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CORRIERE DELLA SERA

Corriere della Sera
29 05 2015

Raffreddare la testa durante la chemioterapia salva i capelli e aiuta una donna a combattere il male restando persona. Per ora funziona solo per la chemio usata per il tumore al seno. Non per quella usata nel cancro al polmone che ha colpito Emma Bonino, ma lei ribadisce: «Io non sono il mio tumore, ma resto una persona». Il suo messaggio in video si diffonde tra le 900 donne guarite di tumore riunite a Milano all’annuale appuntamento voluto e ideato da Umberto Veronesi nel 2007: «Ieo per le donne». Ex pazienti dell’Istituto europeo di oncologia (Ieo), e di altri istituti, riunite per testimoniare di aver ritrovato la loro identità. Di essere di nuovo persone. Forse nuove persone.

L’oncologo fondatore dell’Istituto di via Ripamonti non c’era, ma il suo messaggio è un monito. Più alla scienza, che alle donne che hanno lasciato il tumore alle spalle. «I trattamenti non devono più guarire la malattia dimenticando la persona - scrive alle sue “amiche” - . Abbandoniamo il termine “paziente” che indica un essere umano senza identità, che subisce passivamente. Non possiamo più curare qualcuno senza sapere chi è, cosa pensa, qual è il suo progetto di vita». Guarire solo «l’involucro»? Non basta. Applauso liberatorio delle donne, molte accompagnate dai compagni, da amiche e figlie. Convention femminile con un mantra ricorrente: via il tumore anche dalla mente. Le testimonianze, moderate da Daria Bignardi, riguardano i cambiamenti interiori e quelli di relazione, i rapporti sociali e di coppia, la paura dell’amore.

In quest’ottica anche la scienza deve ricercare soluzioni che riguardano la persona malata in modo che malata non si senta. Che non sia terrorizzata dal male e dalla cura che ferisce la psiche. Che cosa offre la scienza? Quest’anno il caschetto che salva i capelli: la chemio senza parrucca. Spiega Paolo Veronesi, che dirige la chirurgia del seno allo Ieo: «Nel nostro istituto è stato utilizzato da 30 pazienti, con buoni risultati». Ne sono testimonianza i folti e biondi capelli di Elisabetta Cirillo, 29 anni, da Brescia, una giovanissima «guarita», presente con il fidanzato. Dodici sedute di chemio. «Quando fai queste cure non vuoi essere bella - dice -. Vuoi solo sentirti normale, non identificarti con il cancro. Svegliarti, guardarti allo specchio, riconoscerti, essere sempre te stessa». Sorride. Grazie anche al caschetto. Una delle 30. Veronesi tira le somme: «L’85% si è detto soddisfatto. Vale a dire che in 25 pazienti la caduta è stata di grado 1 o 2, cioè non percepibile dal punto di vista estetico».

Posto che la caduta zero non esiste (i capelli si perdono anche naturalmente), per grado 1 si intende una perdita del 25% della capigliatura, mentre per grado 2 si intende una caduta del 50%. Comunque non percepibile. «Stiamo valutando, primi in Italia, questo sistema - spiega ancora Veronesi jr - che consiste in un macchinario collegato a due caschetti refrigeranti ( Dignicap è il nome), uno per paziente, che si indossano prima, durante e dopo l’infusione di chemio. È un sistema di raffreddamento che protegge le cellule dei bulbi piliferi del cuoio capelluto dai danni da farmaci, riducendo la caduta dei capelli. Il freddo diminuisce la perfusione del sangue e il metabolismo, riducendo l’attività “distruttiva” dei chemioterapici». La temperatura, personalizzata da tre sensori, arriva a 3-5 gradi. I risultati nei Paesi come gli Stati Uniti (dove la macchina è in attesa dell’approvazione Fda), la Gran Bretagna e la Francia, dove Dignilife è ormai routine, sono ottimi. La «medicina delle 5P» (predittiva, preventiva, personalizzata, partecipativa e psicologica) trova così un altro tassello per diventare realtà.

Mario Pappagallo

Il Corriere della Sera
27 05 2015

Che dire della sorprendente iniziativa del Magnifico Rettore de La Sapienza, Eugenio Gaudio, che l’8 maggio ha dato il via ufficialmente al Concorso di Miss Università 2015, La studentessa più bella e Sapiente degli Atenei italiani ?

Da quando si è cominciato a parlare della proposta di legge sulla «Buona scuola», non pochi dubbi erano già stati espressi su che cosa sarebbe passato sotto la voce “merito”, “apertura all’esterno”, “sponsorizzazione”, adeguamento della figura di Preside a quella di manager. Adesso ne abbiamo un esempio che non lascia dubbi su quali imprevedibili, perverse interpretazioni se ne possono dare.

Nel locale affollato dove si è svolto l’evento, il BillionS di Roma, il punteggio di “merito” delle studentesse in gara è sembrato che potesse cominciare dal numero degli esami e dai voti ottenuti per finire con quello assegnato da una giuria di illustri professionisti, docenti e imprenditori alla gradevolezza delle loro fattezze fisiche.

Tra i “giudici di bellezza”, oltre al Rettore de La Sapienza, un docente dell’Università Cattolica, alcuni chirurgi plastici. Sponsor ufficiale: il Centro LaClinique, «prima organizzazione italiana di specialisti in chirurgia e medicina estetica». Il premio prevedibile per le prime dieci classificate: una settimana gratis al Resort la Casella, dove potranno fare qualche ritocco alla loro naturale bellezza.

Il corpo a scuola è già presente da sempre, ma è rimasto a lungo il “sottobanco”. Chi, nella stagione lontana dei movimenti non autoritari ha provato a dargli voce, a riconoscergli l’attenzione dovuta a una componente non trascurabile della nostra umanità -passioni, sentimenti, fantasie e desideri non sempre confessabili- ha conosciuto l’intervento tempestivo della mano ferma con cui lo Stato e la Chiesa hanno tenuto per secoli l’educazione sotto il loro controllo.

Oggi, chi rischia sono, al contrario, coloro che vorrebbero sollevare qualche interrogativo sul discutibile connubio tra impegno intellettuale e doti fisiche, tra il ruolo di studioso, insegnante, responsabile di una università e quello di produttore di cosmetici, chirurgo plastico, dirigente di Beauty Farm. Oppure, volendo spingere oltre l’analisi di una iniziativa che fa temere il peggio, quando fosse approvata la riforma della “buona scuola”, sarebbe ancora meno al sicuro chi, come me, azzardasse qualche considerazione su che cosa ne è stato dell’intuizione di partenza del femminismo: la “riappropriazione del corpo”, la costruzione di una individualità femminile liberata da modelli imposti e forzatamente interiorizzati.

Se è facile mettere in discussione il potere che ha ancora il sesso maschile dominante di dare forma al suo immaginario, senza alcuna remora, lo è molto meno chiedersi perché giovani studentesse accettino che la loro bellezza diventi oggetto di merito quanto il loro impegno nello studio, che cosa le spinge a legittimare un antico pregiudizio, solo perché viene loro abilmente riproposto confuso con gli interessi di una scuola sempre più conforme a interessi aziendali.

L’ideologia che ha costruito il femminile come seduzione e maternità non si è eclissata con la rapidità che ci si aspettava, e oggi purtroppo sono le donne stesse a farla attivamente propria. La strada dell’autonomia o della liberazione –come si diceva in passato- è ancora lunga.

Nel frattempo, non possiamo che registrare l’illusione di molte donne di potersi emancipare come corpo, di poter volgere a vantaggio gli stessi “requisiti”, considerati “naturali”, sulla base dei quali sono state per millenni tenute lontano dall’istruzione, dal potere, dal governo del mondo.

A chi obbietta che la bellezza è una dote femminile in più di cui non ci si dovrebbe vergognare, rispondo che le donne l’hanno sempre usata in sostituzione di altri poteri loro negati, così come d’altro canto gli uomini l’hanno piegata al loro piacere, sfruttata per altri fini all’interno della comunità dei loro simili. Il desiderio di cambiamento comincia con la presa di coscienza di che cosa sono stati finora i rapporti tra uomini e donne. Mi rendo conto che tale consapevolezza stenta a farsi strada, ma ormai è affiorata alla storia, e da lì non si torna indietro.

La generazione delle figlie e delle nipoti ha ereditato dai movimenti femministi una eredità controversa: gode di diritti fino a pochi decenni fa impensabili, ma che rischiano di rimanere solo formali quando urtano contro un sentire intimo che conserva abitudini, pregiudizi, adattamenti inconsapevoli al passato. Altrettanto si può dire di una libertà che vede il corpo e le attrattive che il desiderio maschile vi ha attribuito scrollarsi di dosso un controllo secolare, senza perdere per questo la possibilità di tornare a essere “oggetto”, “complemento” di un ordine esistente.

I corpi femminili che si prendono oggi la loro rivalsa sulla scena pubblica si poteva immaginare che avrebbero prima di tutto, e forse ancora a lungo, conservato i segni che la storia, la cultura dominante, vi ha impresso sopra.

Ma che sia la “buona scuola”, che si proclama distruttrice degli stereotipi di genere, a rimetterli in auge così sfacciatamente, non dovrebbe lasciare indifferenti.

 

La 27ora
26 04 2015

Perché ripetiamo ancora ai maschi «non piangere come una femminuccia»? E come mai le femmine si sentono dire da parenti e insegnanti «una bambina non fa questo» se strillano troppo? Noi adulti non consentiamo ai bambini ed alle bambine di crescere secondo le loro inclinazioni; ma li ingabbiamo nei nostri schemi di virilità e femminilità. Sembriamo sicuri che sia utile dividere i giochi, i colori e le collane letterarie per maschi da quelle per femmine. Spesso indirizziamo i nostri figli persino nella scelta degli studi come quando scoraggiamo le femmine che vorrebbero occuparsi di fisica nucleare e i maschi attratti dall’insegnamento. Eppure il meglio che possa accadere nella vita è scegliere senza condizionamenti e che le scelte siano il frutto dei nostri desideri e non di pregiudizi e gabbie predefinite per sesso, orientamento sessuale, età ed etnia.

Da queste ipotesi è partita l’inchiesta della rivista di politica e cultura delle donne Leggendaria, arrivata al numero 110 della sua lunga e libera storia editoriale: il 19 maggio sarà presentata a Milano in un incontro intitolato «Anatema sul gender: la scuola sotto tiro» (Casa delle donne, ore 18, via Marsala 8. Saremo a Genova, il 15 e a Trieste il 21 maggio). E subito ci siamo misurate con le polemiche che in questi mesi hanno investito e travolto, in alcuni casi, i formatori, i genitori e i docenti impegnati a portare a scuola l’educazione alle differenze sessuali.

Forse ricorderete in marzo lo scandalo scoppiata quando una materna di Trieste ha sperimentato un progetto ludico educativo finanziato dalla Regione che prevedeva, insieme a molte altre tappe, lo scambio dei ruoli e la possibilità per bimbi e bimbe di scambiarsi i costumi di principessa e cavaliere. Si è parlato di «giochi morbosi all’asilo», come in altri casi si è accusata una fantomatica «lobby omosessuale» di voler «convertire i giovani all’omosessualità» (La27ora ne ha scritto qui) solo perché il ministero per le Pari Opportunità nel 2014 aveva fatto preparare all’istituto Beck gli opuscoli informativi «Educare alla diversità a scuola» per arginare il bullismo omofobico dilagante.

Gli opuscoli sono stati precipitosamente ritirati e sono scomparsi, ma purtroppo sappiamo quanto soffrano molti ragazzi i cui comportamenti paiono non virili ai loro compagni e compagne. Magari attraversano solo una fase di passaggio adolescenziale, ma accade che, messi alla berlina sui social media, si ritirino da scuola e vadano in crisi. Alcuni dopo essere stati insultati perché gay, si sono anche uccisi. Non sarebbe ragionevole insegnare il rispetto delle differenze per prevenire la violenza e la discriminazione basata sul sesso o l’orientamento sessuale? Ci sono molti studi che dimostrano (la rivista Hamelin ne ha scritto spesso e con competenza) che oltre il 97 per cento di ragazze e ragazzi, dai 13 anni in su, hanno visto siti porno, dove imperversa una sessualità rozza e spesso violenta, dove trionfano gli stereotipi dell’uomo macho e della donna oggetto. L’Europa ha spesso sollecitato l’Italia a portare l’educazione dei sentimenti nelle classi fin dai primi anni di vita dei bambini, come accade in quasi tutti i Paesi dell’Unione, anche per sottrarli alla pornografia oggi accessibile a tutti.

La scuola pubblica, che pure è afflitta da tanti problemi, è diventata da noi un campo di battaglia tra chi vuole introdurre questi temi sia nella formazione degli insegnanti sia all’interno delle classi e chi li ostacola rivendicando esclusivamente alla famiglia l’educazione dei figli a temi così delicati e intimi. Ci sono le sentinelle in piedi e le associazioni che mandano petizioni e decine di migliaia di firme al presidente della Repubblica perché non si insegni quella che chiamano teoria o ideologia del gender ai loro figli. La Conferenza episcopale italiana, L’Osservatore Romano e perfino la moderata Famiglia Cristiana hanno scatenato una lotta senza quartiere alla dittatura del gender, che altro non sarebbe se non la manipolazione dell’infanzia. E che segnerebbe la fine della differenza tra i sessi e della stessa famiglia naturale.

La posta in gioco è evidentemente alta: in Parlamento giacciono da tempo vari disegni di legge. Leggendaria ha intervistato le firmatarie delle tre leggi di Pd, Sel e M5S, che spiegano cosa intendono per educazione all’affettività a scuola (nessuno la chiama più sessuale). Non si intende affatto azzerare le differenze tra i sessi, piuttosto si vogliono prendere in considerazione tutte le differenze: si vuole fare della scuola non «un campo di rieducazione», come temono alcuni, ma una palestra per abbattere i pregiudizi che alimentano o giustificano violenza o bullismo, disparità tra i generi, omofobia. Su questo stesso blog Monica Ricci Sargentini ha scritto che la teoria del gender vuole azzerare le differenze, ma credo confonda il pensiero di una accademica come Judith Butler e la pratica degli studi di genere di cui si parla nella scuola italiana, studi che vogliono appunto far discutere sulle differenze a partire da quelle uomo-donna.

Il fronte favorevole conta associazioni e singoli che vogliono far sì che le differenze non si tramutino in diseguaglianze. La spinta viene «dal basso», molti docenti hanno desiderio di formazione e di condivisione perché si trovano a essere la prima linea delle nuove frontiere delle differenze tutte, comprese quelle religiose e etniche. Negli ultimi anni pedagogisti, genitori e, appunto, tanti docenti di ogni ordine e grado hanno moltiplicato, da nord a sud, progetti e percorsi formativi per prendere confidenza con temi come la relazione tra i sessi, l’affettività, l’omofobia, le diversità nella composizione delle famiglie di oggi che hanno spesso genitori separati con nuovi compagni o compagne e meno spesso (ma accade) genitori dello stesso sesso.

Scrive su Leggendaria Monica Pasquino presidente di S.co.s.s.e (Soluzioni Comunicative Studi servizi editoriali), associazione che lavora nel Lazio al progetto «Educare alle differenze», che gli attacchi subiti sono stati fortissimi da parte della diocesi di Roma e di vari movimenti politici cattolici che hanno diffuso volantini nelle scuole in cui loro lavoravano per far boicottare i corsi a genitori e insegnanti. Sotto accusa, secondo Pasquino, è la scuola pubblica e la sua autonomia di trasmettere alle nuove generazioni i valori della cittadinanza plurale e principi più ampli, non necessariamente migliori, di quelli trasmessi nella famiglia di appartenenza. Dopo tante polemiche S.co.s.s.e. ha convocato a Roma, lo scorso anno, chi condivide il progetto. Sono arrivati in 600 da tutta Italia: prof e genitori, associazioni di donne e di omosessuali, funzionari delle istituzioni, tutti autofinanziati. Un successo. Tanto che in ottobre si replica.on basta. Serve un lavoro culturale, attento, costante e profondo”.

Corriere.it
26 05 2015

Orrore al confine tra Malaysia e Tailandia: le autorità malaysiane hanno scoperto 139 fosse comuni di migranti in 28 campi abbandonati da trafficanti di esseri umani, campi dove passano migliaia di persone in fuga, soprattutto musulmani Rohingya provenienti dalla Birmania. Anche in Tailandia, nelle scorse settimane, le autorità hanno ritrovato 30 corpi in tombe comuni. È proprio il giro di vite delle autorità thailandesi contro una pratica prima tollerata ad aver innescato l’emergenza umanitaria delle ultime settimane, con migliaia di Rohingya e bengalesi abbandonati in mare dagli scafisti per paura di essere arrestati.

Asilo per un anno

I trafficanti terrebbero ostaggio i migranti - che già pagano migliaia di dollari per il passaggio - in questi campi, nella speranza di ottenere un riscatto dalle loro famiglie. Migliaia di musulmani Rohingya e migranti dal Bangladesh sono arrivati sulle coste di Indonesia, Malaysia e Tailandia nell’ultimo mese. Migliaia di altri sarebbero bloccati in mare. I primi due paesi hanno annunciato di essere disposti a dare ospitalità a questi migranti, e ad altri che saranno tratti in salvo in mare, fino a un anno.
shadow carouselMyanmar, scoperto barcone con 200 migranti accatastati uno sull’altro


Incerto il numero dei corpi
Il ministro dell’Interno malaysiano Zahid Hamidi ha detto, citato dal quotidiano locale in lingua inglese “Star”, che la polizia sta cercando di identificare con certezza «le fosse comuni ritrovate. Crediamo siano parte delle attività dei trafficanti di esseri umani». Il ministro non ha detto esattamente quanti corpi siano stati finora ritrovati. L’esponente del governo di Kuala Lumpur ha detto di essere «scioccato dalla scoperta» e di ritenere che ci siano molti altri campi. «Sono in questa zona da tempo - ha spiegato - Stiamo indagando ma pensiamo che queste attività siano iniziate almeno cinque anni fa». Da tempo le organizzazioni per la difesa dei diritti umani denunciano il passaggio attraverso il confine tra Malaysia e Tailandia di immigrati clandestini, soprattutto Rohingya birmani perseguitati. Queste organizzazioni hanno denunciato l’uccisione a bastonate di molti migranti, mentre altri sarebbero stati schiavizzati per lavorare su navi da pesca.
shadow carouselMigranti: Indonesia e Malesia soccorrono migliaia di Rohingya, musulmani in fuga da Myanmar

Zona isolata
Secondo i media locali, le fosse sono state trovate nello stato settentrionale del Perils. La zona confina con la provincia tailandese di Songkhla, dove almeno una trentina di cadaveri sono stati rinvenuti il mese scorso. Secondo il giornale malaysiano in lingua malese Utusan, la polizia avrebbe trovato 30 fosse contenenti centinaia di corpi nelle foreste attorno alle città di Padang Besar e Wang Kelian a Perils. Per Star, cento cadaveri erano in una singola fossa comune a Padang Besar. Da venerdì la polizia scientifica è sul posto, e la zona è stata isolata.Orrore al confine tra Malaysia e Tailandia: le autorità malaysiane hanno scoperto 139 fosse comuni di migranti in 28 campi abbandonati da trafficanti di esseri umani, campi dove passano migliaia di persone in fuga, soprattutto musulmani Rohingya provenienti dalla Birmania. Anche in Tailandia, nelle scorse settimane, le autorità hanno ritrovato 30 corpi in tombe comuni. È proprio il giro di vite delle autorità thailandesi contro una pratica prima tollerata ad aver innescato l’emergenza umanitaria delle ultime settimane, con migliaia di Rohingya e bengalesi abbandonati in mare dagli scafisti per paura di essere arrestati.

Asilo per un anno
I trafficanti terrebbero ostaggio i migranti - che già pagano migliaia di dollari per il passaggio - in questi campi, nella speranza di ottenere un riscatto dalle loro famiglie. Migliaia di musulmani Rohingya e migranti dal Bangladesh sono arrivati sulle coste di Indonesia, Malaysia e Tailandia nell’ultimo mese. Migliaia di altri sarebbero bloccati in mare. I primi due paesi hanno annunciato di essere disposti a dare ospitalità a questi migranti, e ad altri che saranno tratti in salvo in mare, fino a un anno.
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Incerto il numero dei corpi
Il ministro dell’Interno malaysiano Zahid Hamidi ha detto, citato dal quotidiano locale in lingua inglese “Star”, che la polizia sta cercando di identificare con certezza «le fosse comuni ritrovate. Crediamo siano parte delle attività dei trafficanti di esseri umani». Il ministro non ha detto esattamente quanti corpi siano stati finora ritrovati. L’esponente del governo di Kuala Lumpur ha detto di essere «scioccato dalla scoperta» e di ritenere che ci siano molti altri campi. «Sono in questa zona da tempo - ha spiegato - Stiamo indagando ma pensiamo che queste attività siano iniziate almeno cinque anni fa». Da tempo le organizzazioni per la difesa dei diritti umani denunciano il passaggio attraverso il confine tra Malaysia e Tailandia di immigrati clandestini, soprattutto Rohingya birmani perseguitati. Queste organizzazioni hanno denunciato l’uccisione a bastonate di molti migranti, mentre altri sarebbero stati schiavizzati per lavorare su navi da pesca.
shadow carouselMigranti: Indonesia e Malesia soccorrono migliaia di Rohingya, musulmani in fuga da Myanmar

Zona isolata
Secondo i media locali, le fosse sono state trovate nello stato settentrionale del Perils. La zona confina con la provincia tailandese di Songkhla, dove almeno una trentina di cadaveri sono stati rinvenuti il mese scorso. Secondo il giornale malaysiano in lingua malese Utusan, la polizia avrebbe trovato 30 fosse contenenti centinaia di corpi nelle foreste attorno alle città di Padang Besar e Wang Kelian a Perils. Per Star, cento cadaveri erano in una singola fossa comune a Padang Besar. Da venerdì la polizia scientifica è sul posto, e la zona è stata isolata.

Corriere Sociale
25 05 2015

Migranti sfruttati per fare soldi, derubati dei ticket giornalieri, addirittura pagati per far perdere le proprie tracce. Nell’associazione per delinquere delineata dai pubblici ministeri di Napoli per truffare lo Stato prendendosi i milioni di euro stanziati per gestire l’emergenza legata ai profughi, l’accusa assegna un ruolo anche ai vertici della Caritas della Campania. L’inchiesta che ha portato agli arresti i responsabili della Onlus «Un’ala di riserva», Alfonso De Martino e la sua compagna Rosa Carnevale e all’accusa di peculato per il direttore regionale della Caritas don Vincenzo Federico, si concentra sul ruolo di chi doveva occuparsi dell’accoglienza. E va avanti per accertare le responsabilità dei funzionari della Protezione civile e della Regione che dovevano controllare il rispetto delle procedure e la regolarità delle autorizzazioni.

La percentuale

Scrivono i pubblici ministeri nella richiesta di arresto: «È verosimile che le strutture (e segnatamente la Caritas di Teggiano) che facevano pervenire a De Martino i “pocket money” destinati ai migranti da loro ospitati ricevessero in cambio una percentuale degli enormi guadagni che ne ricavava il De Martino (pari al 20% del valore di ogni singolo buono oltre alle ricariche telefoniche acquistate). Non si comprenderebbero infatti le motivazioni sottostanti alla scelta da parte delle varie strutture ospitanti i migranti, allocate in località molto distanti in province diverse della Campania, di fare confluire e negoziare in maniera massiccia, anche per il tramite di loro delegati, la quasi totalità dei “pocket money” indebitamente da loro trattenuti presso l’edicola della Carnevale che è situata a Pozzuoli. A tale business erano del tutto estranei i beneficiari dei buoni cui veniva elemosinata solo una minima parte del valore nominale dei buoni cui avevano diritto».

Il prete della Caritas

Sono 56 i milioni che la Regione Campania ha gestito per l’emergenza legata alla primavera araba, quando in Italia giunsero decine di migliaia di migranti. Don Vincenzo è accusato di essersi appropriato di 44 mila «pocket money» per circa 110 mila euro, ma le verifiche effettuate dagli investigatori hanno consentito di ricostruire passaggi di soldi dai conti correnti di De Martino a depositi riconducibili al sacerdote e su questo sono adesso in corso ulteriori controlli. Lo stesso responsabile della Onlus ha ammesso in un interrogatorio che si è svolto prima dell’arresto: «In riferimento invece alla consegna dei ticket degli ospiti delle strutture gestite dalla Caritas di Teggiano, i blocchetti venivano consegnati mensilmente dal responsabile Fiore Marotta, il quale, a sua volta, li raccoglieva presso le varie strutture della Caritas di Teggiano. Anche su questi buoni trattenevo una percentuale del 5 per cento come avveniva con le altre strutture non convenzionate con “L’ala di riserva”». Alla Caritas fanno capo altre due Onlus che secondo i magistrati avrebbero avuto un ruolo opaco nella gestione del denaro pubblico in un sistema illecito che andrebbe avanti almeno dal 2011. per avere un’idea del giro di affari basti pensare che soltanto la struttura gestita da don Vincenzo assiste ogni giorno circa 600 stranieri con un introito che — tenendo conto della presenza dei minori — può superare i 4 mila euro quotidiani.

I soldi ai profughi

Si comprende quindi perché ad un certo punto De Martino abbia preferito dare un po’ di soldi ad alcuni migranti per farli andare via continuando però a registrarli come «presenti». A raccontarlo è stato uno dei profughi ospitati e l’accertamento sui registri ha confermato la sua versione. Racconta A. S.: «Corrisponde al vero che nel 2012 ho ricevuto 1.200 euro da De Martino perché aderii alla richiesta di andare via dal campo profughi. Richiesta che ha formulato anche ad altri miei connazionali. Per quattro giorni ho vissuto presso l’abitazione di un mio amico e dopo sono stato a Roma. Era mia intenzione infatti andare a vivere in un altro Stato diverso dall’Italia, ma sapevo che questo era molto difficile avendo un permesso di soggiorno valido in Italia, quindi sono ritornato dopo circa dieci giorni».

Le persone e la dignità
25 05 2015

La Camera dei deputati brasiliana sta valutando l’ipotesi di abbassare da 18 a 16 anni l’età in cui una persona può essere processata come adulta.

Se la proposta diventasse legge, persone considerate minorenni dal diritto internazionale andrebbero incontro alle stesse condanne penali degli adulti e condividerebbero con questi ultimi le medesime prigioni, destinate a subire adescamenti, abusi sessuali e altre orrende violenze.

Si tratta, secondo Amnesty International Brasile, di un “attacco vergognoso ai diritti dei giovani brasiliani”, che sono vittime della criminalità molto più che mandanti ed esecutori di reati.

Secondo il dipartimento per la Sicurezza nazionale, i giovani tra i 16 e i 18 anni commettono appena lo 0,9 per cento dei reati. I dati più recenti disponibili indicano che, su 56.000 omicidi registrati, 30.000 vittime erano ragazzi tra i 15 e i 29 anni e di questi il 77 per cento era nero.

Le previsioni dell’Indice di omicidi nell’adolescenza dicono che più di 42.000 persone tra i 12 e i 18 anni rischiano di essere uccise nei prossimi quattro anni.

Invece di risolvere lo scandalo dei ragazzi neri uccisi quotidianamente, dunque, le istituzioni brasiliane si accingono a dipingerli criminali, aumentando la loro vulnerabilità in uno dei sistemi detentivi più oppressivi del mondo.

Secondo il Centro internazionale di studi sulle prigioni, il Brasile è al quarto posto al mondo per numero di detenuti, superato solo da Usa, Cina e Russia.

Amnesty International Brasile ha lanciato una campagna online per chiedere alla Camera dei deputati di respingere la proposta di legge, contro la quale si è schierata la stessa presidente Dilma Rousseff.La Camera dei deputati brasiliana sta valutando l’ipotesi di abbassare da 18 a 16 anni l’età in cui una persona può essere processata come adulta.

Se la proposta diventasse legge, persone considerate minorenni dal diritto internazionale andrebbero incontro alle stesse condanne penali degli adulti e condividerebbero con questi ultimi le medesime prigioni, destinate a subire adescamenti, abusi sessuali e altre orrende violenze.

Si tratta, secondo Amnesty International Brasile, di un “attacco vergognoso ai diritti dei giovani brasiliani”, che sono vittime della criminalità molto più che mandanti ed esecutori di reati.

Secondo il dipartimento per la Sicurezza nazionale, i giovani tra i 16 e i 18 anni commettono appena lo 0,9 per cento dei reati. I dati più recenti disponibili indicano che, su 56.000 omicidi registrati, 30.000 vittime erano ragazzi tra i 15 e i 29 anni e di questi il 77 per cento era nero.

Le previsioni dell’Indice di omicidi nell’adolescenza dicono che più di 42.000 persone tra i 12 e i 18 anni rischiano di essere uccise nei prossimi quattro anni.

Invece di risolvere lo scandalo dei ragazzi neri uccisi quotidianamente, dunque, le istituzioni brasiliane si accingono a dipingerli criminali, aumentando la loro vulnerabilità in uno dei sistemi detentivi più oppressivi del mondo.

Secondo il Centro internazionale di studi sulle prigioni, il Brasile è al quarto posto al mondo per numero di detenuti, superato solo da Usa, Cina e Russia.

Amnesty International Brasile ha lanciato una campagna online per chiedere alla Camera dei deputati di respingere la proposta di legge, contro la quale si è schierata la stessa presidente Dilma Rousseff.

Corriere della Sera
21 05 2015

«Il matrimonio gay sta diventando sempre di più l’emblema di una società moderna e l’Irlanda si sta muovendo verso una nuova era». Katherine Zappone è teologa americana ma siede nel Senato di Dublino, è lesbica ed è una delle animatrici della campagna per il «sì» nel referendum di domani che deve ratificare o respingere la legge sui matrimoni gay. Un appuntamento storico.

La Tigre Celtica è sempre stata un fortino del cattolicesimo. Ma le cose sono cambiate. Negli anni Settanta novanta irlandesi su cento dichiaravano di andare a messa almeno una volta alla settimana. Oggi, lo rivela una ricerca dell’Associazione dei Preti cattolici, sono appena 35 su cento.

La Chiesa si è indebolita e il suo messaggio dottrinale non è più il faro di una volta. Ecco perché questa consultazione che ha lo scopo di riscrivere un articolo della Costituzione, consentendo le nozze fra persone dello stesso sesso, potrebbe dare un esito in forte controtendenza rispetto alla storia del passato.

Tom Inglis, professore universitario a Dublino e sociologo, sintetizza: «Il tempo in cui la Chiesa era la coscienza morale dell’Irlanda è chiuso per sempre».

Il dibattito che accompagna le ultime battute referendarie è visibile, intenso, appassionato. I partiti, centrosinistra laburista, centro e centrodestra, sono tutti a favore della legalizzazione (l’hanno già approvata in Parlamento). Il governo pure. Ma ciò che conta è la società e soprattutto lo sono i segnali che da lì arrivano. Se è scontata la partigianeria (per il sì) di moltissimi manager (il capo di Google Ronan Harris: si tratta di rispettare il diritto all’eguaglianza), di scrittori (a cominciare da Roddy Doyle, Colm Tóibín, Catherine Dunne) e di attori (Colin Farrell) lo è assai meno la posizione assunta da alcuni gruppi cattolici e da singoli preti. Ad esempio il sacerdote Iggy O’Donovan che annuncia di votare «nel rispetto della libertà di altri che sono diversi da noi». Sì. E non è una mosca bianca. Padre Sean McDonagh, dell’Associazione dei Preti, spiega che la Chiesa «può riguadagnare una posizione di autorità se si mette al passo del mondo moderno». Oppure l’associazione «Noi siamo la Chiesa» secondo la quale «non si distrugge l’istituzione del matrimonio e della famiglia ma la si rafforza».

Il mondo cattolico irlandese è diviso. E l’istituzione ecclesiale, consapevole di questa frattura, ha preso una posizione ferma ma non condizionante e non ultimativa, più prudente. I vescovi d’Irlanda si sono limitati a scrivere una lettera pastorale alle 1.360 parrocchie, «Il significato del matrimonio», e a predicare durante le funzioni spiegando le ragioni del «no». Il discusso arcivescovo di Dublino, Diarmuid Martin, ha invitato persino a usare un linguaggio «delicato e rispettoso» dato che le associazioni più integraliste (Alleanza per la Difesa della Famiglia e del Matrimonio) si sono scatenate con slogan del tipo «approvare il matrimonio gay è come approvare la legge della sharia nel Califfato dell’Isis». Prese di posizione estremiste che non convincono i fedeli, li allontanano.

Sulla crisi della Chiesa nella cattolicissima Irlanda, che nel 1995 approvò il referendum sul divorzio con appena 9.114 voti di scarto (lo 0,56%), pesano gli scandali sulla pedofilia, le vergognose coperture offerte dalle gerarchie ai sacerdoti e alle suore macchiatisi di violenza sui minori, la doppia vita dei «pastori» in spregio degli insegnamenti che offrivano. Pochi hanno dimenticato i casi del vescovo Eamon Casey e del prete Michael Cleary che erano sul palco ad accogliere papa Giovanni Paolo II nel 1979 davanti a un milione di pellegrini. Si scoprì poi che uno aveva avuto un figlio da una donna americana e il secondo ne aveva fatti due con la perpetua.

La cronaca in questi anni ha lasciato un segno profondo nella comunità. L’ha disorientata. Il referendum è il termometro di un’Irlanda cambiata.

Tutti dicono che il matrimonio gay sarà approvato ed entrerà nella Costituzione. Ma è da vedere. Sarà decisivo il voto dei giovani, in grande maggioranza a favore, e delle donne, specie a Dublino, come fu nella consultazione sul divorzio quando fecero pendere la bilancia verso il sì. Per quello che vale, un piccolo indizio lo offre Rita O’Connor, 83 anni, religiosissima, ogni giorno in Chiesa: «Come voterò? Voterò per i gay, non ho proprio nulla contro di loro».

Fabio Cavalera

Il Corriere della Sera
18 05 2015

“Dopo ciò che ti faremo, diventerai una vera donna”. Quello che Mvuleni Fava si è sentita dire dai “correttori” o sedicenti tali, quando l’hanno accerchiata sotto casa, sono tutte scuse e pure idiote. Come se lei non fosse già una “vera donna”; come se lo stupro servisse ad altro che a un piacere perverso, correttivo o non correttivo.

Eppure in Sudafrica – e non solo – c’è chi crede di “curare” le lesbiche con l’atto più barbaro, e Mvuleni può ritenersi fortunata: non è tra le 31 donne che negli ultimi quindici anni sono state uccise dalla “cura”. È fra le sopravvissute, incontrate e immortalate dalla fotografa inglese Clare Carter in un bel foto-reportage sull’argomento.

Il termine “stupro correttivo” è nato nei primi anni del millennio, quando per la prima volta il fenomeno è stato segnalato dalle ong sudafricane. Da allora, secondo Carter, si è assistito a una “escalation di violenza” – e di impunità.

Il Sudafrica ha il record mondiale degli stupri – 500mila l’anno, uno ogni diciassette secondi – e su 25 casi che arrivano in tribunale ben 24 rimangono in media senza colpevoli. Nei sondaggi, il 20 per cento degli uomini si attesta sulla posizione del “se la sono cercata”.

Dato il contesto, gli stupri “correttivi” sanno ancor di più d’ipocrisia. Eppure hanno una cifra specifica. “Nei due anni in cui ho lavorato al progetto rintracciando le vittime e raccogliendo testimonianze, mi sono accorta che la violenza degli stupri correttivi è sempre più marcata” ha raccontato Carter all’Independent.

Dalle quarantacinque testimonianze raccolte da Carter – per alcuni “il più esaustivo lavoro di documentazione del fenomeno” pubblicato ad oggi – emerge anche il ruolo delle famiglie delle vittime: spesso complici o addirittura “mandanti” degli stupri.


“Il problema è anzitutto culturale” spiega Carter: “C’è un problema di ignoranza e pregiudizio diffuso, specie nelle fasce sociali più ai margini, e le autorità aggravano le cose tollerando in qualche modo questo tipo di stupro e non perseguendo i colpevoli. Occorre fare qualcosa”. Anzitutto, conoscere e denunciare.

 

La 27 Ora
15 05 2015

Fattori culturali? In parte sì. Talvolta anche una scarsa consapevolezza. E questo, forse, è l’aspetto che colpisce di più. Ma non l’unico. Dietro alla mappa disegnata da Eurostat sull’età delle primipare nei 28 Paesi dell’Unione europea si disegna in filigrana una realtà complessa che tiene insieme economia e politiche sociali.

Partiamo dai numeri. La maggioranza delle donne europee (il 51,2%) partorisce il primo figlio in un’età compresa tra i 20 e i 29 anni, la media è di 28 anni e sette mesi. In Italia le mamme in questa fascia sono solo il 38%, la nostra età media è infatti di 30 anni e sei mesi. Siamo invece il Paese in Europa con il tasso più elevato di donne che fanno il primo figlio dopo i quarant’anni: 6,1%, contro una media europea del 2,8%. La maggioranza delle italiane, il 54,1%, partorisce per la prima volta tra i 30 e i 39 anni, contro una media Ue del 40,6%. Più numerose di noi in questa fascia di età sono solo le spagnole: sei su dieci. Nel gruppo delle mamme «ritardatarie» ci sono anche l’ Irlanda (52,7%) e la Grecia (51,9%). Sono gli stessi Paesi in cima alla classifica delle mamme ultraquarantenni, oltre a essere quelli che hanno sofferto di più negli ultimi anni per la crisi economica.

Nella Vecchia Europa si distinguono la Francia, dove sei giovani su dieci partoriscono tra i 20 e i 29 anni e la Germania, dove il rapporto è 5 su dieci. Si difendono bene anche i Paesi del Nord Europa, ma il primato delle mamme giovani va ai Paesi dell’Est Europa.

Dare la colpa alla crisi sarebbe la scusa più facile, in realtà «ormai da parecchi anni l’età media delle donne che affrontano la prima gravidanza è più elevata rispetto al passato e le cause sono molteplici, incluse quelle congiunturali. Uno degli impatti della crisi economica in Italia è stato quello di spingere a posticipare la decisione di avere figli in attesa di una condizione lavorativa meno precaria», osserva Alessandra Casarico, docente di Scienza delle Finanze all’Università Bocconi ed esperta di temi di economia di genere. «Ma il problema è più ampio — prosegue — e coinvolge oltre alla partecipazione femminile al mondo del lavoro (c’è una correlazione tra bassa fecondità e bassa occupazione femminile) anche lo sviluppo dei servizi a sostegno della maternità. E poi c’è quello che i demografi identificano come una rigidità tipicamente italiana nella programmazione dei figli».

Lo spiega bene Giampiero Dalla Zuanna, professore di Demografia dell’Università di Padova: «Ci sono due tendenze che si sovrappongono. Da un lato la maternità tardiva è un fenomeno tipico dell’Occidente, dove donne e uomini accostano a quello della maternità/paternità anche altri desideri come realizzarsi nel lavoro e avere più tempo libero. È una fase della modernità come era stato per i babyboomer abbassare l’età in cui avere il primo figlio. Dall’altro lato, i Paesi della sponda sud del Mediterraneo così come il Giappone e la Corea del Sud, sono caratterizzati da legami di sangue molto forti e accomunati dalla tradizione culturale di attribuire una grande importanza ai figli. Questo impone condizioni indispensabili più stringenti per mettere al mondo un figlio: creazione di una famiglia, acquisto della casa, lavoro sicuro, tutti elementi che portano a posticipare la decisione. È difficile da noi vedere una studentessa-madre, nei Paesi del Nord non è così». In più, osserva Dalla Zuanna c’è l’aspetto sociale: «In questi Paesi il figlio viene considerato come un bene privato e lo Stato investe poco sui bambini e sulle politiche di conciliazione. Basti pensare che in Italia un terzo dei bambini fino ai tre anni è affidato ai nonni». E in effetti, osserva Casarico, «nel nostro Paese la spesa pubblica per la famiglia è pari a circa l’1,4% del Pil», contro al 5% della Francia, dove il numero di figli per donna è di 2 dal 1973 mentre l’Italia è scesa a 1,42.

«Certo la crisi economica ha reso più difficile avere figli — conclude Dalla Zuanna —. Ma il rinviare ha conseguenze molto più pesanti di quanto si creda, perché non è detto che poi a 40 anni le coppie che programmano un figlio riescano ad averlo. E infatti sono aumentate le richieste di adozioni in età tardiva. Talvolta la scelta di aspettare nasce da un’informazione non adeguata e si sottovaluta che la fertilità dopo i 30 anni diminuisce. È bene pensarci».

Francesca Basso

Corriere della Sera
15 05 2015

Tra le tende frustate dal vento, appare Ngor. Indica un buco nel telo che fa da tetto a lei e ai suoi quattro figli, implora che qualcuno glielo ripari. Presto. Perché il cielo è imbronciato e minaccioso, la stagione delle piogge alle porte. Poco più in là Akuol, 47 anni e un marito morto al fronte, scava con una zappa una gigantesca buca: diventerà una latrina. «Devo fare tutto da sola, in fretta, prima che l’acqua ci sommerga» urla da due metri sottoterra. C’è fermento tra i profughi in fuga dai combattimenti e dalla fame nella tendopoli di Mingkaman, nell’ultimo Stato al mondo, il Sud Sudan. Chi prepara canali di scorrimento, chi terrapieni. Il movimento prima della paralisi: quando gli acquazzoni renderanno inagibili queste dissestate vie di terra rossa, perfino la guerra si fermerà. Potere dell’acqua. La sua forza arriva dove mesi di negoziati e trattative hanno fallito. Il secondo anno di guerra civile — un conflitto fuori dai radar internazionali — sta portando il Paese più giovane e più fragile del mondo sull’orlo della bancarotta e della fame.

Con le piogge si fermano anche le mandrie. I pastori interrompono il loro vagare in cerca di pascoli. «Con i primi rovesci ci spostiamo al villaggio per assicurarci il cibo» racconta il leader di un «cattle camp» (accampamento di bovini) in una prateria nascosta tra i rovi della savana, a pochi chilometri da Mingkaman. Sono loro i «tesorieri» di questo Paese, gli allevatori, custodi della vera «moneta locale», le mucche: risorsa anti crisi, eredità, status symbol, mezzo per comprarsi una o più mogli: «Ne occorrono da 30 a 350, a seconda del rango e della bellezza della donna e se è cresciuta in un cattle camp vale di più» spiega il capo dell’accampamento, dove i bambini non vanno a scuola «perché è troppo lontana. Nessuno qui parla di sviluppo, strade e scuole: sono tutti troppo impegnati a fare la guerra». I bambini scorazzano intorno, qualcuno con un bastone in mano fa il «guardiano». In questa zona per ora la «grande guerra» tace ma «viviamo nella paura di furti e attacchi criminali» dice Abuk Wat, avvolto in un panno rosso. In questo clima di tensione perenne è naturale che ci sia chi preferisce lasciare la famiglia al sicuro tra i profughi di Mingkaman.

Quello che fino a due anni fa era un agglomerato di tukul — capanne di fango e paglia — nel mezzo del nulla è diventato una sterminata distesa di teli e tende bianchi con oltre 70 mila sfollati, fuggiti in massa dai combattimenti che infiammavano Bor e dintorni, sull’altra sponda del Nilo. Traversata che richiede un paio d’ore in battello, un viaggio lungo 19 giorni per Ruben Agang e la sua famiglia: «Sono scappato con moglie, tre figli, genitori e anche con mio nonno centenario» dice indicando l’anziano seduto davanti alla tenda con una croce alle spalle. «Durante la fuga abbiamo visto vicini di casa sterminati». Orrore e terrore, fame e sete. Giorni a piedi tra i giunchi fino a Ziam Ziam e da qui su un barcone fino a Mingkaman.

«Sono cresciuto con la guerra civile e ora, dopo anni, lo stesso destino tocca ai miei figli — riflette Ruben — . La comunità internazionale vuole subito la pace, ma il Paese è ancora un bambino, siamo una società analfabeta, dobbiamo istruirci, ecco perché mando i miei figli a scuola. Voglio che Nancy diventi medico» dice stringendo la sua bimba di tre anni. Sono 2.400 i bambini che frequentano la scuola del campo gestita da Save the Children, cento per classe. Una ventina di aule in bambù con il tetto in lamiera che abbracciano un enorme cortile. Dentro non c’è nulla, soltanto una lavagna. «Spesso facciamo lezione lì fuori — dice Malaak, 28 anni, uno dei 19 maestri — sono bambini interessati a tutto». L’«aula» è sotto il mando: la campanella è suonata, ma loro non se ne vogliono andare. Si sentono dei privilegiati in un Paese dove 7 bambini su 10 non hanno mai messo piede in una scuola. E soltanto 1 su 10 completa le elementari. Ancora peggio le ragazze: solo il 6% finisce. Più che per le nozze precoci, abbandonano per via del banale ciclo mestruale: un motivo di vergogna in un Paese privo di assorbenti. Il mese scorso i cooperanti ne hanno distribuito alcune confezioni al campo. Kale, 14 anni, che vende zucchero sul bordo della strada, li ha provati per la prima volta. Com’è andata? Risata d’imbarazzo, poi un timido «bene».

Poco più in là c’è Madit che a tre anni passa il pomeriggio con in braccio il fratellino Magot di uno, sotto un telo insieme ad altri bambini. Arriva la mamma, il volto segnato dalla stanchezza: «Qui la vita è dura — dice — andare a cercar legna per cucinare è pericoloso, bisogna sempre guardarsi le spalle». Le donne rischiano molestie e aggressioni quando escono dall’accampamento, ma la legna è un’incombenza che spetta a loro. E a loro tocca anche procacciare acqua e cibo: coltivare i campi, caricarsi sulla testa 50 chili di cereali quando c’è la distribuzione dei viveri. Per fortuna chi sta qui deve percorrere solo qualche centinaio di metri per accedere alla propria razione d’acqua giornaliera, 15 litri. Oxfam ha creato impianti di filtraggio e distribuzione delle acque del Nilo: una manna per Mingkaman, dove la stessa agenzia internazionale per lo sviluppo promuove anche originali programmi di igiene per gli sfollati.

Tra i passatempi dei ragazzini, il taglio dei tubi di gomma sistemati tra le tende, divertimento negato nella tendopoli di Bor dove l’acqua scorre sottoterra.

Quello di Bor non è un insediamento aperto come Mingkaman ma un campo chiuso, all’interno di una base Onu. Un rifugio violato, teatro di una strage che non si può dimenticare. «Stavo vendendo i miei chapati (tradizionale pane non lievitato, ndr) quando ci hanno attaccato» racconta con il terrore ancora negli occhi Nyachan. «Mi sono precipitata qui e ho trovato il mio figlio più piccolo che sanguinava, l’avevano ferito a un braccio» ricorda.

È passato un anno dall’assalto, ma per lei e gli altri 2.400 sfollati rimasti accampati qui quell’irruzione armata, proprio nel luogo in cui avevano cercato protezione, resta uno choc. Pochi giorni fa si è svolta una cerimonia per commemorare le 59 vittime. Di etnia nuer, la stessa delle milizie ribelli. E nuer sono gli sfollati di questo campo: una sorta di «enclave» in un’area dinka, la tribù più numerosa, quella del presidente e dei suoi seguaci.

Nuer contro dinka, dinka contro nuer. Così viene ridotta la guerra civile scoppiata alla fine del 2013 in Sud Sudan, a soli due anni dalla nascita del Paese, dopo un conflitto ventennale per strappare l’indipendenza dal Sudan. A infiammare lo scontro etnico, la lotta tra il presidente dinka e il suo ex vice nuer, ma soprattutto l’incapacità di condividere il potere in un Paese dove negli ultimi trent’anni non si è fatto altro che combattere. La linea del fronte si è spostata molti chilometri più a nord di Bor eppure il campo resta affollato. Oltre alla guerra tra esercito e milizie, ci sono le violenze etniche. Le atrocità compiute, un passato che non passa, benzina per ritorsioni e vendette senza fine. «Abbiamo paura a uscire da qui. Molti di quelli che ci provano vengono uccisi» riferisce il capo del campo di Bor. Così quelle che dovevano essere sistemazioni provvisorie sono diventate insediamenti di lunga durata. E pensare che quando per la prima volta proprio in Sud Sudan l’Onu ha aperto i suoi cancelli agli sfollati non li ha voluti chiamare campi ma PoC, siti per la protezione di civili, a sottolinearne il carattere temporaneo.

Il ritorno a casa per molti resta un miraggio nonostante le pressioni del governo che intende chiudere i campi.
«Stanno rovinando la gente, le persone devono tornare alla vita normale, ai loro villaggi» sentenzia seduta alla sua scrivania Martha Nyamal Choat, la vicepresidente del Rrc, braccio umanitario dell’esecutivo.

Garang aveva provato a rientrare nella sua casa di Bor ma ha dovuto riandarsene via. «La vita lì è ancora troppo insicura» dice questo giovane agronomo. Ed eccolo a Minkmann con moglie e figlia. Lui, dinka, si è messo in salvo grazie alla soffiata di un amico nuer: «Mi avvisò di un imminente attacco in città e mi consigliò di scappare». Impossibile tornare anche per Marza, trent’anni e 4 figli, che parla con in braccio il più piccolo, nato sei mesi fa sulla strada polverosa per l’ospedale. Saccheggiato e devastato all’inizio del conflitto, il nosocomio di Bor è stato riportato in vita con l’aiuto di Oxfam che ha costruito cisterne per l’acqua, bagni e fognature e Medici senza frontiere che offre supporto tecnico. Nel reparto maternità Nyamei Riek, 21 anni, è radiosa accanto ai suoi gemellini di 3 giorni. Stanno tutti bene. Un piccolo miracolo nel Paese dove ogni 50 donne che partoriscono una muore.

Anche Marza conferma: «Qui siamo dinka, i nuer a Bor stanno nel campo, fuori li sgozzano». Scuote la testa Toby Lanzer, responsabile Onu in Sud Sudan: «Per tornare a casa devono esserci le condizioni: molte abitazioni sono state occupate da soldati feriti; c’è un problema di sicurezza e una crisi di fiducia tra le 64 comunità etniche». Riconciliazione fallita e collasso economico: il petrolio forniva il 98% delle entrate, ma ora produzione e prezzi sono crollati, il costo dei beni raddoppia di settimana in settimana e molti prodotti iniziano a scarseggiare. Nubi nere su questo giovane Paese governato dalle piogge e dalle mucche.

Alessandra Muglia

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