Le persone e la dignità
17 06 2015
Li chiamano profughi o migranti. Qualcuno, direttamente, clandestini. È un buon sistema per mettere tutti nello stesso mucchio, aumentare i numeri e alimentare le paure.
Gli eritrei che fuggono dal loro paese-gulag (5000 al mese!), molti dei quali in queste ultime settimane hanno popolato le scogliere di Ventimiglia prima di essere sgomberati e le stazioni ferroviarie di Roma e Milano in cerca di un modo per uscire dall’Italia, sono richiedenti asilo che necessitano di protezione internazionale. Fino allo scoppio del conflitto in Siria, costituivano la popolazione rifugiata più numerosa al mondo in rapporto a quella paese di origine.
Cosa è l’Eritrea, oltre ai rapporti di Amnesty International e di altre organizzazioni per i diritti umani, lo ha spiegato la scorsa settimana la Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sull’Eritrea, in un voluminoso rapporto di 484 pagine.
Le conclusioni della Commissione sono agghiaccianti: il governo eritreo è responsabile di massicce e gravi violazioni dei diritti umani nei confronti di una popolazione “controllata, ridotta al silenzio, isolata, vittima di abusi, sfruttata e ridotta in schiavitù”.
Nei 22 anni d’indipendenza, l’Eritrea è diventata uno stato-prigione in cui ogni tentativo di opposizione viene stroncato e punito col carcere e con la tortura (nella foto, la ricostruzione di una tecnica di tortura fatta da un ex prigioniero). La libertà di credo religioso è permessa solo alle confessioni autorizzate e non si estende ai cristiani evangelici e ai pentecostali (ecco cosa succede ai cristiani in fuga), il servizio di leva è obbligatorio e a tempo potenzialmente indeterminato, traducendosi spesso in lavori forzati.
I prigionieri politici sono diverse migliaia, lasciati a languire in carceri isolate, in celle sottoterra o in container in mezzo al deserto. Centinaia di famiglie non sanno dove siano detenuti i loro congiunti, né se siano ancora vivi. Alcuni parenti che hanno osato chiedere notizie sono stati a loro volta arrestati.
La morsa del potere si estende anche oltre-confine, attraverso la criminalizzazione dei rifugiati (lasciare il paese senza autorizzazione è considerato un reato), l’infiltrazione di spie e informatori all’interno della diaspora e le rappresaglie nei confronti dei parenti rimasti in patria.
Di fronte a questa situazione, la reazione dei governi europei rasenta la complicità. In passato, il Servizio per l’immigrazione della Danimarca ha pubblicato un incredibile rapporto che descriveva la situazione dei diritti umani “non così male come è stata descritta”, spianando la strada al “ritorno in condizioni di sicurezza” dei richiedenti asilo eritrei, fortunatamente sospeso nel novembre 2014.
La diplomazia e l’imprenditoria italiana proseguono, senza farsi troppi problemi, lo speciale rapporto di amicizia con l’Eritrea.
Sarebbe bene, ogni volta che un giornalista prepara un servizio sulle scogliere di Ventimiglia, sulle stazioni ferroviarie delle città italiane o sui luoghi di approdo del sud del nostro paese, ricordare che quelle persone fuggono da un paese repressivo sostenuto dal governo italiano.
Le persone e la dignità
15 06 2015
Nella settimana che precede la Giornata mondiale del rifugiato di sabato 20 giugno, torniamo a parlare dello sgombero della “Comunità della pace” di Ponte Mammolo, nella zona orientale di Roma, avvenuto ormai oltre un mese fa.
Come avevamo ricordato in questo blog, la “Comunità della pace” ha subito uno sgombero cruento ad opera del Comune di Roma. Dopo più di un mese, alcuni sgomberati vivono ancora accampati in strada.
Il 5 giugno, Amnesty International aveva scritto al sindaco e al prefetto di Roma, chiedendo spiegazioni sulle modalità dello sgombero e informazioni sugli sviluppi successivi.
Un’altra lettera l’hanno scritta il 14 giugno i rifugiati eritrei (iniziamo a chiamarli come devono essere chiamati: né migranti né profughi). Destinatari, il sindaco e il prefetto di Roma e l’assessora alle Politiche sociali e abitative del comune di Roma.
Ecco il testo:
“Siamo i rifugiati eritrei della Comunità della Pace da anni residenti a Ponte Mammolo (Roma), con la presente, fraternamente salutiamo tutti augurando pace, serenità, prosperità e sviluppo.
Più di un mese fa, l’11 maggio 2015, a noi residenti in Via delle Messi D’Oro, Roma, è capitata una cosa del tutto inaudita ed assurda: il Comune di Roma, con l’appoggio della Prefettura, ha demolito senza alcun preavviso le case che avevamo costruito con le nostre mani con tanto sacrificio, fatica e sudore. Totalmente abbandonati a noi stessi dallo Stato Italiano ci siamo auto-organizzati con la speranza che questa soluzione precaria fosse soltanto transitoria e favorisse la nostra reale inclusione socio-economica ed abitativa.
La Comunità della Pace è nata spontaneamente più di 15 anni fa e nel tempo si è popolata di persone provenienti da vari Paesi: alcuni di noi l’hanno vista nascere e modificarsi negli anni. Eppure, la mattina dell’11 maggio scorso, il Comune è venuto a distruggere quel poco che avevamo, buttandoci di nuovo per strada. Non ci hanno neanche permesso di prendere quella poca roba che avevamo dentro.
È proprio strano e disumano!
A seguito di uno sgombero illegale, costretti a spostarci nel parcheggio antistante, le istituzioni ci hanno negato qualsiasi forma di aiuto, compreso quello per il soddisfacimento dei bisogni primari; hanno rifiutato persino di fornirci i bagni chimici! Il sostegno è arrivato solo dal quartiere, da privati cittadini, da associazioni e centri sociali.
Arrivati in Italia, costretti a lasciare il nostro Paese da una dittatura che sta continuando a calpestare i diritti del nostro popolo, ci aspettavamo una vita migliore, un trattamento diverso, più umano e libero. Invece, stiamo amaramente subendo delle ingiustizie ed un trattamento poco cortese. Ed è per questo motivo, per richiamare alle proprie responsabilità lo Stato Italiano ed in modo particolare, il Comune di Roma, che abbiamo deciso di scrivere questa nostra lettera.
Pertanto, umilmente chiediamo al Comune di Roma e al governo italiano:
1. Un trattamento umano e una soluzione abitativa autonoma. Siamo delle persone, non siamo dei numeri. Abbiamo una storia e una dignità da conservare. Quindi, per favore, trattateci nel rispetto delle leggi italiane ed internazionali e dei diritti umani.
2. La soluzione dei problemi legati al rinnovo dei nostri permessi di soggiorno. Senza un indirizzo di residenza, le questure negano il nostro diritto al rinnovo del permesso di soggiorno, in questo modo il Comune di Roma, la Questura e la Prefettura creano gravi conseguenze sullo stato legale della nostra presenza in Italia impedendoci di fatto l’accesso a diritti fondamentali. Senza la possibilità di trovare un lavoro, non possiamo permetterci di prendere le case in affitto, saremo obbligati quindi ad essere dei senza fissa dimora. Come fare per avere una residenza? Chi deve darci questo indirizzo fisso? Perché lo Stato Italiano e il Comune di Roma ci hanno abbandonato in balia di nessuno? Dovremmo sposare la malavita per vivere? No! Siamo venuti in Italia, a Roma, in cerca di una vita dignitosa.
Stiamo gridando ad alta voce rivendicando il nostro diritto ad una vita libera ed autonoma!”
La 27 Ora
12 06 2015
Wasila Tasi’u ha 15 anni. Non ha mai imparato a leggere e scrivere perché non è mai andata a scuola, ma è una vedova e un’assassina. Ha passato gli ultimi dieci mesi in un carcere nigeriano nello stato di Kano per l’omicidio del marito di 35 anni che le era stato imposto di sposare come seconda moglie.
Nell’aprile dell’anno scorso, una settimana dopo il matrimonio, il marito Umar ha invitato gli amici per festeggiare. Wasila ha preparato il banchetto: riso condito con veleno per topi. Sono morti in quattro e lei è finita sotto processo per omicidio: rischiava la pena capitale. Ma l’altro ieri è stata liberata, con il suo velo candido sopra la gonna multicolore. Il suo avvocato, una donna (con lei nella foto) ha convinto il procuratore a ritirare le accuse. Avevano cercato di condannarla sulla base di una confessione in inglese che aveva firmato con l’impronta del pollice: ma lei parla solo la lingua Hausa.
Non era affatto scontato che Wasila ottenesse la libertà. Un’altra minorenne che ha ucciso il marito trentacinquenne resta in carcere.
Wasila ha un altro problema però: molti la vogliono morta.
Gli attivisti per i diritti umani hanno esultato alla notizia del suo rilascio. Ma c’è anche chi crede che sia un’ingiustizia. I leader religiosi del villaggio del Nord da cui proviene chiedono un risarcimento per le vittime: 36 milioni di naira (170mila dollari) per ciascuno dei morti sulla base della sharia. Il governo ha offerto 2 milioni di naira (quasi diecimila dollari) per ciascuno, ma gli interessati hanno rifiutato. ”Quattro persone sono morte. La gente è arrabbiata. Potrebbero reagire”, ha spiegato all’Associated Press l’avvocata Aliyu Ibrahim, che ha difeso Wasila pro bono perché si batte per i diritti delle donne nigeriane da quasi trent’anni.
La famiglia di Wasila è andata a trovarla pochissime volte quand’era in carcere. Ora però la rivuole. L’avvocato Ibrahim teme che la darebbero in moglie a qualcun altro. D’altra parte, aggiunge, senza scuole nella zona non è che ci siano grandi alternative per i genitori. In Nigeria i matrimoni con le minorenni sono contro la legge, ma sono frequenti lo stesso (le norme non sono state ratificate nel nord del Paese, dove metà delle ragazze a 15 anni sono già mogli).
Durante il processo, Wasila non ha fiatato: ha guardato il pavimento. E’ stato condotto in inglese e lei non capiva una parola. Faticava, però, a controllare le emozioni e di tanto in tanto scoppiava in lacrime.
Viviana Mazza
Il Corriere della Sera
10 06 2015
All’alba manca uno spruzzo di notte. Dalla campagna ancora avvolta nel buio una folla silenziosa si riversa nei viottoli deformati dalle buche. Nelle serre di Vittoria, in provincia di Ragusa, si comincia a lavorare presto la mattina perché alle 12 l’aria brucia e la temperatura sfiora i 50 gradi. Poi qualcuno torna ai campi nel pomeriggio. E se c’è da fare si sgobba anche 10, 12 ore al giorno. Sono per il 70% stranieri, perché gli italiani costano di più. In tutto sono 13.240, 4.349 sono rumeni, e di questi 1.800 sono donne. Le hanno chiamate «schiave delle serre», perché oltre allo stipendio da fame, molto spesso subiscono ricatti, pressioni, spesso vero e proprie molestie da parte di datori di lavoro che sentendosi al sicuro, protetti dal silenzio dei campi e dalla condizione di totale subalternità delle proprie vittime, si spingono in qualche caso fino alla molestia, o addirittura allo stupro.
Anche la giornata di Erika (nome di fantasia) cominciava molto presto la mattina. E andava avanti per tutto il giorno, a sgobbare sui filari di pomodori, tra le melanzane e i meloni. Poi la sera, esausta, doveva subire l’arroganza del padrone: «Ero lì nella sua azienda da quattro mesi. Aspettò di essere solo, che la moglie fosse lontana, in paese. E così si approfittò di me». Ha più di 45 anni, il volto è consumato dalla fatica, rigato dal sole. Eppure Erika conserva una sua dolcezza quasi adolescenziale. Per sei anni ha subito in silenzio. Ha dovuto abortire quattro volte, lei vedova e madre di sei figli rimasti in Romania, a cui mensilmente manda quasi tutto ciò che guadagna: «Da lui mai un aiuto, mai neppure una parola di incoraggiamento. Neanche un cane si tratta così». Per interrompere la gravidanza in tre casi è tornata in Romania, un viaggio di 60 ore in pullman. La quarta volta si è dovuta arrangiare da sola, con l’acqua calda, rischiando la vita. Una situazione che forse l’accomuna alle altre 94 donne rumena che nel 2014 hanno deciso di non portare a termine la gravidanza, un numero molto altro se si considera che gli aborti tra le straniere in totale sono stati 454. «Mi è dispiaciuto tanto - racconta - ma non potevo tenerli. Come facevo? Ho già altri bambini da mantenere».
Nelle campagne tra i comuni di Vittoria, Santa Croce Camerina e Acate non esiste trasporto pubblico. Per ogni spostamento, per le medicine, per l’assistenza legale, i braccianti stranieri dipendono dal proprio datore di lavoro. Quello che si crea è un vincolo di assoluta dipendenza. Psicologica ma anche e soprattutto fisica. «Pretendeva di controllare ogni mio spostamento. Mi tempestava di telefonate se non mi trovava nella mia stanza», spiega Erika.Una notte, esausta, ha tentato la fuga: «Da allora non mi ha dato tregua, fino a quando mi ha ritrovata. Mi ha riportato indietro e mi ha mostrato la sbarra di ferro con cui, mi ha detto, mi avrebbe spaccato la faccia. La notte stessa sono scappata di nuovo, ma sono inciampata nel filo di ferro che aveva teso proprio all’uscita della mia baracca e mi sono ferita. Il giorno dopo, nella serra, mi ha visto dolorante. E senza pietà mi ha riso in facciao: che fai, non lavori oggi? Mi ha detto»
Solo i carabinieri della compagnia di Ragusa sono riusciti a salvare Erika dal suo padrone. Guidati dal tenente David Millul, e grazie alla costanza del maresciallo Valenzisi, il comandante della stazione che ha raccolto la prima informazione da una fonte confidenziale, hanno radunato le prove e finalmente fatto irruzione nell’azienda dell’uomo, ora detenuto con l’accusa di violenza sessuale e sequestro di persona. La vicenda di Erika, per quanto estrema, non è probabilmente l’unica. I racconti di violenze e abusi subiti nelle serre si rincorrono. Ma sono voci. Le denunce restano pochissime. Ci sono state le inchieste sociologiche, i reportage dell’«Espresso» e del Corriere della Sera hanno acceso i riflettori su questa realtà. «La comunità rumena è estremamente riservata», spiega Giuseppe Scifo, segretario della Flai Cgil, e punto di riferimento «sindacale» per centinaia di braccianti a Vittoria e dintorni. «Si tratta di una presenza creatasi negli ultimi anni - aggiunge il sindacalista - Nei registri Inps del comune di Vittoria, nel 2006 erano annoverate 30-40 lavoratori rumeni. Nel 2007 erano già 1200. Oggi, in tutta la provincia, se ne contano 4.300». Chiusi, diffidenti nei confronti dell’istituzione, difficilmente si aprono e raccontano i propri problemi. Per avvicinarli la Cgil in collaborazione con una associazione che lavora proprio nel campo dell’assistenza alle lavoratrici, ha attrezzato un pullmino che attraversa i campi e accompagna le donne avanti indietro. E tra una buca e l’altra, lungo le stradine polverose che irradiano questa immensa distesa di serre, sono riusciti a prendere i primi, difficoltosi contatti con le vittime.
Le persone e la dignità
09 06 2015
Dal 1971, 177.000 donne e ragazze irlandesi o residenti in Irlanda sono state costrette a recarsi all’estero, soprattutto in Inghilterra e Galles, per abortire. Nel 2013 sono state 3679, più di 10 ogni giorno.
Questa singolare e drammatica migrazione è dovuta a una delle legislazioni più restrittive d’Europa (pari solo a quelle in vigore a Malta, Andorra, San Marino e in Polonia) e del mondo in tema d’interruzione di gravidanza, soprattutto a causa dell’emendamento che nel 1983 ha dato priorità costituzionale alla “protezione del feto”.
In un rapporto presentato martedì mattina a Dublino, Amnesty International ha ricordato che l’Irlanda consente l’aborto solo quando la vita della donna è a rischio (“effettivo e considerevole”, secondo la legge) e lo vieta in caso di stupro, di danno grave o fatale al feto o di rischio per la salute della donna. Da evidenziare, la distinzione tra “rischio per la salute” e “rischio per la vita”.
Chi ricorre a un aborto illegale, così come chi presta assistenza, rischia fino a 14 anni di carcere.
Il rapporto di Amnesty International contiene testimonianze di persone che hanno abortito all’estero, alcune delle quali hanno avuto un aborto spontaneo ma sono state costrette a tenere per settimane al loro interno un feto morto o senza speranze di vita, nella vana attesa di poter ricevere in patria le cure mediche necessarie.
Róisin, ad esempio, è stata obbligata a tenere al suo interno un feto morto da settimane, poiché i medici volevano essere assolutamente certi che non vi fosse battito cardiaco.
Lupe, costretta a tenere al suo interno un feto privo di battito cardiaco da 14 settimane, è dovuta tornare nel suo paese di origine, la Spagna, per ricevere un trattamento adeguato.
La priorità assegnata alla “protezione del feto” raggiunge livelli di crudeltà assoluti.
Lo scorso dicembre, una donna clinicamente morta è stata tenuta artificialmente in vita per 24 giorni, contro la volontà dei suoi familiari, a causa del battito cardiaco del feto che portava dentro di sé.
A Rebecca H., gravemente ammalata, è stato rifiutato un cesareo per il timore che danneggiasse il feto. È stata costretta a un periodo di doglie di 36 ore in quanto il compito dei medici era, a loro dire, quello di “occuparsi del bambino, che viene prima di tutto”.
Il dottor Peter Boylan, ostetrico, ginecologo ed ex direttore sanitario dell’Ospedale nazionale di maternità irlandese, ha descritto ad Amnesty International le strettoie legali ed etiche in cui il personale medico è costretto a muoversi:
“Sulla base della legge vigente, dobbiamo aspettare che la donna stia abbastanza male prima di poter intervenire. Fino a che punto deve essere prossima alla morte? A questa domanda non c’è risposta”.
La normativa irlandese, inoltre, considera autori di un reato (multa prevista: 4000 sterline) anche i medici e i consulenti che forniscono alle donne informazioni esaurienti sui trattamenti di cui hanno bisogno e su come avere un aborto legale.
Dunque, nell’Irlanda che ha voluto mostrarsi al mondo una nazione aperta e inclusiva in occasione del referendum sui matrimoni omosessuali, un’atmosfera di stigmatizzazione e paura circonda le donne che necessitano di abortire e il personale medico che le assiste e consiglia.
Da oggi, Amnesty International chiederà attraverso petizioni e mobilitazioni ai legislatori irlandesi di rivedere la normativa, cancellando l’emendamento costituzionale del 1983 sulla “protezione del feto”, ampliando i casi in cui sia possibile ricorrere a un aborto legale e sicuro e abrogando le disposizioni che impediscono di fornire consigli e consulenza medica alle donne.Dal 1971, 177.000 donne e ragazze irlandesi o residenti in Irlanda sono state costrette a recarsi all’estero, soprattutto in Inghilterra e Galles, per abortire. Nel 2013 sono state 3679, più di 10 ogni giorno.
Questa singolare e drammatica migrazione è dovuta a una delle legislazioni più restrittive d’Europa (pari solo a quelle in vigore a Malta, Andorra, San Marino e in Polonia) e del mondo in tema d’interruzione di gravidanza, soprattutto a causa dell’emendamento che nel 1983 ha dato priorità costituzionale alla “protezione del feto”.
In un rapporto presentato martedì mattina a Dublino, Amnesty International ha ricordato che l’Irlanda consente l’aborto solo quando la vita della donna è a rischio (“effettivo e considerevole”, secondo la legge) e lo vieta in caso di stupro, di danno grave o fatale al feto o di rischio per la salute della donna. Da evidenziare, la distinzione tra “rischio per la salute” e “rischio per la vita”.
Chi ricorre a un aborto illegale, così come chi presta assistenza, rischia fino a 14 anni di carcere.
Il rapporto di Amnesty International contiene testimonianze di persone che hanno abortito all’estero, alcune delle quali hanno avuto un aborto spontaneo ma sono state costrette a tenere per settimane al loro interno un feto morto o senza speranze di vita, nella vana attesa di poter ricevere in patria le cure mediche necessarie.
Róisin, ad esempio, è stata obbligata a tenere al suo interno un feto morto da settimane, poiché i medici volevano essere assolutamente certi che non vi fosse battito cardiaco.
Lupe, costretta a tenere al suo interno un feto privo di battito cardiaco da 14 settimane, è dovuta tornare nel suo paese di origine, la Spagna, per ricevere un trattamento adeguato.
La priorità assegnata alla “protezione del feto” raggiunge livelli di crudeltà assoluti.
Lo scorso dicembre, una donna clinicamente morta è stata tenuta artificialmente in vita per 24 giorni, contro la volontà dei suoi familiari, a causa del battito cardiaco del feto che portava dentro di sé.
A Rebecca H., gravemente ammalata, è stato rifiutato un cesareo per il timore che danneggiasse il feto. È stata costretta a un periodo di doglie di 36 ore in quanto il compito dei medici era, a loro dire, quello di “occuparsi del bambino, che viene prima di tutto”.
Il dottor Peter Boylan, ostetrico, ginecologo ed ex direttore sanitario dell’Ospedale nazionale di maternità irlandese, ha descritto ad Amnesty International le strettoie legali ed etiche in cui il personale medico è costretto a muoversi:
“Sulla base della legge vigente, dobbiamo aspettare che la donna stia abbastanza male prima di poter intervenire. Fino a che punto deve essere prossima alla morte? A questa domanda non c’è risposta”.
La normativa irlandese, inoltre, considera autori di un reato (multa prevista: 4000 sterline) anche i medici e i consulenti che forniscono alle donne informazioni esaurienti sui trattamenti di cui hanno bisogno e su come avere un aborto legale.
Dunque, nell’Irlanda che ha voluto mostrarsi al mondo una nazione aperta e inclusiva in occasione del referendum sui matrimoni omosessuali, un’atmosfera di stigmatizzazione e paura circonda le donne che necessitano di abortire e il personale medico che le assiste e consiglia.
Da oggi, Amnesty International chiederà attraverso petizioni e mobilitazioni ai legislatori irlandesi di rivedere la normativa, cancellando l’emendamento costituzionale del 1983 sulla “protezione del feto”, ampliando i casi in cui sia possibile ricorrere a un aborto legale e sicuro e abrogando le disposizioni che impediscono di fornire consigli e consulenza medica alle donne.
La 27 Ora
04 06 2015
Abbiamo provato a immaginare la figlia tredicenne di Loredana, uccisa da suo marito (poi suicida) due giorni fa ad Albenga. La ragazzina era in casa, ha assistito a parte del litigio, poi è corsa sul balcone a urlare chiedendo aiuto. Sua madre aveva firmato più denunce contro il marito (suo padre) che la tomentava da quando a dicembre lo aveva lasciato andando via di casa. A gennaio l’uomo era stato arrestato per maltrattamenti dopo averla infastidita tante volte e averle messo le mani al collo durate una lite. Due anni di condanna, poche settimane di carcere e poi di nuovo libero.
Ecco il discorso immaginario fra l’adolescente e lo Stato che avrebbe dovuto proteggere sua madre.
Caro Stato,
ti scrivo ma è difficile per me dire chi potresti essere. Forse quel giudice che l’altro giorno ha deciso che mio padre non era più pericoloso e quindi poteva stare fuori dalla prigione anche se si era fatto in cella solo poche settimane dei due anni a cui lo avevi condannato per maltrattamenti. O magari sei il carabiniere che ha raccolto una denuncia dietro l’altra di mia madre. Potresti essere anche l’altro giudice, quello che ha deciso di togliere a mia madre anche quella labilissima protezione del divieto di avvicinamento. Cento metri, avevi detto all’inizio, caro Stato. Ma poi ti sei rimangiato anche quello e hai stabilito che mio padre in fondo poteva tornare a essere un buon padre. Così l’hai lasciato libero di fare e di andare. L’hai fatto per dare a lui una possibilità, lo capisco. Perché tu sei anche il Legislatore e quindi hai creato gli strumenti per intervenire, la magistratura non fa che eseguire, è vero. Ma è anche vero che c’è sempre un margine per usare i tuoi strumenti in modo più severo oppure no, più garantista oppure no.
Caro Stato, io non lo so qual è la strada giusta ma ti chiedo: con chi dovrei prendermela, secondo te? Se devo cercare di risalire all’anello della catena che non ha tenuto, quale scelgo? Chi devo ringraziare da oggi in poi per il fatto che mio padre ha potutto uccidere mia madre, che anche lui è morto e che nessuno ha potuto fare niente anche se mia madre viveva con la morte accanto da mesi?
Vedi, caro Stato, io sono soltanto una ragazzina. Sarà complicato per te convincermi che sono stati tutti bravi, attenti, buoni, ragionevoli. E che però la storia è finita tragicamente lo stesso. Perché io proprio non lo capisco. Non capisco come mai nonostante tutto questo gran parlare di stalking, di femminicidi, di donne ammazzate e di uomini violenti, mia madre sia dovuta morire accoltellata. Se fosse stata zitta, se avesse subito senza fiatare…. potrei pensare che proprio quel silenzio, alla fine, è stata la sua condanna. E invece no. Lei ha chiesto, chiesto, chiesto… ha firmato carte su carte, in caserma. E che cos’era quella se non una richiesta di aiuto?
E’ vero. Se qualcuno è determinato, se proprio vuole, fortissimamente vuole ucciderti prima o poi ce la fa. Mio padre ce l’ha fatta. Ma se le regole della protezione di una persona che si ritiene perseguitata non valgono nemmeno dopo tutto quello che ho sentito sulla violenza contro le donne che cosa ne abbiamo parlato a fare? mi chiedo. Perché si parla di vittime “annunciate” sempre dopo che sono diventate vittime? E vogliamo parlare della certezza della pena?
Ecco, caro Stato. Magari mi sbaglio ma sono quasi sicura che non hai una risposta alle mie domande. Così come sono certa che la mia vita è azzerata. Ho perso in pochi minuti mia madre e mio padre, i miei sogni non saranno più gli stessi, la mia vita sarà sempre in salita. E chissà quante altre ragazzine come me finiranno schiacciate da drammi assoluti, mentre i tuoi apparati fisseranno regole nuove, sposteranno equilibri familiari, ragioneranno su questo o quel provvedimento, scriveranno nuove sentenze… mentre avvocati e consulenti diranno questo o quello di persone di cui, spesso, sanno poco o nulla.
Io sono solo una ragazzina ma una cosa la so. Se le maglie di questo sistema fossero state più strette oggi mia madre sarebbe ancora qui, accanto a me. E la vita, anche la mia, non mi sembrerebbe finita.
Giusi Fasano
Le persone e la dignità
01 06 2015
Il brutale sgombero dell’insediamento romano di ponte Mammolo chiamato “Comunità della pace”, finito anche sulle pagine del New York Times, fa sentire ancora le conseguenze, a tre settimane di distanza, nei confronti di decine di persone accampate in strada.
In quell’insediamento, su cui si è abbattuta la tanto invocata ruspa – questa volta ad opera del Comune di Roma – vivevano circa 400 persone, in buona parte rifugiati politici, molti dei quali provenienti dal Corno d’Africa. Negli ultimi tempi, vi si erano aggiunti migranti est-europei e latinoamericani nonché richiedenti asilo in transito, che non si erano fatti prendere le impronte all’arrivo in Italia per non incappare nelle maglie del regolamento Dublino III ed essere così costretti a chiedere il riconoscimento nel nostro paese.
C’erano case di fortuna, costruite a poco a poco nel corso degli anni, autogaranzia minima di sopravvivenza, un tetto sotto il quale rientrare (nel contesto di una crisi abitativa che, nella Capitale, riguarda stranieri come italiani) al termine di una giornata di lavoro, sempre cercato, a volte trovato, quasi mai pagato adeguatamente.
Come in altri casi di sgombero “si sapeva”, erano in corso negoziati e trattative informali in cui erano coinvolte le autorità comunali e le associazioni di volontariato che difendono i diritti dei rifugiati. Alla “Comunità della pace” era arrivato anche papa Francesco.
Il diritto internazionale prevede che uno sgombero, per non essere “forzato” ossia illegale, debba essere notificato a tutti gli interessati, per tempo, e che a questi ultimi debba essere fornito un alloggio alternativo adeguato.
Non è andata così, denunciano le persone sgomberate, molte delle quali hanno avuto due minuti di tempo per abbandonare l’insediamento. Altre sono uscite all’alba per andare al lavoro e al rientro hanno trovato solo macerie. Documenti personali, ricordi, vestiti, medicine sono finiti sotto la ruspa.
Decoro, degrado, allarme sanitario. Le ragioni fornite per giustificare gli sgomberi sono le solite: in fondo lo si fa per il “loro” bene. Ma dopo lo sgombero, cosa si fa per il “loro” bene?
L’intervento rapido promesso dall’assessora alle Politiche sociali Francesca Danese ha significato per alcuni una precaria ospitalità in dormitori e centri di assistenza. Un passo indietro, da una seppur precaria auto-organizzazione abitativa alla dipendenza, altrettanto precaria e in un clima di pesante ostilità.
Restano in strada, dall’11 maggio, decine di sgomberati, accampatisi nel piazzale antistante le macerie. Quali soluzioni degne e adeguate per loro?
All’orizzonte, intanto, si profila un altro sgombero: quello del centro d’accoglienza di via Scorticabove, dove si trovano attualmente oltre 100 rifugiati sudanesi. Dopo l’allarme lanciato dal presidente della Commissione straordinaria per i diritti umani del Senato, Luigi Manconi, l’operazione è stata rinviata a fine giugno.
La 27 Ora
29 05 2015
“La forza e il coraggio che queste ragazze hanno dimostrato scappando dallo Stato Islamico è un simbolo per tutte le altre donne che sono in una situazione simile”. Jacqueline Isaac pronuncia queste parole con calma, senza fretta, mentre sorseggia un caffè freddo in un bar a Brooklyn. Vuole che il messaggio sia chiaro, esattamente come quando ha parlato al Congresso americano mercoledì scorso. “Non possiamo lasciarle sole, questo è un problema che riguarda tutta l’umanità”, spiega.
Nel suo intervento, durato sette minuti, ha cercato di dare un messaggio di speranza perché “agli americani piacciono le storie a lieto fine” ma allo stesso tempo non ha risparmiato i dettagli sulla violenza e i traumi che questa ha lasciato, cercando di sensibilizzare i politici a fare di più contro lo Stato Islamico. “Armiamo i Peshmerga (l’esercito curdo ndr), aiutiamoli con armi e logistica in una guerra che riguarda anche noi”, è stato il suo appello.
Ma Isaac ha come obiettivo di aiutare le centinaia di ragazze Yazide che sono riuscite a scappare dalla prigionia in Iraq e in Siria. Secondo le stime delle Nazioni Unite circa 7mila donne sono state rapite e quindi vendute nei mercati di Mosul e Raqqa. Poi sono state usate come schiave, stuprate e seviziate. “Molte di loro vivono nei campi profughi, ma non esiste un vero supporto psicologico, così abbiamo deciso di aiutarle noi, con la nostra Ong Road of Success (Letteralmente le strade del successo ndr), portando un team di psicologi volontari”.
Quella per le donne yazide è l’ultima di una lunga serie di battaglie che Isaac ha condotto negli ultimi anni. Lei si è sempre focalizzate sulle donne in Medio Oriente. “Mi dicono che ho un dono, posso parlare sia agli americani che agli arabi ed entrambi mi ascoltano”, spiega.
La donna, 29 anni, è nata a San Diego California da genitori di origine egiziana ma di fede cattolica. Ha lunghi capelli scuri legati in una coda, indossa un vestitino bianco e blu con delle scarpe basse. Ha un filo di trucco e parla con un tono profondo, a volte greve. Soprattutto quando racconta del ritorno in Egitto imposto dai genitori a 13 anni e che descrive come “uno choc culturale”.
“Ho capito di aver cambiato vita quando all’aeroporto del Cairo ho abbracciato mio cugino. Mio padre mi ha preso da parte e mi ha chiesto: ‘Cosa pensi di fare? Non siamo più in America e non puoi abbracciare un uomo, nemmeno tuo cugino’”.
Sempre quell’anno ha scoperto che cos’era l’infibulazione, “sono andata a un incontro con mia madre e alcune donne ne parlavano”, poi la violenza in una società estremamente maschilista.
Per tre anni è rimasta al Cairo, poi studentessa modello è andata all’università due anni in anticipo. “Il mio unico obiettivo era quello di tornare in California così sono riuscita a prendere la maturità due anni in anticipo e andare all’università”.
Ma i racconti di quelle donne le sono rimasti addosso e se prima pensava di fare la biologa, poi ha deciso di passare a legge (che pratica con un suo studio specializzato in immigrazione) e scienze politiche all’università. Dopo la laurea è cominciato il suo impegno umanitario con l’associazione, creata con la madre che nel frattempo ha un programma alla televisione egiziana sulle donne.
“Il mio primo impegno è stato quello contro l’infibulazione. Sono andata a parlare con i capi tribù in alcune zone appena fuori dal Cairo. Dopo il mio discorso il capo mi ha promesso che non avrebbero piuù toccato una bambina”. Poi ha passato mesi in Giordania nei campi profughi siriani, poi l’Iraq e le donne Yazide. “Il nostro obiettivo è quello di portare speranza a chi non ne ha piuù perché ha perso tutto”.
Benedetta Argentieri