Le persone e la dignità
28 07 2015
Il 15 luglio un portavoce della presidenza irachena ha reso noto che il presidente Fuad Ma’sum aveva appena ratificato 42 condanne a morte.
Secondo il codice di procedura penale, una volta che una condanna a morte sia stata confermata dalla Corte di cassazione, l’ultima parola spetta al presidente, che può dare via libera all’esecuzione oppure commutare la sentenza o graziare il condannato.
Non è certo che l’annuncio del 15 luglio corrisponda al vero. Di sicuro, da oltre un mese il presidente Ma’sum riceve forti pressioni perché risolva l’arretrato di condanne a morte in attesa di ratifica, almeno 662 secondo dati ufficiali, imposte dal 2006.
Il 16 giugno, nel tentativo di rendere più veloce la procedura, il parlamento di Baghdad ha approvato un emendamento al codice di procedura penale che prevede il passaggio della decisione finale al ministro dell’Interno se il presidente non si pronunci entro 30 giorni.
Di certo, tra le centinaia di condannati a morte in attesa di esecuzione, vi sono responsabili di gravissimi attacchi contro i civili, una piaga che colpisce la popolazione irachena da oltre 10 anni.
In gran parte, i condannati alla pena capitale sono musulmani sunniti, giudicati ai sensi della Legge antiterrorismo del 2005.
Il clima d’insicurezza e, non di rado di vero, e proprio terrore, non dovrebbe secondo Amnesty International essere usato per giustificare l’uso massiccio della pena di morte (la cui efficacia, oltretutto, in contesti di violenza politica e settaria, sarebbe assai improbabile) e per velocizzare la procedura.
Oltretutto, i processi che si concludono con una condanna a morte sono tutto meno che equi e regolari. Nel corso degli anni, Amnesty International ha raccolto prove e testimonianze di “confessioni” estorte con la tortura durante gli interrogatori, a volte persino rese in diretta tv, e invano ritrattate in tribunale. Molti avvocati difensori sono stati minacciati, intimiditi e arrestati.
Per queste ragioni, Amnesty International ha chiesto al presidente Ma’sum di non procedere a ratificare alcuna condanna a morte e lo ha esortato a contrastare il terrorismo con gli strumenti del diritto e non con una giustizia sommaria che sembra nient’altro che una rappresaglia.
Corriere della Sera
24 07 2015
L’esplosione nella ditta di fuochi pirotecnici Bruscella a Modugno, in provincia di Bari, ha provocato quattro morti e almeno sei feriti, alcuni dei quali gravi. Dopo la prima più violenta esplosione, a quanto sembra un furgone è saltato in aria per primo, ne sono seguite altre, avvertite anche a diversi chilometri di distanza. Mentre una colonna di fumo si è alzata in cielo. Sul posto stanno intervenendo carabinieri, vigili del fuoco e personale del 118 con ambulanze. Le fiamme, peraltro, sono divampate anche oltre l’area dello stabilimento e hanno raggiunto una vicina pineta.
Sul posto sono intervenuti uomini dei vigili del fuoco, dei carabinieri e personale del servizio di emergenza 118. I soccorsi sono ancora in corso e sono molto difficoltosi. Il titolare della ditta è tra i feriti ed è stato trasportato all’ospedale San Paolo di Bari. Dei sei feriti, uno è in gravi condizioni. L’area della fabbrica è ancora interessata da piccoli focolai. Abitualmente in fabbrica lavora una decina di persone. La fabbrica si trova poco fuori dell’abitato di Modugno, in direzione di Bitritto, ed è in una zona di campagna circondata da un boschetto che ha preso fuoco in seguito all’esplosione. Sul posto, oltre alle squadre dei vigili del fuoco al lavoro da terra, sono arrivati anche due Canadair. Secondo una prima ricostruzione, ad esplodere per primo sarebbe stato un furgone e successivamente la deflagrazione si sarebbe estesa a tutta la fabbrica.
Carmen Carbonara
Le persone e la dignità - Corriere della Sera
24 07 2015
Il 21 luglio, al termine di un processo-lampo viziato da numerose irregolarità, 11 attivisti del Partito nazionale del riscatto cambogiano (Pnrc) di Sam Rainsy hanno ricevuto condanne da sette a 20 anni di carcere per “insurrezione”.
I fatti che hanno dato vita al processo risalgono al 15 luglio 2014. Quel giorno, il Prnc aveva convocato una manifestazione di protesta nel Parco della libertà, al centro della capitale Phnom Penh, nel primo anniversario delle elezioni del 2013, il cui esito era stato contestato dall’opposizione. La manifestazione era diventata violenta dopo l’intervento di reparti della polizia antisommossa.
Il processo-lampo di due giorni fa si è svolto alla presenza di un solo avvocato difensore, dopo che gli altri avevano boicottato l’udienza per protestare contro le procedure sommarie che la corte aveva deciso di adottare. La pubblica accusa non ha presentato alcuna prova relativa alla presunta “insurrezione”. La camera di consiglio è durata 15 minuti.
Insomma, tutto fa pensare a un verdetto già deciso, che rischia di peggiorare le relazioni tra governo e opposizione e di rendere la “cultura del dialogo” promossa da Hun Sen, l’uomo forte del paese, nient’altro che una vuota formula.
All’indomani del verdetto, Amnesty International ha chiesto l’annullamento delle condanne e un nuovo processo, basato su procedure eque. L’organizzazione per i diritti umani ha anche sollecitato la comunità internazionale a guardare con maggiore attenzione a ciò che accade in Cambogia, dove la settimana scorsa il parlamento ha approvato una legge repressiva nei confronti delle organizzazioni non governative.
Riccardo Noury
Corriere della Sera
23 07 2015
Un musicista ha trovato una nuova maniera per contrastare il Ku Klux Klan: con una risata. Matt Buck Ha accompagnato la marcia della KKK, sabato scorso nel Sud Carolina, con il suo basso tuba.
«Volevo essere divertente. È stata la mia maniera per protestare in maniera pacifica», ha spiegato Buck alle televisioni locali.
La sua protesta è durata solo un paio di minuti ma i residenti, molti dei quali entusiasti, lo hanno filmato. Il video è diventato virale e c’è qualcuno che lo chiamo il «un eroe americano».
In ogni caso Buck vuole essere chiaro: «Non ho smesso di suonare perché mi sentivo minacciato, ma non sapevo se le autorità mi avessero fatto continuare. In più c’erano 38 gradi fuori».
Benedetta Argentieri
La 27 Ora
23 07 2015
Perché è così difficile credere alla vittima di uno stupro? Perché, di fronte a una donna che sporge denuncia, ci si concentra anzitutto sul suo contegno, sul suo abbigliamento, sulle sue frequentazioni? Se succede in una galleria buia, allora è lei che se l’è cercata. RSe succede con un gruppo di amici, allora è lei che c’è stata. Sembra quasi che per essere credibile, una donna debba aver avuto un’arma puntata contro.
Della sentenza di assoluzione in Appello per i sei imputati accusati di aver violentato sette anni fa in un’auto a Firenze una ragazza di 23 anni, loro amica, colpiscono le motivazioni, quel dito puntato contro il comportamento ambiguo della vittima e la sua «condotta tale da far presupporre che, se anche non sobria, era tuttavia presente a se stessa…» e pertanto «i ragazzi possono aver male interpretato la sua disponibilità».
Ecco quella che Emer O’Toole, studiosa della School of Canadian Irish Studies alla Concordia University, ha definito qualche giorno fa sul Guardian l’apologia dello stupro. La docente ne ha scritto a proposito di Magnus Meyer Hustveit, condannato a sette anni per aver abusato almeno una decina di volte della sua fidanzata mentre dormiva.
Il giudice irlandese Patrick McCarthy gli ha sospeso la pena perché ha apprezzato la sincerità del giovane, il fatto che senza la sua piena collaborazione il processo non si sarebbe potuto svolgere: chi altro, se non lui, avrebbe potuto confermare la versione della compagna? Non c’è qualche analogia, fa notare O’Toole, con quanto è successo a Bill Cosby?
Eravamo tutti scettici sull’autenticità delle accuse mosse da 42 donne e abbiamo cominciato a prenderle sul serio soltanto dopo che l’attore ha ammesso di averle drogate prima di abusarne. Dobbiamo forse ringraziare Bill Cosby o Magnus Meyer Hustveit e tutti gli stupratori che rendono credibili le loro vittime? E a loro, invece, cosa dobbiamo dire? Soltanto: «scusa».
Elvira Serra
Twitter@elvira_serra
Corriere della Sera
17 07 2015
Almeno 49 persone, tra cui donne e bambini, sono rimaste uccise e diverse altre ferite, alcuni in gravi condizioni, in un doppio attentato avvenuto in un mercato a Gombe, nel nordest della Nigeria. Lo riferisce France 24. Il bilancio delle vittime potrebbe salire in quanto molti feriti sono in gravi condizioni.
Sospetti su Boko Haram
Il mercato di Gombe era gremito di persone alle prese con gli acquisti della vigilia della fine del Ramadan. Lo ha raccontato un commerciante che si trovava ad una settantina di metri dal luogo delle deflagrazioni.
«Stavo aiutando i feriti dopo la prima esplosione avvenuta davanti ad un negozio di scarpe, quando è scoppiato l’altro ordigno davanti ad un negozio cinese dall’altro lato della strada» ha detto il testimone.
Per il momento non è giunta alcuna rivendicazione del duplice attentato, anche se i sospetti si concentrano sui miliziani islamici di Boko Haram.
Corriere della Sera
14 07 2015
Nell’Europa al contrario di Ibrahim la Svezia e la Norvegia stanno a sud. Il ragazzo sudanese indica i due Stati, dei quali ha intuito forma e nome. Io e la mia famiglia vogliamo andare qui, dice. Sophie, la gentile pensionata di Mentone che dà ripetizioni volontarie di geografia ai migranti, prende la cartina e la gira. Nord, quello è il nord, gli risponde, indicando con il dito un punto oltre il confine alto di Ponte San Luigi. E per farsi capire si stringe le braccia, simulando brividi di freddo.
Questa mattina sugli scogli dei Balzi rossi la temperatura al suolo è di 43 gradi. Sotto alle tende, che in realtà sono spessi teli di plastica fissati agli scorrimano della passeggiata, fa ancora più caldo. I miasmi del cibo andato a male sovrastano l’odore del mare. In quella più vicina al confine c’è un altro ragazzo steso su un telo. Tiene gli occhi chiusi. Parla da solo, borbotta, in un mare di sudore. Ibrahim gli si avvicina, è suo cugino. Lo sveglia, anche se in realtà non stava dormendo. Da sotto il materasso estraggono due biglietti del treno, Ventimiglia-Parigi, 118 euro. La data è quella di tre giorni fa. «Ci hanno fatto scendere a Mentone, e ci hanno riportato indietro. Ci avevamo già provato un’altra volta. Questi erano i nostri ultimi soldi. Ma non ce ne andiamo. Al caldo siamo abituati. In Libia ci hanno tenuto per due settimane chiusi in un container, ci facevano bere una volta al giorno. Non ci spaventa restare qui sugli scogli. Ditelo ai francesi: noi vogliamo solo passare, non ci fermiamo da loro, non ci interessa».
Domani sarà un mese. I primi sono arrivati il 9 giugno. Erano cinquanta, sudanesi ed eritrei. Furono respinti dai gendarmi alla frontiera e decisero di passare la notte sugli scogli a due passi dal confine, nell’ultimo lembo di Italia, per protesta. Poco dopo divennero duecento, e furono giorni di tensione, di proclami e solenni impegni. Poi passò il tempo, accaddero altre cose giudicate più importanti, in fondo va sempre così. L’attenzione si spostò altrove.
Molti di loro se ne andarono, i più rassegnati. Sugli scogli sono tornati a essere quelli che erano all’inizio. La conta di questa mattina dice 51. C’è una sola camionetta della Polizia a guardarli. «Non se li fila più nessuno - dice l’agente -. Vadano dove vogliono, se ci riescono, noi di certo non li inseguiamo, anzi». Ai lati della statale che conduce ai Balzi rossi è pieno di auto parcheggiate. I bagnanti scendono con materassini e teloni e scompaiono nella spiaggia sottostante. Il mercatino del venerdì è ricominciato. Al bar dall’altra parte della strada ne parlano come se fossero cose inanimate. «Stanno fermi» dicono alzando le spalle.
I migranti accampati sugli scogli erano una emergenza umanitaria e sono diventati un elemento del paesaggio. Ogni tanto passa qualche troupe televisiva e allora Yussah, la mediatrice culturale marocchina, si incarica di garantire colloqui precari con traduzioni annesse. Intorno a questi cinquanta disperati si è formato un microcosmo di finta normalità. Al mattino passano i volontari della Croce rossa, risveglio e acqua per tutti. Sul marciapiede è stato montato un punto per la ricarica dei telefonini. Nelle ore più calde si spostano quasi tutti all’ombra degli edifici in fondo alla passeggiata. All’ora di pranzo i migranti a digiuno per il Ramadan rivolgono sguardi languidi ai piatti di pasta cucinati dai ragazzi dei centri sociali.
Al pomeriggio arrivano i volontari di Mentone e Ventimiglia, carichi di buone intenzioni e libri donati dalle biblioteche. Le loro lezioni si svolgono a gesti, nessuno dei ragazzi che cercano di apprendere qualche nozione utile sulle loro terre promesse parla inglese o francese.
Le giornate non passano, si trascinano, in una solitudine e in un disinteresse piuttosto palpabili. Enrico Ioculano, il giovane sindaco di Ventimiglia, si fa vedere due volte al giorno, qui e in stazione, dove il vai e vieni ai binari è uno spettacolo crudele e surreale. Da un treno in arrivo vengono fatti scendere i migranti respinti in Francia. Da quello in partenza dal binario accanto salgono di soppiatto quelli che provano a passare. «Una volta che il caso politico è stato disinnescato - dice Ioculano - siamo ritornati nel nostro splendido isolamento. Io telefono e chiedo che cosa devo fare, nessuno mi risponde. Ma se soltanto un mese fa questa era una grande emergenza europea, le sembra giusto che adesso la debba risolvere il sindaco di Ventimiglia?».
I dimenticati dei Balzi rossi sono liberi di andare dove vogliono. Ma non si muoveranno da qui. L’esodo è cominciato due venerdì fa, quando i migranti raccolti intorno alla radio capirono che dal vertice europeo non sarebbe arrivato niente di buono per loro. Quelli che restano sono i più disperati tra i disperati. Come Ibrahim e suo cugino, sempre più affaticati dal digiuno. Al tramonto chiedono dove poter trovare una cartina che indichi una strada tra le rocce, verso il confine più in alto. «Tanto prima o poi ce la faremo a passare». Li interrompe il suono del clacson proveniente da una colonna di auto che ha appena passato il confine di Stato. Sono quelli della Fratellanza islamica di Nizza. L’imam distribuisce pasti caldi a tutti. È scesa un’altra volta la sera, almeno si può mangiare.
La 27 Ora
10 07 2015
Cento centesimi al Liceo delle scienze umane Virgilio di Milano. Silvia Barbarotto, ventenne con sindrome di down è oggi matura e la sua mamma le ha regalato una lettera con emozioni uniche che ha deciso di condividere con noi Invisibili
«Per quanto tempo ti abbiamo cercata, piccola. Ti volevamo, ti chiamavamo, ma tu esitavi, non eri mai pronta a farti avanti. E intanto passavano i mesi e crescevano l’ansia e lo sconforto dell’attesa. Poi, trascinata dai primi odori di un Natale, ho smesso di contare i giorni e ho lasciato di nuovo liberi il cuore, il corpo, il pensiero. E tu, dal tuo piccolo pianeta lontano, hai sorriso: ti arrivava finalmente un richiamo vero, sentivi che si era creato lo spazio per te e così per quel Natale ti sei annunciata».
Abbiamo allora incominciato il nostro grande viaggio insieme. Una gravidanza splendida che ci siamo centellinate e godute reciprocamente. Tu nel tuo nido morbido e protetto succhiavi linfa per crescere e formarti fisicamente. Io, il tuo nido, succhiavo attraverso di te emozioni e sensazioni mai provate prima. Mi hai permesso, attraverso quel percorso, di scoprire la potenza dell’essere donna, la potenza e la gioia della femminilità, la consapevolezza di un corpo morbido. Ma anche un percorso così ricco di sensazioni e scoperte, così intenso e meraviglioso deve concludersi e si avvicinava il momento di separarci. Io non avrei mai voluto che arrivasse, ero così orgogliosa di mostrarci, così felice di quel rapporto privilegiato tra noi due.
Devo confessare che ero anche piuttosto in ansia di fronte al pensiero di te realmente presente. Una persona nuova, sconosciuta da accudire e proteggere. Forse, per la prima volta, non riuscivo proprio a immaginare come sarebbe stata la vita dopo. Gli ultimi giorni di attesa, per arrivare alla data presunta per il parto, sarebbero stati sicuramente molto combattuti, e tu hai evitato tutto questo prendendomi in contropiede anticipando il nostro incontro di ben sedici giorni.
Ci è stato concesso un parto splendido, in ospedale, ma con la stessa atmosfera che avremmo potuto avere se fossimo state a casa. Solo noi due, il papà e un’ostetrica bravissima, che era già un’amica e che da allora chiamiamo zia. Abbiamo avuto a disposizione il giusto tempo e una mole adeguata di lavoro per salutarci, per prendere coscienza che stavamo per lasciarci, ma che nel contempo stavamo anche per conoscerci.
Durante quel lungo saluto, attraverso quell’abbraccio ritmico e fortissimo, ho scoperto che potevo abbandonarmi fino in fondo, che potevo affidarmi, che sapevo anche vivermi da dentro. Tu avevi una gran fretta di nascere. Ricordo bene il tuo scalciare, il mio assecondarti col respiro, le nostre spinte, la tua testina piena di lunghi capelli neri che già urlava perché ti liberassi tutta. Io in realtà non potevo vederti perché ero in piedi appoggiata al lettino, ma ti ricordo con gli occhi del papà. E poi una scena tenerissima di te, ancora in sala parto, che, completamente nascosta in una copertina, la sollevi, quasi a cercarmi, sentendo la mia voce.
Poco più tardi, sdraiata da sola nella stanza del travaglio, ripenso a quante cose mi hai già dato e mi accorgo che ancora non ti conosco, che, nonostante tu sia stata a lungo sulla mia pancia, non ci siamo ancora guardate negli occhi. Era tutto troppo vorticoso, ma ora c’è calma e vi sto aspettando, te e il papà, per cominciare veramente la nostra vita a tre. Arrivi solo tu e, mentre mi vieni portata perché io ti prenda in braccio offrendoti il seno, finalmente i nostri occhi si incontrano e tu mi guardi con due splendidi occhietti. A mandorla. E’ un istante. Quello per sentire che io voglio abbracciare la mia bambina. Al resto ci penseremo dopo.
Ora hai quasi vent’anni, e oggi hai conseguito la tua maturità a pieni voti. Sei una bella ragazza, sana, inaspettatamente curiosa e determinata, che sa conquistare tutti con la sua straordinaria simpatia. Mi considero una mamma fortunata e vivo in te la mia «carta» per la vita. Una ‘carta’ che tra le tante cose mi ha permesso di conquistare la capacità di vivere veramente il presente raccogliendo ogni giorno quello che può darmi, e che dà a tutti noi la possibilità di riconoscere gli altri oltre la maschera. Siamo una famiglia allegra e mi sembra atroce pensare che, se insieme al papà, non avessimo deciso di evitare un esame per non aumentare (seppur di poco) la percentuale di rischio naturale di una gravidanza tanto desiderata, tu, probabilmente, non saresti mai nata.
Cosa dirti Silvia oggi se non BRAVA!? Mi ricordo di quando, piccolina, una volta in macchina ti avevo detto che ero molto contenta di te e tu, da dietro, avevi chiesto: «anche fiera e orgogliosa?» Così «fiera e orgogliosa» è diventato parte del lessico famigliare. Sono veramente fiera e orgogliosa di te, di come hai saputo fruire di questi 13 anni di scuola. Sono soddisfatta di come la scuola pubblica italiana ti abbia accolta e accompagnata nella tua crescita, con qualche alto e basso, qualche interruzione anche dolorosa (ma così è la vita), ma anche con tante persone in gamba che ti hanno capita e supportata, credendo in te e scoprendoti, come noi ti scopriamo giorno dopo giorno.
Quando sei nata io e il papà ci siamo ripromessi di guardare avanti e di crescere assieme a te e tu regolarmente ci stupisci, come generalmente stupisci e gratifichi con belle soddisfazioni chi è disposto a investire in te.
Avevo scritto quei pensieri per te durante la stesura della mia tesi (per l’abilitazione all’insegnamento della matematica e delle scienze alle medie). Dovevo preparare un’uscita didattica di un giorno a tema geologico (io biologa!). Così avevo pensato di rapirti per un giorno e di andare a fare insieme il percorso geologico ai Corni di Canzo e dopo una giornata di camminate, appena salita in treno per tornare a casa, ti sei addormentata. Così io, seduta di fronte a te, guardandoti, ho lasciato correre i pensieri scrivendo mentre pensavo. Ho sempre considerato quella lettera la mia vera tesi!
Per la tua tesina di maturità, oltre a una presentazione sul tuo percorso durante questi cinque anni di liceo, hai presentato alcune tue poesie e abbiamo scoperto che non sapevi che anche io scrivo i miei pensieri in modo molto simile al tuo. Così mi è sembrato giusto farti trovare la mia lettera come risposta alla tua maturità.
Non saprei cosa aggiungere oggi, se non che mi dispiace moltissimo che la scuola sia finita (come dispiace a te) e, se non fosse per la promessa fondamentale fatta nei tuoi confronti, direi che sono un po’ spaventata per il futuro. In Italia la scuola ha forse il più alto livello di capacità di inclusione, ma dopo la scuola purtroppo si apre una voragine di vuoto. Sono (quasi) sicura, che anche questa volta troveremo la strada, sarai probabilmente tu (come sempre) a trovare la strada migliore per te. Quindi non mi resta che starti vicina e ripeterti come nella mia lettera, di andare, ma di ricordarti, ogni tanto, di voltarti e di farci uno dei tuoi splendidi sorrisi.
Mamma Cristina
Simone Fanti
La 27 Ora
09 07 2015
Credo che molte e molti di noi, leggendo che le prime forme di movimento per la liberazione della donna nel mondo arabo sono nate tra fine Ottocento e inizi Novecento, più o meno contemporaneamente a quanto stava succedendo in Occidente, resteranno stupiti. A me è capitato sfogliando le prime pagine del volume Femminismi islamici (a cura di Ada Assirelli, Marisa Iannucci, Marina Mannucci, Maria Paola Patuelli, ed Fernandel). Stupore salutare per la nostra mente e il nostro giudizio perché avvia a scrostare dall’una e dall’altro i primi strati di persistenti stereotipi che accompagnano le nostre consapevolezze eurocentriche, l’orgoglio di chi ha la convinzione di detenere i soli primati di libertà e democraticità che illuminano il pianeta in cui viviamo. E nulla naturalmente voglio togliere o negare di questa libertà, che tra l’altro mi consente di scrivere senza alcun timore quel che penso, ma è sempre utile che le nostre coscienze occidentali (e femministe) vengano in contatto e si sforzino di comprendere, per quanto possibile, mondi differenti, per non ridurci a un unicum di pensiero semplificato e semplificante, che comprende anche chi si ammanta di veli di purezza e innocenza perché si indigna e si chiama fuori dalle ideologie e dai valori occidentali, di cui peraltro gode tutti i vantaggi.
Allora spazziamo la mente da pregiudizi di destra e di sinistra, apriamo gli occhi e leggiamo alcune pagine con l’umiltà di chi non sa già tutto, ma anzi spera ed è disponibile a lasciarsi disorientare.
Sappiamo, ed è innegabile, che nei paesi islamici le donne vivono limitazioni alla libertà personale e discriminazioni anche sul piano giuridico, oltre che condizioni di povertà, analfabetismo, disagio sociale superiore agli uomini, dai quali peraltro subiscono violenze soprattutto domestiche (ma questa è una storia nota anche per noi). Eppure, come già scrivevo, non è breve la storia che anche il mondo arabo può vantare di movimenti femminili e femministi, spesso nel Novecento affiancati alla lotta per la liberazione dai regimi coloniali. A quest’ultima le donne hanno partecipato attivamente, per poi, quando le cose sono terminate, essere lasciate a casa, ma anche questa è una storia che conosciamo bene.
Entriamo però meglio nelle situazioni della contemporaneità, partendo da un’affermazione necessaria e iniziale che ci consente uno sguardo più libero. Il mondo islamico non è un monolite uguale ovunque, ma è piuttosto un universo complesso, variegato, eterogeneo, nel quale la religione ha un ruolo centrale, ma non è l’unica causa della subordinazione femminile – lo sono ad esempio anche i regimi autarchici, autoritari che ancora vivono o sono stati recentemente rovesciati nel mondo arabo – e dell’impossibilità delle donne musulmane ad avvicinarsi alla modernità, ai mutamenti sociali, al sistema dei diritti. È questa una percezione riduttiva della realtà femminile araba, che paradossalmente accomuna il prevalente giudizio occidentale alle concezioni che guidano su questo terreno gli estremisti islamici, che impongono, in nome della loro religione, le condizioni di inferiorità e di esclusione, oltre che di ignoranza delle donne (ma a questo proposito cerchiamo di ricordare che dal mito della donna ignorante non siamo poi temporalmente troppo lontani neppure noi europei, italiani in particolare). Un buon sistema infatti per noi di contrastare gli stereotipi e liberarci progressivamente dagli strati di pregiudizio è quello di non dimenticare da dove veniamo, quali sono le culture che rappresentano la nostra storia, anche recente. Velo docet.
Torno alla storia dei femminismi islamici: gli attuali, dopo i movimenti di tutta la prima metà del Novecento, si sviluppano intorno agli anni Novanta dello scorso secolo e sono un movimento che si basa, pur con differenze interne, sulla rilettura del Corano in una prospettiva femminile e propone la riforma di leggi e istituzioni patriarcali in nome dell’Islam. La religione non rappresenta dunque per questi movimenti un ritorno al passato, ma una forma di reinvenzione individuale e collettiva che fa i conti con la società contemporanea e si propone di riscrivere le forme della modernità. Altro stereotipo che le donne islamiche ci aiutano a decostruire: il supposto contrasto tra tradizione e modernità. Ed è qui che ci si presenta il cuore e il significato centrale dei movimenti femministi islamici: il lavoro di reinterpretazione del testo sacro, del Corano, sottraendolo alla normatività dei contesti e culture storiche e patriarcali che l’hanno tradizionalmente interpretato.
Occorre distinguere, insegnano le teologhe islamiche, tra il testo e l’esegesi, cioè l’interpretazione che se ne è fatta nella storia. La causa della discriminazione delle donne non è il Corano, ma la religione vissuta in società patriarcali che l’hanno interpretato secondo le culture dominanti e hanno creato una tradizione religiosa sessista. Le femministe islamiche, fin dalle pioniere dello scorso secolo, si sono impegnate nel lavoro di decostruzione delle precedenti interpretazioni maschiliste e di rilettura dei versetti con sguardo di genere. Ed è questa soprattutto la differenza con i movimenti dei femminismi occidentali, che per lo più si sono tenuti distanti dalla dimensione religiosa, anche se vi sono ormai in Europa e anche in Italia interessanti scritti e prese di posizione di teologhe femministe, e un coordinamento (CTI) che riunisce le diverse anime della teologia cristiana. Ma credo che questo discorso meriti un’attenzione a parte e una maggiore vicinanza, che il femminismo italiano, generalmente o prevalentemente considerato laico, dovrebbe approfondire.
In ogni caso, secondo i movimenti delle donne islamiche, la reinterpretazione del Corano ne svela il messaggio più genuino di sostanziale uguaglianza tra donne e uomini, «in verità non farò andare perduto nulla di quello che fate, uomini o donne che siate, che gli uni sono come gli altri» (Corano, III, 195), e la modernità del testo rispetto a temi controversi quali la poligamia o il divorzio, se collocato nei tempi in cui il Corano fu elaborato.
L’interpretazione femminista parte dal presupposto che il Corano sia un testo polisemico, suscettibile di varie interpretazioni, mentre risulta fuorviante il limitarsi a citazioni singole estrapolate dal contesto. Un esempio molto chiaro può riferirsi alla virilità prodigiosa del Profeta, molto citata naturalmente da alcune interpretazioni maschiliste: in una di esse si afferma che Maometto in una sola notte copulò con tutte e nove le sue mogli. Una potenza maschile che viene direttamente collegata al dono della profezia, come simbolo di una forza virile che può tenere a bada contemporaneamente molte donne. Eppure, sostengono le interpreti femministe, esistono nel Corano immagini di una ben diversa mascolinità, attenta, affettuosa, in grado di prendersi cura – e con reciprocità – della persona che ha accanto.
Il pensiero femminista islamico prende il nome di gender Jihad: potremmo tradurre il termine, semplificando e con qualche risonanza nella nostra storia, in «lotta femminista», con l’attenzione però che si tratta soprattutto di una lotta della mente, uno sforzo dell’anima e dell’intelligenza e del corpo delle donne per raggiungere l’obiettivo, attraverso la rilettura del Corano, di una società più giusta nei confronti dei soggetti femminili. Le femministe musulmane ci ricordano – è una lezione che risulta (o dovrebbe) molto utile anche a noi – che il luogo della maggiore problematicità nelle relazioni tra donne e uomini non è tanto lo spazio pubblico, quanto il privato, con i nodi assai difficili da sciogliere, per noi e per loro, nelle relazioni tra i due sessi. Ma anche molti uomini partecipano a questo sforzo dei movimenti femministi islamici, che sono – contro ogni residua credenza di contrasto tra modernità e tradizione – diffusi in tutti i paesi a maggioranza o comunque presenza significativa di musulmani (anche da noi quindi) e in rete tra loro.
Ancora due osservazioni prima di chiudere un discorso che in realtà andrebbe ulteriormente aperto. La distanza tra i femminismi islamici e i nostri. Non si tratta solo della centralità della religione per i movimenti musulmani, che in Europa è marginale, come già dicevo, ma di una posizione critica nei nostri confronti da parte delle donne musulmane e il desiderio e la pratica di offrire al termine femminista un’autonomia dall’accezione occidentale per sottolineare percorsi differenti, con obiettivi che si discostano dalle presunte libertà occidentali. Ricordiamo il famoso discorso di Fatema Mernissi sulla taglia 42, interpretata come il velo occidentale. E a proposito di velo l’ultima osservazione, anch’essa utile per proseguire il nostro lavoro di liberazione dagli strati sovrapposti di pregiudizio. Il velo è per noi donne occidentali il simbolo più evidente della subordinazione femminile – e ci dimentichiamo che solo un paio di generazioni fa una donna italiana non sarebbe mai uscita di casa senza nulla in testa.
Eppure il velo può essere interpretato in due modi opposti, così ci insegnano le femministe musulmane, può essere indossato per obbligo o passivo adeguamento, ma può anche essere scelto, per costume, per moda, per difesa da una società estranea o per affermare un’identità e un diritto sul proprio corpo, sottraendolo allo sguardo e alla volontà maschile, al modello occidentale di esposizione e di consumo del corpo femminile, quello che è stato definito il velo della nudità. L’uso del velo può essere inteso dunque come un atto politico, di dissidenza anziché di assuefazione a norme dettate da altri, così afferma la femminista marocchina Nadia Yassine.
E anche qui si riapre un discorso infinito, che può però esserci utile nel dialogo tra donne diverse, se ciascuna, dall’una e dall’altra parte, riesce ad ascoltare veramente, il più possibile libera da quei pregiudizi che nascono soprattutto dalla paura.
Barbara Mapelli
Persone e dignità
07 07 2015
E’ meno conosciuta della “rotta del Mediterraneo” su cui si concentrano politiche, allarmi e accoglienza. Ma è altrettanto pericolosa anche se meno mortale e, soprattutto, si avvia ad essere la più percorsa da migranti, richiedenti asilo e rifugiati che cercano di entrare nell’Unione europea: 21.000 persone nel 2014, saranno molte di più alla fine di quest’anno.
La “rotta dei Balcani”, che inizia dalla frontiera marittima tra Turchia e Grecia e porta migranti, richiedenti asilo e rifugiati lungo Macedonia e Serbia fino in Ungheria, è al centro di un nuovo rapporto di Amnesty International. Vi si legge di violenze ed estorsioni ad opera di autorità di frontiera e bande criminali, di persone abbandonate a sé stesse in un limbo giuridico incerto, arrestate, rimpallate e respinte da una frontiera all’altra.
Per un’Unione europea che al posto della condivisione delle responsabilità e della solidarietà preferisce ancora delegare l’onere dell’accoglienza agli Stati membri della frontiera marittima e ai loro vicini, Serbia e Macedonia sono i luoghi perfetti dove lasciare migliaia di persone che nessuno vuole.
Serbia e Macedonia, che non fanno parte dell’Unione europea ma subiscono le conseguenze del fallimento delle politiche europee in tema d’immigrazione e asilo, si regolano ricorrendo a pratiche illegali. E, al termine della “rotta balcanica” c’è uno stato membro dell’Unione europea, l’Ungheria, intenzionato a trasformare la retorica xenofoba in fatti concreti.
A partire dal marzo 2015, il primo ministro e il ministro degli Esteri dell’Ungheria hanno intensificato la retorica anti-immigrati, minacciando anche l’introduzione di una legge che consentirebbe l’immediato arresto e respingimento di migranti irregolari e la costruzione di una barriera per impedire l’ingresso a migranti, richiedenti asilo e rifugiati provenienti dalla Serbia.
Il 30 giugno, il parlamento di Budapest ha autorizzato il governo a disporre una lista di stati di transito “sicuri”, dove i rifugiati potrebbero chiedere asilo prima di entrare in Ungheria; è probabile che di questa lista farà parte la Serbia.
Ma torniamo all’inizio della “rotta dei Balcani”.
Coloro che approdano sulle isole greche, bambini compresi, vanno incontro a condizioni di accoglienza drammatiche. Per non dover rimanere in Grecia ad affrontare un’estenuante procedura d’asilo, la maggior parte di loro arriva ad Atene per poi varcare i confini con la Macedonia e cercare di raggiungere altri stati membri dell’Unione europea.
Molti rifugiati e migranti vengono arbitrariamente arrestati alla frontiera tra Grecia e Macedonia e a quella tra Macedonia e Serbia. Centinaia di loro trascorrono lunghi periodi di detenzione nel Centro di accoglienza per stranieri della Macedonia (conosciuto come Gazi Baba), senza alcuna salvaguardia legale o possibilità di chiedere asilo. Molti sono trattenuti illegalmente per mesi, in condizioni inumane e degradanti, cosicché possano comparire come testimoni nei procedimenti delle autorità giudiziarie macedoni contro i trafficanti.
Quanto alla Serbia, il numero delle persone fermate lungo il confine con l’Ungheria è passato da 2370 nel 2010 a 60.602, con un aumento di oltre il 2500 per cento. Migranti, richiedenti asilo e rifugiati hanno denunciato di essere stati presi a schiaffi, pugni, calci e manganellate dalla polizia di frontiera serba.
Chi cerca di chiedere asilo in Serbia o in Macedonia va incontro a grandi ostacoli. Nel 2014, solo 10 richiedenti asilo hanno ottenuto lo status di rifugiato in Macedonia e solo uno in Serbia.
Per questo, si cerca di proseguire verso l’Ungheria, dove le cose non vanno meglio. Nel 2014, l’Ungheria ha concesso asilo solo a 240 persone, una piccola parte di coloro che avevano presentato domanda.
Le persone fermate per ingresso irregolare in Ungheria vengono regolarmente detenute, spesso in condizioni degradanti e di sovraffollamento, o sottoposte a maltrattamenti da parte delle forze di polizia. Chi non intende chiedere asilo in Ungheria, ad esempio perché vuole provare a presentare la domanda in altri paesi dell’Unione europea, viene di solito espulso verso la Serbia e da qui, in alcuni casi, ulteriormente mandato indietro verso la Macedonia.
Il rapporto di Amnesty International contiene una serie di raccomandazioni per ridurre la pressione sugli stati, causata dall’assenza di politiche europee in grado di soddisfare le necessità di una maggiore solidarietà globale in risposta alla sempre più grave crisi del rifugiati e di una maggiore solidarietà interna tra gli stati membri, che attualmente condividono in modo iniquo la responsabilità dell’accoglienza dei richiedenti asilo.