbe aver finito per abbracciare l’intero sistema politico, coinvolgendo anche quelle di sinistra e spiegando in tal modo la sostanziale inerzia di queste ultime. E non si tratta, forse, di una interpretazione così temeraria.

Luigi Manconi

 

 

 

 

 

Muos, sigilli all’impianto satellitare

Corriere
01 04 2015

La procura di Caltagirone ha ordinato il sequestro dell’impianto satellitare Usa Muos nella riserva di Niscemi, in provincia di Caltanissetta. Il provvedimento fa seguito alla decisione del Tar di Palermo che aveva accolto i ricorsi dei No-Muos contro la prosecuzione dei lavori di realizzazione dell’impianto di Tlc nella base americana. Secondo i giudici di Palermo, che nel febbraio scorso si sono pronunciati sulla vicenda, il sistema sarebbe pericoloso per la salute dei cittadini, ipotesi caldeggiata da tempo anche dai tanti comitati locali sorti contro il Muos.

Le persone e la dignità
01 04 2015

Nel suo consueto rapporto annuale sulla pena di morte nel mondo, Amnesty International rileva due fenomeni contrastanti.

Da un lato, il numero dei paesi che nel 2014 hanno eseguito condanne a morte è rimasto basso (22, lo stesso del 2013).

La pena capitale rimane un’eccezione nel mondo odierno – negli ultimi cinque anni solo 11 paesi vi hanno regolarmente fatto ricorso – ed è concentrata soprattutto in Medio Oriente e Asia: Iran, Iraq e Arabia Saudita sono stati responsabili del 72 per cento delle esecuzioni a livello globale e, se avessimo a disposizione i dati sulla Cina, la percentuale di questi quattro paesi potrebbe ampiamente superare il 90 per cento.

Dall’altro, rispetto al 2013 il numero delle condanne a morte è notevolmente aumentato: almeno 2466 rispetto a 1925. L’incremento si deve essenzialmente agli sviluppi in Egitto e Nigeria, dove centinaia di persone sono state condannate alla pena capitale nel tentativo, futile e di corto respiro, di contrastare in questo modo le minacce alla sicurezza, l’instabilità politica e il terrorismo.

In Nigeria sono state emesse 659 condanne a morte, con un aumento di oltre 500 rispetto alle 141 del 2013. In una serie di processi, i tribunali militari hanno condannato a morte una settantina di soldati per ammutinamento, nel contesto del confitto interno contro Boko haram.

In Egitto le condanne a morte inflitte nel 2014 sono state almeno 509, 400 in più rispetto al 2013. In due processi di massa, celebrati attraverso procedure inique, sono state emesse 37 condanne a morte ad aprile e 183 a giugno.

Per quanto riguarda le esecuzioni di cui Amnesty International è venuta a conoscenza, ovvero quelle rese note dalle autorità statali, sono state 607, il 22 per cento in meno rispetto al 2013.

Questo dato va preso, precisa l’organizzazione per i diritti umani, con beneficio d’inventario. La Cina, che da sola esegue più condanne a morte che il resto del mondo (si stima siano migliaia ogni anno) continua a circondare la pena di morte col segreto di stato ed è impossibile avere informazioni attendibili sull’uso della pena capitale in Corea del Nord.

Inoltre, il secondo paese al mondo per numero di esecuzioni, l’Iran, ne ha ammesse 289 mentre secondo altre fonti attendibili il totale sarebbe di 743, una media di due al giorno.

L’elenco dei cinque principali esecutori di condanne a morte si completa con l’Arabia Saudita (almeno 90 esecuzioni), l’Iraq (almeno 61) e gli Stati Uniti d’America (35).

La preoccupante tendenza a combattere le minacce alla sicurezza interna ricorrendo alla pena di morte è stata visibile in ogni parte del mondo: Cina, Iran e Iraq hanno eseguito condanne a morte per reati di “terrorismo”, così come il Pakistan, dove a seguito dell’orribile attacco dei talebani contro una scuola di Peshawar, il governo ha ordinato la ripresa delle esecuzioni.

In Cina, il governo ha usato la pena di morte come strumento punitivo nella campagna denominata “Colpire duro”, lanciata contro la rivolta della Regione autonoma uigura dello Xinjiang. Durante l’anno, sono state messe a morte almeno 21 persone per tre distinti attentati, mentre tre persone sono state condannate a morte in un processo pubblico di massa tenutosi in uno stadio, di fronte a migliaia di spettatori.

In altri paesi, come Arabia Saudita, Corea del Nord e Iran, i governi hanno continuato a usare la pena di morte come strumento per sopprimere il dissenso politico.

Importanti sviluppi sono stati registrati negli Stati Uniti d’America, che hanno continuato a essere l’unico paese del continente americano a eseguire condanne a morte: il numero è diminuito, da 39 esecuzioni nel 2013 a 35 nel 2014, a conferma del recente declino della pena di morte a livello nazionale. Non solo: le esecuzioni hanno avuto luogo in sette stati (erano stati nove nel 2013) e quattro di questi (Texas, Missouri, Florida e Oklahoma) sono stati responsabili dell’89 per cento delle esecuzioni.

L’uso della pena di morte è sempre più limitato nell’Africa subsahariana, dove solo tre stati (Guinea Equatoriale, Somalia e Sudan) hanno eseguito condanne alla pena capitale.

Quanto all’Europa, la Bielorussia si conferma l’unico paese della regione a eseguire condanne a morte. L’anno scorso almeno tre fucilazioni hanno posto fine a un periodo di assenza di esecuzioni durato 24 mesi. Le esecuzioni sono avvenute in segreto e familiari e avvocati sono stati informati solo dopo.

27ora
31 03 2015

C’è una ragazza sdraiata a letto che dorme, coperta da un piumone a fiori. I capelli castani sono raccolti in uno chignon, la testa riposa sul braccio sinistro. Indosso ha una maglietta bianca e dei pantaloni del pigiama grigi, sporchi di sangue. Anche le lenzuola sono macchiate di sangue. Quando l’artista canadese Rupi Kaur, 22 anni, ha postato questa foto su Instagram, centinaia di persone hanno denunciato «l’orrore». Segnalando il contenuto come «inappropriato» e chiedendo la rimozione dell’immagine. Cosa che la popolare app per la condivisione di foto ha fatto.

Kaur però ha deciso di insistere. Ha pubblicata di nuovo l’immagine. Ma, ancora una volta, lo scatto è stato cancellato, perché non «non conforme alle nostre linee guida».

La giovane artista allora non si è data per vinta. Ha acceso il pc, e ha iniziato a scrivere. «Umiliazioni, minorenni nude, torture, bondage, donne trattate come oggetti: sembra che tutte queste cose vadano bene e siano accettate», ha scritto su Facebook, in un post condiviso oltre 16mila volte. «Quando si tratta di mestruazioni invece no. Scatta la censura. Ma io sanguino ogni mese, dal mio grembo può nascere la vita. Avere le mestruazioni non significa essere sporca, non deve offendere nessuno, è naturale come respirare».

È stato in quel momento che Instagram ha chiesto scusa alla giovane. E ha ripubblicato l’immagine, sostenendo che fosse stata cancellata per sbaglio. «Quando riceviamo segnalazioni da altri utenti, raramente facciamo degli errori», ha spiegato un portavoce del social network. «Questa volta invece è successo».

Restano quelle migliaia di uomini e donne che si sono ritenute offese da quel sangue, da quella foto, tanto da chiedere al social network la sua rimozione. Quelle stesse persone che probabilmente sono ormai assuefatte a immagini ben più violente e offensive che ogni giorno vedono online, in tv o sui giornali.

Le donne sanguinano da sempre. E allora come è possibile che «il marchese», come lo chiama Elena Ferrante, faccia ancora così tanta paura?

thank you Instagram for providing me with the exact response my work was created to critique. you deleted my photo twice…

Posted by Rupi Kaur on Mercoledì 25 marzo 2015

Contropiano
31 03 2015

Un altro blogger è stato ucciso a colpi di machete a Dacca, il secondo in cinque settimane a essere attaccato perché critico nei confronti dell’estremismo religioso. La vittima si chiamava Washikur Rahman Babu, 26 anni, era un blogger laico. È stato aggredito in pieno giorno nella zona di Begunbari, nel quartiere industriale di Tejgaon, da giovani studenti di scuole coraniche. (nella foto il corpo di Babu in ospedale)

”La polizia ha catturato due assalitori dei tre assalitori ed ha sequestrato i tre macheti utilizzati per l’attacco. I sospetti, fermati sul luogo del delitto, sono studenti di scuole coraniche e avrebbero confessato alle autorità di aver ucciso il giovane per le opinioni espresse sul suo blog contro l’estremismo religioso”. ha detto il poliziotto Humayan Kabir.

Ricoverato al Dacca Medical College Hospital, Babu è deceduto subito dopo il suo arrivo in ospedale.

“L’ho ucciso perché ha umiliato il mio profeta” ha detto uno dei sospettati Jikrullah, un ventenne che studia alla madrassa Hathajari nel distretto di Chittagong. Il ragazzo ha raccontato di essere arrivato nella capitale per uccidere Babu e di aver dormito in una moschea la notte prima dell’omicidio. L’altro giovane arrestato, Ariful Islam, anche lui ventenne, è uno studente alla scuola islamica nella zona di Mirpur a Dacca.

Due cugini di Babu hanno raccontato di non essere a conoscenza di alcuna attività di blogging ma, secondo la stampa locala, sulla pagina sua Facebook la vittima si dichiara un ammiratore di Avijit Roy, lo scrittore statunitense di origine bengalese ucciso il 26 febbraio scorso a Dacca mentre tornava da una fiera del libro insieme alla moglie. Per l’omicidio era stato arrestato un estremista, tale Farabi Shafiur Rahman, che aveva minacciato a più riprese via internet lo scrittore. Nel 2014 uno scrittore e professore laico dell’università della capitale, Humayun Azad, era stato aggredito da militanti mentre rientrava a casa dalla fiera dell’editoria. Morì in Germania, dove veniva curato. La moglie accusò religiosi fanatici dell’omicidio e la polizia di non aver agito per impedire l’attacco.

Ma la lista di personalità uccise quasi allo stesso modo negli anni scorsi, comprende anche il poeta Shamsur Rahman, morto nel 1999, lo scrittore Humayun Azad, deceduto nel 2004, ed il blogger Ahmed Rajib Haider assassinato nel 2013.

“Abbiamo chiesto il rispetto dei diritti base in Bangladesh, compreso quello alla libertà di espressione. Ci preoccupa tremendamente che giornalisti e altri intellettuali siano stati attaccati” ha dichiarato Farhan Haq, vice-portavoce del segretario generale delle Nazioni Unite.

Le persone e la dignità
30 03 2015

Secondo un rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA), il 2014 è stato l’anno in cui è stato registrato il maggior numero di civili palestinesi uccisi dall’esercito israeliano dal 1967.

Rispetto ai 39 palestinesi uccisi nel 2013, l’anno scorso il totale è salito a 2314.

Al drammatico aumento delle vittime civili palestinesi ha contribuito, è evidente, l’operazione militare Margine protettivo che, nei 51 giorni trascorsi dal 7 luglio al 29 agosto, ha causato 1500 morti, tra cui 551 bambini e 229 donne.

Ma il numero dei morti è aumentato anche in Cisgiordania, conseguenza del conflitto di Gaza, della crescente tensione a Gerusalemme Est, soprattutto alla fine dell’anno, e della costante politica di espansione degli insediamenti, con le relative manifestazioni e proteste, contro le quali non poche volte l’esercito israeliano ha fatto ricorso alla forza eccessiva e letale.

Il numero dei palestinesi uccisi è salito a 58 (tra cui 13 minorenni), il più alto dal 2007, mentre quello dei feriti è stato di ben 6028.

Il rapporto dell’OCHA sottolinea anche le quasi 1000 demolizioni di case palestinesi nell’area C della Cisgiordania, sotto pieno controllo militare israeliano.

Nel 2014 è salito anche, del 24 per cento, il numero degli adulti palestinesi arrestati per reati legati alla sicurezza mentre è diminuito, sebbene solo del sei per cento, quello dei minorenni, in media 185 al mese contro i 197 del 2013.

Frutto della crescente tensione, è aumentato anche il numero dei coloni israeliani uccisi in Cisgiordania, 12 rispetto ai quattro del 2013, cui vanno aggiunti anche i sei civili israeliani uccisi dagli attacchi lanciati dalla Striscia di Gaza nel corso dell’operazione “Margine protettivo”, su cui Amnesty International ha appena pubblicato un rapporto.

(Nella foto La Presse: la madre del giovane Mohammed Abu Khudair, un ragazzo 17enne ucciso a Gerusalemme Est nel luglio 2014, mostra la foto del figlio)

Abbatto i muri
30 03 2015

E’ solo mia l’impressione che ogni volta che Luisa Muraro esprime il suo pensiero allo stesso tempo spira un vento fortemente reazionario?
Non è la prima volta che il suo punto di vista contrasta la questione dei generi, tra l’altro distorcendo l’opinione di Judith Butler, rendendola funzionale alla negazione stessa di quel che Butler racconta. Perché, così Muraro scrive: “la gender theory dei cinque generi ha qualcosa di doppiamente aberrante” e perché “la differenza sessuale si avviava ad essere esclusa dalle cose umane, per essere sostituita da un travestitismo generalizzato senza ricerca soggettiva di sé“.

Che differenza c’è tra questi concetti e quelli che vengono descritti da chi parla di "Ideologia del Gender"? In generale il femminismo della differenza non è mai stato incline a cedere qualcosa ad altri femminismi. Da sempre, in Italia, si è imposto egemonizzando dibattiti e monopolizzando spazi. Ma, come ha scritto qualcuno, a momenti ci ha prolassato l’utero e, più in generale, non è neppure più un pensiero, così come viene espresso, attorno al quale si possa fare una seria discussione femminista. Di che parliamo se non della paura di andare oltre la differenza tra uomini e donne? Ed è inutile che Muraro la racconti con tante belle parole e tante somme citazioni, perché il succo del suo discorso è proprio quello lì.

Chi ha mai detto che i generi sono cinque? Certo che possono essere anche di più. Chi ha mai detto che per ogni genere non si stabiliscano delle differenze? E siamo già oltre quel che dice la Muraro, perché noi ragioniamo di differenza tra persona e persona, e non tra generi. Perché esiste la questione di genere, di classe, razza, specie. Si chiama femminismo intersezionale ed è quello che attraversa le battaglie politiche a partire da un punto di vista che non sia ancorato al binocolo ricavato da una fica. Chi ha detto che il “travestitismo” voglia annullare le differenze? A me sembra che l’unico ragionamento incline a fare questo sia esattamente quello della Muraro. Dubito infatti che Muraro abbia in mente un ragionamento filosofico che riconosca diritti e legittimità a chi non si definisce attraverso un anacronistico riduzionismo biologico.

Lei dice che il pensiero della differenza ha scardinato quel copione maschilista che riconosceva alle donne d’essere nate come mancanti di qualcosa. Costole di qualcuno, derivazioni maschili. Ma dopo aver detto – e perdonate il mio tono, ma si sa che io m’ispiro per la maggior parte al De vulgari eloquentia di Dante Alighieri (e ho citato un pezzo grosso anch’io) – che la donna non deriva proprio da nessuno e che è persona, diversa, perché mai riesce tanto difficile capire che non per questo è obbligata, per amor delle accademiche, a restare immobile a contemplar la figa, perché ogni altra ricerca sarebbe stata bollata come “aberrante” e mancante “di ricerca soggettiva del se‘”?

Questo è un nodo che bisogna sciogliere, perché se il pensiero della differenza ha rimesso in discussione la collocazione delle donne ora sarebbe il caso di smettere di nascondersi dietro la parola “femminismo” per citare termini quali “travestitismo”. Mi pare di leggere chi dice che le persone trans non sono altro che illuse che vorrebbero essere donne ma giammai potranno raggiungere tanta e tale perfezione. Mi sembra di leggere chi dice che un gay è effeminato. Sostanzialmente io vedo, nel ragionamento di chi ci spiega come procede il pensiero della differenza, che l’unica differenza che viene riconosciuta è quella che somiglia a loro.

La “ricerca soggettiva del se‘” non viene meno se una donna è tale anche se non ha l’utero, perché avere l’utero non è un valore aggiunto e la trans non è una derivazione “mancante di qualcosa” così come prima le donne erano considerate dagli uomini. Però sono grata alla Muraro che ci ha spiegato così bene perché altre femministe, non lei da quel che so, ad un certo punto diventano omo/transofobe. Nel ragionamento che riconosce solo un valore binario non c’è spazio per nient’altro. Le attribuzioni di caratteristiche sono assegnate e in barba alla presunta ricerca di se’ quel pensiero inibisce la possibilità di dirsi altro che prescinda da una figa e un pene.

L’orgoglio di vedere espresse le differenze donnesche non più in termini dispregiativi, ma addirittura come un mezzo per elevarsi più vicine a Dio, deve aver creato una sorta di corto circuito ideologico, rendendo statico, imperturbabile e dogmatico un pensiero che dovrebbe invece essere laico. Quando si parla di donne differenti si parla infatti di donne migliori. Siamo meglio di tutti quanti. I governi con le donne a fare da ministre sono meravigliosi, gli Stati guidati da donne sono strepitosamente efficienti, l’economia in mano alle donne restituisce al mondo l’armonia, la pace, la serenità eccetera eccetera. Le donne mettono fine alle guerre, se c’è n’è una che combatte e uccide è una stranezza, poiché si dice che avrebbe introiettato caratteristiche proprie del maschile. Immaginate cos’è la somma di queste convinzioni quando si parla di altri generi.

Parrebbe un capovolgimento, una sorta di perversa distorsione della realtà: le trans sono considerate per metà uomini che tenderebbero alla conquista della femminilità. Però in se’ sarebbero ancora maschi e dunque conserverebbero tutte le peggiori caratteristiche di cui l’uomo è portatore sano. Le trans sono un pericolo per il femminismo, dicono alcune rappresentanti del femminismo radicale statunitense e britannico. Vanno bandite dalle assemblee perché sono delle infiltrate e i gay sono ancora peggio. Usano gli uteri delle donne per ottenere un figlio gratis. E cos’è una donna se non una madre attaccatissima a quel che esce fuori dalla vulva? Senza tenere conto di quelli che ieri si chiamavano Francesca e oggi Antonio, perché esistono anche loro e non si capisce dove le femministe della differenza potrebbero collocarli.

Sicché di sovradeterminazione in sovradeterminazione si capisce perché alla fine ci troviamo a considerare che esiste un femminismo che mentre ti indica la via si allea con paternalisti, forze che procedono per far regredire la nostra ricerca del se’, soggetti autoritari che non hanno problemi a delegittimare chiunque non appartenga al duo donna/uomo. Mentre noi tentiamo di allontanarci dall’incastro che suggerisce il nostro essere donne – la sessualità riproduttiva, la maternità come realizzazione di se’ – c’è chi parla di grande madre, di dolore della madre surrogata, scimmiottando una mistica della maternità, propria di altre correnti di pensiero, ma con una punta di orgoglio femminista. E vabbè, sarà come dite voi ma di contraddizioni io ne vedo sinceramente troppe. La domanda a questo punto è: dobbiamo considerare il termine “travestitismo” offensivo se riteniamo di sposare la teoria queer? Cosa sono le persone che non si dicono precisamente uomo e donna: figli di un Dio o di una Dea minore?
Saluti, cordiali, e ora vado a travestirmi.

Corriere della Sera
27 03 2015

Abusi sessuali tra le mura del convento di San Giovanni Rotondo, dove ha vissuto San Pio da Pietrelcina. La storia l’ha raccontata la trasmissione Mediaset «Le Iene» che ha raccolta la denuncia di una ragazza Anna che, negli anni scorsi, mentre lavorava all’interno del convento, avrebbe subito attenzioni sessuali e di mobbing da parte di un frate cappuccino e di un altro dipendente laico della struttura religiosa. Una infanzia difficile quella di Anna con un padre violento e in preda all’alcool che trova un lavoro all’interno del convento di San Giovanni Rotondo. Ma proprio quella dimora diventa per lei un luogo di violenze e abusi subiti. Una bella ragazza, come la descrive don Peppino, un frate che l’ha aiutata a trovare il lavoro, di cui molti frati si invaghiscono.

Il racconto
Poi un giorno il primo abuso. Era una domenica. Anna stava lavorando in cucina ad un lavello quando arriva un frate, «uno importante del convento»: entra, inizia a toccarla e dopo essersi alzato il saio si sarebbe masturbato davanti alla ragazza. «Non devi avere paura - le avrebbe detto il frate -. Gli uomini sono tutti così». Nel corso della trasmissione televisiva sono stati sentiti anche altri frati che avrebbero confermato le attenzioni morbose di quel cappuccino verso la ragazza, descrivendo anche quel frate come «un pezzo grosso, uno che poteva andare dove voleva». A nulla sono servite anche le denunce fatte dalla giovane alla Curia Generale. Anzi le attenzioni e anche le minacce aumentarono anche quando Anna cambiò postazione di lavoro, dalla cucina alla portineria. E alle attenzioni del frate si aggiungono quelle del collega di lavoro della donna.

La denuncia in trasmissione
Le aggressioni subite dalla donna sono state confermate nel corso della trasmissione televisiva da due frati. Per il collega di lavoro si è aperto un processo dopo la violenza sessuale subita il 14 luglio del 2012. Ma neanche la denuncia serve a placare i problemi per la donna che continua a subire minacce: anche perché il collega continua a lavorare accanto a lei. Una situazione che causa alla donna anche problemi di salute. E continua l’odissea e il mobbing per la donna che si ammala di fibromalgia: per questo è costretta a stare a casa per superare i suoi problemi di salute. E a novembre del 2013 riceve una lettera di licenziamento «per giusta causa» per assenza dal posto di lavoro oltre il peridio consentito dalla legge. Don Peppino, il frate che ha sempre aiutato la donna, si è poi recato dal ministro provinciale dei Frati Cappuccini chiedendo spiegazioni sul licenziamento della donna. Un incontro filmato e mandato in onda nel corso della trasmissione in cui emergerebbe che Anna era una persona sgradita al convento perché aveva denunciato i frati.

La risposta dei frati cappuccini
«I Frati Minori Cappuccini di San Giovanni Rotondo - è scritto in un comunicato - sono costernati e respingono con forza le deliranti affermazioni, diffamatorie e calunniose, esposte durante la trasmissione “Le iene” del 26 marzo, costruite sulla base delle dichiarazioni di una ex dipendente del Convento di San Giovanni Rotondo, signora Anna Verde, licenziata per “giustificato motivo”, rese dopo essersi vista respingere in due gradi di giudizio il relativo ricorso presentato dinanzi al giudice del lavoro. Tali dichiarazioni, tra l’altro, sono state abilmente corroborate da ritagli di interviste con domande “nocive” a un sacerdote di 88 anni, ricoverato da oltre 20 anni nell’infermeria annessa al Convento, e a due Frati Cappuccini della Sicilia, che hanno dimorato a San Giovanni Rotondo solo per pochissimi giorni e che hanno riferito racconti della ex dipendente. L’inverosimiglianza di tali dichiarazioni emerge chiaramente dalle circostanze di tempo e di luogo esposte, che rendono la versione fornita non solo priva di qualsiasi fondamento, ma anche illogica e poco credibile.

Gli episodi narrati a carico di un presunto frate, di cui è ignoto il nome (ad oggi non ci risulta nessun frate indagato né imputato), si sarebbero infatti verificati in un luogo di passaggio del convento, sempre frequentato da frati e personale laico nelle diverse ore della giornata. Risulta, invece, che un dipendente laico del Convento è imputato per presunte molestie in danno della citata ex dipendente, ma non è stata ancora celebrata la prima udienza dibattimentale. A seguito di tale denuncia, comunque, i Frati hanno aperto un procedimento disciplinare a carico del dipendente, che ha fornito ampie giustificazioni negando ogni addebito. Eventuali provvedimenti saranno presi solo a seguito della conclusione del giudizio. Si precisa, inoltre, che non vi è alcun nesso tra il licenziamento della dipendente (avvenuto a novembre del 2013) e il procedimento penale che narra di fatti che sarebbero accaduti nell’anno 2010 e in aprile del 2012 (denunciati nel luglio 2012), così come appare parimenti strumentale aver dichiarato che i frati hanno privato dell’abitazione la ex dipendente, lasciandola “in mezzo ad una strada”. In realtà, si tratta semplicemente della scadenza naturale di un contratto di locazione, prevista per il mese di giugno 2015, rispetto alla quale la proprietà ha formulato una proposta di nuova locazione ad un canone corrispondente al valore di mercato. Le gravi e calunniose dichiarazioni della ex dipendente costringono i Frati Minori Cappuccini a sporgere denuncia per calunnia, a tutela della loro onorabilità ed integrità morale».

Luca Pernice

 

 

 

 

 

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