La 27 Ora
14 05 2015
Perché ripetiamo ancora ai maschi «non piangere come una femminuccia»? E come mai le femmine si sentono dire da parenti e insegnanti «una bambina non fa questo» se strillano troppo? Noi adulti non consentiamo ai bambini ed alle bambine di crescere secondo le loro inclinazioni; ma li ingabbiamo nei nostri schemi di virilità e femminilità. Sembriamo sicuri che sia utile dividere i giochi, i colori e le collane letterarie per maschi da quelle per femmine. Spesso indirizziamo i nostri figli persino nella scelta degli studi come quando scoraggiamo le femmine che vorrebbero occuparsi di fisica nucleare e i maschi attratti dall’insegnamento. Eppure il meglio che possa accadere nella vita è scegliere senza condizionamenti e che le scelte siano il frutto dei nostri desideri e non di pregiudizi e gabbie predefinite per sesso, orientamento sessuale, età ed etnia.
Da queste ipotesi è partita l’inchiesta della rivista di politica e cultura delle donne Leggendaria, arrivata al numero 110 della sua lunga e libera storia editoriale: il 19 maggio sarà presentata a Milano in un incontro intitolato «Anatema sul gender: la scuola sotto tiro» (Casa delle donne, ore 18, via Marsala 8. Saremo a Genova, il 15 e a Trieste il 21 maggio). E subito ci siamo misurate con le polemiche che in questi mesi hanno investito e travolto, in alcuni casi, i formatori, i genitori e i docenti impegnati a portare a scuola l’educazione alle differenze sessuali.
Forse ricorderete in marzo lo scandalo scoppiata quando una materna di Trieste ha sperimentato un progetto ludico educativo finanziato dalla Regione che prevedeva, insieme a molte altre tappe, lo scambio dei ruoli e la possibilità per bimbi e bimbe di scambiarsi i costumi di principessa e cavaliere. Si è parlato di «giochi morbosi all’asilo», come in altri casi si è accusata una fantomatica «lobby omosessuale» di voler «convertire i giovani all’omosessualità» (La27ora ne ha scritto qui) solo perché il ministero per le Pari Opportunità nel 2014 aveva fatto preparare all’istituto Beck gli opuscoli informativi «Educare alla diversità a scuola» per arginare il bullismo omofobico dilagante.
Gli opuscoli sono stati precipitosamente ritirati e sono scomparsi, ma purtroppo sappiamo quanto soffrano molti ragazzi i cui comportamenti paiono non virili ai loro compagni e compagne. Magari attraversano solo una fase di passaggio adolescenziale, ma accade che, messi alla berlina sui social media, si ritirino da scuola e vadano in crisi. Alcuni dopo essere stati insultati perché gay, si sono anche uccisi. Non sarebbe ragionevole insegnare il rispetto delle differenze per prevenire la violenza e la discriminazione basata sul sesso o l’orientamento sessuale? Ci sono molti studi che dimostrano (la rivista Hamelin ne ha scritto spesso e con competenza) che oltre il 97 per cento di ragazze e ragazzi, dai 13 anni in su, hanno visto siti porno, dove imperversa una sessualità rozza e spesso violenta, dove trionfano gli stereotipi dell’uomo macho e della donna oggetto. L’Europa ha spesso sollecitato l’Italia a portare l’educazione dei sentimenti nelle classi fin dai primi anni di vita dei bambini, come accade in quasi tutti i Paesi dell’Unione, anche per sottrarli alla pornografia oggi accessibile a tutti.
La scuola pubblica, che pure è afflitta da tanti problemi, è diventata da noi un campo di battaglia tra chi vuole introdurre questi temi sia nella formazione degli insegnanti sia all’interno delle classi e chi li ostacola rivendicando esclusivamente alla famiglia l’educazione dei figli a temi così delicati e intimi. Ci sono le sentinelle in piedi e le associazioni che mandano petizioni e decine di migliaia di firme al presidente della Repubblica perché non si insegni quella che chiamano teoria o ideologia del gender ai loro figli. La Conferenza episcopale italiana, L’Osservatore Romano e perfino la moderata Famiglia Cristiana hanno scatenato una lotta senza quartiere alla dittatura del gender, che altro non sarebbe se non la manipolazione dell’infanzia. E che segnerebbe la fine della differenza tra i sessi e della stessa famiglia naturale.
La posta in gioco è evidentemente alta: in Parlamento giacciono da tempo vari disegni di legge. Leggendaria ha intervistato le firmatarie delle tre leggi di Pd, Sel e M5S, che spiegano cosa intendono per educazione all’affettività a scuola (nessuno la chiama più sessuale). Non si intende affatto azzerare le differenze tra i sessi, piuttosto si vogliono prendere in considerazione tutte le differenze: si vuole fare della scuola non «un campo di rieducazione», come temono alcuni, ma una palestra per abbattere i pregiudizi che alimentano o giustificano violenza o bullismo, disparità tra i generi, omofobia. Su questo stesso blog Monica Ricci Sargentini ha scritto che la teoria del gender vuole azzerare le differenze, ma credo confonda il pensiero di una accademica come Judith Butler e la pratica degli studi di genere di cui si parla nella scuola italiana, studi che vogliono appunto far discutere sulle differenze a partire da quelle uomo-donna.
Il fronte favorevole conta associazioni e singoli che vogliono far sì che le differenze non si tramutino in diseguaglianze. La spinta viene «dal basso», molti docenti hanno desiderio di formazione e di condivisione perché si trovano a essere la prima linea delle nuove frontiere delle differenze tutte, comprese quelle religiose e etniche. Negli ultimi anni pedagogisti, genitori e, appunto, tanti docenti di ogni ordine e grado hanno moltiplicato, da nord a sud, progetti e percorsi formativi per prendere confidenza con temi come la relazione tra i sessi, l’affettività, l’omofobia, le diversità nella composizione delle famiglie di oggi che hanno spesso genitori separati con nuovi compagni o compagne e meno spesso (ma accade) genitori dello stesso sesso.
Scrive su Leggendaria Monica Pasquino presidente di S.co.s.s.e (Soluzioni Comunicative Studi servizi editoriali), associazione che lavora nel Lazio al progetto «Educare alle differenze», che gli attacchi subiti sono stati fortissimi da parte della diocesi di Roma e di vari movimenti politici cattolici che hanno diffuso volantini nelle scuole in cui loro lavoravano per far boicottare i corsi a genitori e insegnanti. Sotto accusa, secondo Pasquino, è la scuola pubblica e la sua autonomia di trasmettere alle nuove generazioni i valori della cittadinanza plurale e principi più ampli, non necessariamente migliori, di quelli trasmessi nella famiglia di appartenenza. Dopo tante polemiche S.co.s.s.e. ha convocato a Roma, lo scorso anno, chi condivide il progetto. Sono arrivati in 600 da tutta Italia: prof e genitori, associazioni di donne e di omosessuali, funzionari delle istituzioni, tutti autofinanziati. Un successo. Tanto che in ottobre si replica.
La 27 Ora
08 05 2015
Atteso e discusso. Il Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere è stato presentato ieri dopo una lunga gestazione tra polemiche (che vi abbiamo raccontato) e dubbi su come le Regioni utilizzano i fondi. I contenuti sono contestati da associazioni di donne, centri antiviolenza, sindacato. Delusione e rabbia per un’occasione che si sta mancando. A chi si confronta davvero con la violenza, il Piano suona come un tradimento alla società civile. Alle donne e agli uomini.
Per capire alleghiamo il testo del Piano d’azione straordinario e la sintesi che il Dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del consiglio pubblica sul suo sito. E ospitiamo l’analisi critica di Luisa Betti, autrice del blog Bettirossa che è intervenuta anche in altre occasioni su la27ora
Dopo diversi rinvii e incertezze, è stato presentato a Roma il Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere (come previsto dall’articolo 5 della legge 119 che nel suo interno conteneva norme per il contrasto alla violenza contro le donne). Un momento atteso per un Piano che è passato di mano in mano e che ha avuto traversie ben prima della sua nascita, con le dimissioni della ex ministra Josefa Idem che fu costretta a passare, suo malgrado, le redini delle Pari opportunità alla viceministra del lavoro, Cecilia Guerra, durante il governo Letta, fino ad arrivare all’attuale Giovanna Martelli, consigliera di pari opportunità del presidente del consiglio, Renzi.
Il risultato è un piano dai grandi proclami ma che nella sostanza non cambia nulla dell’esistente. Anzi, per certi aspetti è peggiorativo: se fino a ieri una donna che subisce violenza aveva difficoltà a essere seguita nel necessario percorso, con questo piano si troverà in un ginepraio, senza garanzie sulla preparazione di chi guida i servizi, e quindi ancora più a rischio.
Questo Piano ha tanti motivi per dire per far prevedere che non funzioni.
Il Piano straordinario ha avuto nella sua incubazione un lungo momento di confronto in un tavolo interministeriale, quello che Idem aveva ideato come task force sulla violenza contro le donne e che doveva essere, nelle sue intenzioni, un tavolo istituzionale affiancato da un altro tavolo in cui si sarebbero sedute le associazioni che da tempo lavorano in Italia sul fenomeno. Un confronto che la viceministra Guerra ha assottigliato togliendo di mezzo la società civile e invitando solo alcune associazioni.
Le stesse che oggi hanno firmano dichiarazioni congiunte contro in Piano appena varato da Giovanna Martelli. DiRe, Telefono Rosa, Udi, Pangea e Maschile Plurale – questi i gruppi che hanno partecipato al tavolo istituzionale – lamentano ora che «il ruolo dei centri antiviolenza risulta depotenziato in tutte le azioni e vengono considerati alla stregua di qualsiasi altro soggetto del privato sociale senza alcun ruolo se non quello di meri esecutori di un servizio», che «la distribuzione delle risorse viene frammentata senza una regia organica e competente e che quindi, non avrà una ricaduta sul reale sostegno dei percorsi di autonomia delle donne», e infine che «il sistema di governance delineato nel Piano implica e non garantisce il buon funzionamento di tutto il sistema nazionale e pone inoltre problemi giuridici di coordinamento a livello locale», vanificando «il funzionamento delle reti territoriali già esistenti indispensabili per una adeguata protezione e sostegno alle donne». Un comunicato, quello delle associazioni, in cui viene fatto notare sia che «il linguaggio del Piano è discriminatorio rispetto al genere», sia che al suo interno «non c’è la declinazione al femminile quando si parla di figure professionali femminili», e che «la funzione dell’Istat, l’istituzione dello Stato che fino ad oggi ha raccolto, validato ed elaborato i dati sulla violenza di genere, è cancellata dal Piano».
Ma che significa tutto questo?
Proviamo a leggere i punti più dubbi.
La doppia Governance
Il Piano appare come un manifesto di buone intenzioni con grandi proclami copiati qua e là, ma senza una reale e concreta intenzione di contrastare la violenza sulle donne. Manca l’indicazione pratica e precisa su chi fa cosa e come la fa, facendo anche intravedere la possibile grande confusione che si potrà creare sull’esistente, e il grande spreco che avverrà di quelle già esigue risorse nel coprire l’essenziale. Un risultato provocato dalla mancanza di una realistica fotografia della realtà del fenomeno e anche dal fatto che nessuno, prima di fare questo Piano, è andato a vedere cosa aveva prodotto il primo Piano antiviolenza nazionale varato in Italia dalla ex ministra Mara Carfagna (e già in scadenza tre anni fa).
Nelle molte parole del testo, si legge che «Contrastare la violenza maschile contro le donne richiede necessariamente il riconoscimento del fatto che essa si configura all’interno della nostra società come un fenomeno di carattere strutturale e non episodico o di carattere emergenziale», si citano le Nazioni Unite, la Convenzione di Istanbul, le raccomandazioni Internazionali, ma stranamente non se ne tiene veramente conto, come se fosse una presa in giro. Si parla di “multifattorialità”, “fenomeno strutturale”, “approccio olistico”, “contrasto allo stereotipo di genere” ma senza dare reali strumenti concreti per un cambiamento profondo, e senza porsi il problema che per attuare una trasformazione così radicale sono necessari finanziamenti adeguati.
Il Piano parla di una «strategia basata su una governance multilivello», le cui redini sono nelle mani del Dipartimento per le Pari Opportunità per le «funzioni centrali di direzione» e per coordinare un sistema e la pianificazione «delle azioni in sinergia con le Amministrazioni centrali, le Regioni, gli Enti locali e le realtà del Privato Sociale e dell’associazionismo non governativo impegnate nel contrasto alla violenza e nella protezione delle vittime (Centri Anti Violenza)».
Da una parte, dice il Piano, rimarrà il tavolo inter-istituzionale presieduto dalle Pari Opportunità e composto da Interno, Giustizia, Salute, Istruzione, Esteri, Sviluppo Economico, Difesa, Economia, Lavoro, Regioni, enti locali; e dall’altro, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, si attiverà «un apposito Osservatorio nazionale sul fenomeno della violenza, con il compito di supportare il Tavolo inter-istituzionale», in cui è prevista la partecipazione, oltre dei rappresentanti istituzionali, «anche delle Associazioni impegnate sul tema della violenza sulle donne»: ci sarà cioè un «Tavolo di Coordinamento», costituito da «Prefettura, Forze dell’Ordine, Procura della Repubblica, Comuni, Associazioni e gli organismi del Privato Sociale e dell’associazionismo non governativo, ASL/Aziende ospedaliere (operatori dei Pronto Soccorso), Parti sociali, Associazioni di categoria», con la costituzione quindi di una governance politica che controlla tutto, e una governance tecnica di secondo livello, in cui tutti saranno apparentemente sullo stesso piano. Un disegno in cui la società civile non avrà un ruolo decisionale né un peso reale, con la conseguente perdita dell’occasione di allargare importanti metodologie sperimentate nel tempo dalle donne per le donne, a livello nazionale.
Finanziamenti
In poche parole i centri antiviolenza e le reti locali delle donne avranno un ruolo secondario e al massimo di supporto all’azione istituzionale che renderà conto al governo il quale però a oggi, a leggere il Piano, non ha la più pallida idea su come si presenta la violenza sulle donne in questo Paese. Una sensazione che si vede bene dai finanziamenti stanziati:
10 milioni di euro per il 2013 (Legge 119/2013)
10 milioni di euro per il 2014 (Legge 147/2013)
9 milioni di euro per il 2015 (Legge n.147/2013)
10 milioni di euro per il 2016 (Legge n. 147/2013).
Soldi dei quali «nell’ambito delle risorse stanziate di cui sopra e relative agli anni 2013-2015»: 13 milioni di euro sono stati ripartiti, in sede di Conferenza Stato-Regioni, tra le Regioni e le Province Autonome per la «formazione, inserimento lavorativo, all’autonomia abitativa per le donne vittime di violenza, sistemi informativi relativi ai dati»; 7 milioni di euro per la prevenzione; 7 milioni di euro per «progetti per sviluppare la rete di sostegno alle donne e ai loro figli e attraverso il rafforzamento dei servizi territoriali, dei centri antiviolenza e dei servizi di assistenza, prevenzione, contrasto che, a diverso titolano, entrano in relazione con le vittime»; 2 milioni di euro per la «Banca dati nazionale dedicata al fenomeno della violenza sulle donne basata sul genere».
I soldi del 2013 e ’14 sano stati già spesi con bandi regionali di cui ancora non abbiamo avuto riscontro nella ripartizione che è stata fatta: un gruzzolo, quello del Piano, di cui rimangono i 9 milioni del 2015 e i 10 milioni del 2016 che non bastano neanche per rifinanziare i centri antiviolenza, le case rifugio e gli sportelli di ascolto già esistenti sul territorio nazionale. Finanziamenti esigui che, insieme all’accordo Stato-Regioni fatto lo scorso anno in cui venivano date rigide linee per i requisiti dei centri antiviolenza italiani, finirà per ridurre alla fame i centri più deboli, riducendo così la già esigua presenza di strutture nate dalle donne e per le donne.
I Centri antiviolenza saranno comunque usati, grazie al Piano, «nella rilevazione e trasmissione delle informazioni acquisite nel corso delle attività». Un altro trabocchetto riguarda i dati. L’elaborazione sulla violenza contro le donne va ora al Dipartimento per le pari opportunità e «viene costituita una Banca dati nazionale dedicata al fenomeno», con gruppo di esperti – che pullulano nel Piano e che non sono mai specificati per la loro qualità, professionalità e criteri di scelta – «avente il compito di elaborare proposte di progettazione e di sviluppo del sistema informativo della Banca dati». Un Gruppo che avrà il compito, di «elaborare proposte di collaborazione con Istat», Istituto che ha sempre svolto egregiamente la sua funzione, e che finirebbe in un rapporto di controllo con il Dpo.
Comunicazione, educazione e formazione
«Obiettivo prioritario deve essere quello di sensibilizzare gli operatori dei settori dei media per la realizzazione di una comunicazione e informazione, anche commerciale, rispettosa della rappresentazione di genere e, in particolare, della figura femminile anche attraverso l’adozione di codici di autoregolamentazione da parte degli operatori medesimi». Si parla di sensibilizzazione e non di formazione specifica, e di un codice di autoregolamentazione che nessuno mai seguirà, mischiando tutto ciò che è comunicazione – dall’informazione alla pubblicità – dimenticando quanto la società civile ha fatto a riguardo negli ultimi anni: un lavoro apprezzato all’estero.
Senza individuare percorsi differenti e mirati che distinguano fiction, giornali, pubblicità, ecc. il Piano si preoccupa esclusivamente del linguaggio (vietati «volgarità e turpiloquio») senza guardare né ai contenuti né alla testa di chi confeziona informazioni e immaginari, e non regala una sola riga ai criteri di formazione specifica, richiamando solo a una vaga attivazione di «programmi di formazione in collaborazione con l’ordine professionale dei giornalisti, finalizzati allo sviluppo e al rispetto di un’ottica di genere nell’informazione», ma soprattutto delega una parte così complessa e così essenziale per la prevenzione della violenza – che significa prima di tutto trasformazione culturale in cui la parte mediatica è uno strumento potentissimo – a un altro dei tanti “gruppi di esperti”, di cui è disseminato il piano e di cui non si sa nulla (né criteri di scelta né le linee su cui svolgerà il lavoro né da chi sarà composto). Un gruppo che si dovrà occupare anche di modificare il linguaggio “nella pubblica amministrazione» e tutto a titolo gratuito: insomma un tutto fare di dubbia utilità che dovrà svolgere un lavoro delicatissimo a gratis e senza criteri prestabiliti né competenze specifiche. Come verrà garantito cambiamento duraturo? Non si capisce.
Sull’educazione poi, altra chiave di volta per la trasformazione della mentalità, si parla «di educare alla parità e al rispetto delle differenze». Apparentemente una buona iniziativa. E per farlo che si fa? «il Governo provvederà a elaborare un documento di indirizzo che solleciti tutte le istituzioni scolastiche autonome ad una riflessione e ad un approfondimento dei temi legati all’identità di genere e alla prevenzione della discriminazione di genere, fornendo, al contempo, un quadro di riferimento nell’elaborazione del proprio curricolo all’interno del Piano dell’Offerta Formativa». Ancora una volta il nulla. Ci sarà poi l’opportunità di fare una formazione dei docenti che però non sarà obbligatoria e la possibilità di rivedere i libri di testo «sulla base anche dei documenti elaborati dal Gruppo di esperti sul linguaggio di genere» (di cui sopra), «fermo restando la libertà di scelta e di rispetto dei destinatari dei libri di testo, nonché della libertà di edizione». Nel senso che nessuno è obbligato a fare nulla se non lo vuole o non lo desidera, in barba alla Convenzione di Istanbul nel suo complesso.
Per la formazione di chi ha a che fare con le donne che vivono violenza (un punto fondamentale), a elaborare le linee è stato il tavolo del ministero della Sanità che ha deciso la formazione per tutti e senza distinzione, e il risultato è stato che «Fermo restando il fatto che la Convenzione di Istanbul impegna gli Stati a porre in essere misure atte a garantire una specifica formazione per le figure professionali che si occupano delle vittime e degli autori di atti di violenza di genere e domestica», il Piano prevede una formazione specifica per operatori e operatrici, mandando al mittente la raccomandazione di un personale femminile che accolga le donne fatta dalle associazioni.
Il Piano prevede così formazione per «assistenti sociali, educatrici/tori professionali, operatrici/tori socio-sanitari, mediatrici/tori culturali, volontarie dei Centri Antiviolenza, delle Case rifugio, volontarie/i del soccorso, forze dell’ordine, docenti di ogni ordine e grado, ispettrici/ori del lavoro, responsabili di gruppi sociali anche informali e di comunità religiose, consigliere/i di parità regionali e provinciali, operatrici/ori degli Sportelli di ascolto, Operatrici/tori dei servizi per le politiche attive del lavoro», e addirittura «Operatrici/tori dedicati alla gestione delle graduatorie per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica»: insomma tutti ma senza specificare però né chi fa questa formazione né le sue linee differenziate secondo gli ambiti, ma soprattutto non si fa cenno alcuno a uno dei nodi fondamentali, ovvero la formazione della magistratura e di quei giudici che si trovano poi a decidere sulla pelle donne e di quegli psicologi e psichiatri che spesso con le loro Ctu mandano in casa famiglia molti di quei bambini e bambine che assistono a violenza domestica sulle madri, o che la subiscono – tanto che c’è da aspettarsi che in un Paese come questo nella formazione per chi opera contro la violenza sulle donne spunti anche la Pas (sindrome di alienazione parentale) che sta massacrando le donne che chiedono di separarsi da mariti violenti, sia ai tribunali dei minori che ai tribunali civili, denunciando violenze di loro e sui figli
La valutazione del rischio
«Linee di indirizzo per la Valutazione del Rischio» in questo Piano «sono orientative e non vincolanti» in quanto «rappresentano un metodo di valutazione semplificato da mettere a disposizione delle operatrici e degli operatori che si trovano a trattare situazioni di violenza contro le donne», mentre il fattore della valutazione rischio può salvare le donne dal femmicidio: e allora perché è facoltativo? Stessa vaghezza per il Reinserimento socio-lavorativo delle donne che escono dalla violenza (chi lo fa? chi ne è responsabile?) Si parla di «individuazione di un referente e/o un’equipe di professionisti di riferimento della rete».
Infine, il ministero della sanità non raccoglierà i dati sulla violenza (scandaloso), mentre non si parla né di formazione specifica dei giudici (fondamentale), ma neanche di corsi specifici nelle Università che sono il fulcro per la formazione delle nuove leve in ogni ambito: dai medici, ai giornalisti, ai docenti stessi, alle operatrici, magistratura, ecc. In questo Piano sono assenti pezzi essenziali e tutto sembra rimanere al caso, ma soprattutto manca di quel mero senso pratico come di chi cerca di risolvere un problema complesso di cui non ha assolutamente cognizione, dando tutto in mano a gruppi di lavoro non ben definiti con assenza di linee guida, di criteri di reclutamento, ben lontano dalla metodologia della Convenzione di Istanbul a cui si richiama.
La validità del Piano decorre dal 2015 fino al 2017.
Luisa Betti
Le persone e la dignità
06 05 2015
E' finita di nuovo in carcere l’avvocata e attivista per i diritti umani iraniana Narges Mohammadi. Le forze di sicurezza l’hanno arrestata questa mattina, nella sua abitazione di Teheran.
Mohammadi, madre di due gemelli di otto anni, è stata vicepresidente del Centro per i difensori dei diritti umani (l’organismo fondato dalla Nobel per la pace Shirin Ebadi e presto finito fuorilegge) e cofondatrice dell’associazione “Passo dopo passo, stop alla pena di morte”, la prima campagna nazionale per l’abolizione della pena capitale in Iran.
Deve rispondere di “propaganda contro lo stato”, “riunione e collusione contro la sicurezza nazionale” e “costituzione di un gruppo illegale e contro la sicurezza”, ossia l’associazione abolizionista.
A causa delle sue attività pacifiche in favore dei diritti umani, Mohammadi era stata già arrestata nel 2010 e nel 2011. L’ultima volta era stata condannata a 11 anni di carcere. In entrambe le occasioni, le sue pessime condizioni di salute avevano spinto le autorità a rilasciarla su cauzione.
Corriere della Sera
06 05 2015
La questione è: ci saranno tanti professori come Giovanna Nosarti, pugliese, 32 anni di servizio nelle scuole medie e poi nelle superiori? Giovanna che, a casa con la broncopolmonite, tiene i contatti con gli allievi e con i loro genitori, via Whatsapp per rispondere alle domande sui compiti, sulle verifiche, sulle valutazioni. «Non sono un’eccezione», dice. Insegna dal 2000 al Liceo artistico Enzo Rossi di Roma, italiano, storia e geografia. Periferia Tiburtino III, non un quartiere facile. «Una scuola inclusiva per eccellenza con molti disabili che richiedono la collaborazione dei docenti di sostegno». E con tanti stranieri, moldavi, romeni, russi, ma anche africani e cinesi. La «didattica inclusiva» deve soddisfare i «bisogni educativi speciali», con piani personalizzati che portano via un sacco di tempo.
Il tempo. «Le ore di lezione al giorno sono 3 o 4, ma in genere se arrivo a scuola alle 8 esco alle 14 e occupo le ore buche per i ricevimenti o al telefono con i genitori per avvertirli delle assenze, delle mancate giustificazioni, dei cali di rendimento; oppure per il coordinamento di classe, per monitorare...». Senza contare: a inizio anno le riunioni di dipartimento, la compilazione degli obiettivi minimi, la programmazione da consegnare alla segreteria didattica; a fine anno il bilancio con la percentuale degli obiettivi raggiunti sottoscritta dai ragazzi. «Monitorare» e «programmazione» sono parole frequenti, nel racconto di Giovanna. Così come «obiettivi» e «offerta formativa». Dunque, se va bene, a casa verso le 14.30, il pranzo riscaldato pronto dalla sera prima. E poi? «Si continua a lavorare per due o tre ore: preparare le lezioni del giorno dopo e le verifiche, leggere, correggere...».
Le correzioni. «Il 25 aprile l’ho passato a casa sui saggi brevi dei ragazzi. Un lavoro ripetitivo, finisci per inciampare sempre negli stessi errori, ma non mancano le sorprese e io mi entusiasmo quando constato che ci sono belle riflessioni critiche o buone competenze nell’analisi dei testi. Di recente sono rimasta stupita di fronte alla capacità di cogliere le ironie del Parini, la sua critica alla società... Mi consolo così». 100, 200, 300 compiti al mese. «Insegnare è un impegno a tempo pieno, e io, a 57 anni, sono molto stanca».
Lo stipendio. Il tutto con una busta paga di? «Circa 1800 euro al mese, più 200 o 250 all’anno per il coordinamento, ma non lo so esattamente perché non ho ancora ricevuto quelli dell’anno scorso». Se le capita di dover restare a scuola, non c’è buono-pasto né mensa, dunque un piatto a proprie spese nel bar più vicino. I tre figli che Giovanna ha avuto con Bernardo sono ormai grandi, 28, 26, 21 anni. «Quando erano piccoli, correggevo spesso di notte, dopo averli messi a letto, mi sono pure ammalata per carenza di sonno. E se il pomeriggio avevo le riunioni dovevo pagare una babysitter: una tonsillite mi costava 200 mila lire, una bronchite 500. Per anni lo stipendio lo giravo alla tata».
I ragazzi. «Hanno sempre più bisogno di essere seguiti, gratificati, motivati. Devono sentire la cultura come qualcosa di vivo, di utile. Sono molto fragili nell’approccio alla vita, hanno poche regole, dormono poco, stanno fino a tarda sera a chattare nei social network. Sono in aumento gli attacchi di panico. I genitori non riescono a far rispettare i limiti e spesso chiedono agli insegnanti di supplire a queste lacune».
Gli interessi. Per Giovanna non mancano. Molte mostre d’arte, il laboratorio di scrittura, i corsi di storia contemporanea (a sue spese), e la domenica mattina all’Auditorium per le lezioni di storia: «Quest’anno erano sul tema del viaggio, bellissime, una boccata d’ossigeno. Mio marito ha smesso il tiro con l’arco per seguirle con me. Entusiasta. A scuola, poi, le metto a frutto con i ragazzi».
La riforma. Giovanna è appena tornata a casa dalla manifestazione. Anche lei protesta. «La scuola non è un’azienda, non deve formare burocrati e specialisti di nuove tecnologie. Deve tirar su dei buoni cittadini attraverso la cultura. Inoltre, non sento mai parlare del carico di lavoro degli insegnanti, della necessità di una formazione continua, che viene lasciata alla volontà del singolo. Io sono per premiare il merito, ma prevedere un bonus per il 5 per cento dei docenti è umiliante. Perché il 95 per cento non è fatto di fannulloni...» .
Paolo Di Stefano
Le persone e la dignità
04 05 2015
Dopo quella contro la Repubblica Ceca, la Commissione europea ha deciso di avviare la procedura d’infrazione anche nei confronti della Slovacchia per violazione della direttiva anti-discriminazione.
Il motivo è sempre lo stesso: la sistematica discriminazione subita dai bambini e dalle bambine rom nel sistema scolastico nazionale.
Il governo di Bratislava sostiene che tutti gli alunni godono dello stesso trattamento. Lo ha affermato, l’anno scorso, anche davanti alle Nazioni Unite, in occasione dell’Esame periodico universale.
La realtà appare diversa.
Secondo il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite, nel 2012 il 43 per cento degli alunni rom era segregato in classi mono-etniche. L’anno dopo il Difensore pubblico dei diritti, una sorta di Ombudsman nazionale, ha reso noto che i rom rappresentano oltre l’88 per cento dei bambini e delle bambine assegnati a classi speciali e a scuole per alunni con lieve disabilità mentale.
Nonostante nel 2012 la corte regionale di Prešov avesse stabilito che la prassi di separare i bambini rom dai non-rom è illegale, negli ultimi anni il governo ha finanziato e attuato il cosiddetto progetto delle “scuole container”, poste direttamente all’interno degli insediamenti rom.
Invece d’impegnarsi a garantire l’integrazione – per il bene di tutta la collettività, non solo dei rom – dei bambini e delle bambine rom nelle scuole ordinarie, il governo in questo modo non ha fatto altro che rafforzare la segregazione già esistente.
Si spera che la procedura d’infrazione avviata dalla Commissione europea possa cambiare la situazione.
Corriere della Sera
30 04 2015
La disoccupazione giovanile a marzo risale oltre il 43%: il tasso - reso noto dall’Istat - segna un aumento di 0,3 punti percentuali a quota 43,1%, dal 42,8% di febbraio. Lo rileva l’Istat nei dati provvisori. Dopo il calo del mese di febbraio, a marzo 2015 gli occupati diminuiscono dello 0,3% (-59 mila) rispetto al mese precedente, tornando sul livello dello scorso aprile. Il tasso di occupazione, pari al 55,5%, cala nell’ultimo mese di 0,1 punti percentuali. Rispetto a marzo 2014, l’occupazione è in calo dello 0,3% (-70 mila) e il tasso di occupazione di 0,1 punti. I disoccupati aumentano su base mensile dell’1,6% (+52 mila).
In 12 mesi il numero di disoccupati è cresciuto del 4,4% (138 mila)
Nel dettaglio: dopo i cali registrati a dicembre e a gennaio e la lieve crescita a febbraio, a marzo il tasso di disoccupazione sale ancora di 0,2 punti percentuali, arrivando al 13%. Nei dodici mesi il numero di disoccupati è cresciuto del 4,4% (+138 mila) e il tasso di disoccupazione di 0,5 punti. Il numero di individui inattivi tra i 15 e i 64 anni mostra un lieve calo nell’ultimo mese (-0,1%), rimanendo su valori prossimi a quelli dei tre mesi precedenti. Il tasso di inattività si mantiene stabile al 36,0%. Su base annua gli inattivi diminuiscono dell’1,0% (-140 mila) e il tasso di inattività di 0,2 punti.
Gennaio-marzo 2015: cala il tasso di occupazione
Rispetto ai tre mesi precedenti, nel periodo gennaio-marzo 2015 risultano in calo sia il tasso di occupazione (-0,1 punti percentuali) sia il tasso di disoccupazione (-0,2 punti), a fronte di una crescita del tasso di inattività (+0,2 punti). A marzo 2015 si registrano variazioni di lieve entità rispetto al mese precedente della partecipazione al mercato del lavoro dei giovani tra 15 e 24 anni. L’occupazione dei giovani 15-24enni è sostanzialmente stabile nell’ultimo mese. Il tasso di occupazione è pari al 14,5%. Il numero di giovani disoccupati, mostra una lieve crescita su base mensile (+8 mila, pari a +1,2%).
Poco più di un giovane su 10 è disoccupato
L’incidenza dei giovani disoccupati tra 15 e 24 anni sul totale dei giovani della stessa classe di età è pari all’11,0% (cioè poco più di un giovane su 10 è disoccupato). Tale incidenza cresce nell’ultimo mese di 0,1 punti percentuali. Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, cioè la quota di giovani disoccupati sul totale di quelli attivi (occupati e disoccupati) è pari al 43,1%, in crescita di 0,3 punti percentuali rispetto al mese precedente. Dal calcolo del tasso di disoccupazione sono esclusi i giovani inattivi, cioè coloro che non sono occupati e non cercano lavoro, nella maggior parte dei casi perché impegnati negli studi. Il numero di giovani inattivi è in calo dello 0,3% nel confronto mensile (-11 mila). Il tasso di inattività dei giovani tra 15 e 24 anni diminuisce di 0,1 punti percentuali, arrivando al 74,5%. In termini tendenziali, rispetto a marzo 2014, si osserva la diminuzione del numero di giovani occupati (-5,5%, pari a -50 mila), il calo anche del numero di disoccupati (-6,9%, pari a -49 mila) a fronte di una crescita del numero di inattivi (+1,5%, pari a +66 mila). Anche con riferimento alla media degli ultimi tre mesi, per i giovani 15-24enni si osserva il calo dell’occupazione e della disoccupazione e la crescita dell’inattività.
Il Corriere Della Sera
29 04 2015
La polizia è intervenuta nel quartiere Giambellino, dove martedì erano state trovate mazze e petardi e identificate 26 persone. Intanto, anche a Bresso uno sgombero
Nuovo blitz contro presunti appartenenti all’area No Expo. La polizia è intervenuta nel quartiere Giambellino, nelle case occupate dai gruppi anarchici, dove martedì erano state trovate mazze e petardi. A guidare l’attività investigativa è la Digos milanese. Durante le perquisizioni sono stati trovate maschere antigas, mazze ferrate e materiale necessario per fabbricare molotov. Nove italiani e tre tedeschi sono stati accusati di occupazione abusiva. Proprio nei confronti di questi ultimi tre, ieri 28 aprile, il giudice aveva negato il provvedimento di espulsione dall’Italia.
La polizia aveva identificato e denunciato 26 persone, tra cui 6 italiani, 16 francesi e 4 cittadini tedeschi. Un giovane tedesco, che aveva in auto un a tannica di benzina e materiale adatto a costruire bombe molotov, è stato arrestato per possesso di materiale esplosivo. Attesa per l’udienza di convalida dell’arresto. Nel quartiere Giambellino, tra i palazzi popolari all’estrema periferia della città si muove uno dei movimenti più radicali dell’area anarchica, che nell’autunno scorso ha infiammato i lunghi mesi della «lotta per la casa». Nei due alloggi e nella sede della «Base di solidarietà popolare Giambellino», gli investigatori della Digos hanno trovano 26 persone, tra cui 16 francesi e 4 tedeschi.
È il materiale sequestrato a tracciare il profilo del gruppo: 20 martelletti per spaccare vetrine, 3 caschi, 4 maschere antilacrimogeni, bastoni con la punta d’acciaio, fionde, punteruoli, petardi, fumogeni. Arrestato un ragazzo tedesco con nell’auto taniche di benzina, bottiglie e stracci per fabbricare delle molotov. È un armamentario completo per devastare banche, auto e attaccare le forze dell’ordine durante un corteo. Mostra la fondatezza dei segnali d’allarme sull’arrivo di anarchici e casseur stranieri intenzionati a confondersi nel corteo del Primo maggio convocato dai comitati «No Expo» per contestare la manifestazione nel giorno di apertura. Solo 5 dei 20 stranieri al Giambellino avevano documenti, tutti vengono denunciati per occupazione abusiva e nel pomeriggio la questura, in base all’articolo 20 (comma 11) del decreto legislativo 30/2007, firma i provvedimenti di «allontanamento dal territorio nazionale» di una francese e di tre tedeschi autori di «comportamenti che costituiscono minaccia concreta e attuale all’ordine pubblico»
Sgombero al Giambellino
l sequestro del 28 aprile
La polizia aveva identificato e denunciato 26 persone, tra cui 6 italiani, 16 francesi e 4 cittadini tedeschi. Un giovane tedesco, che aveva in auto un a tannica di benzina e materiale adatto a costruire bombe molotov, è stato arrestato per possesso di materiale esplosivo. Attesa per l’udienza di convalida dell’arresto. Nel quartiere Giambellino, tra i palazzi popolari all’estrema periferia della città si muove uno dei movimenti più radicali dell’area anarchica, che nell’autunno scorso ha infiammato i lunghi mesi della «lotta per la casa». Nei due alloggi e nella sede della «Base di solidarietà popolare Giambellino», gli investigatori della Digos hanno trovano 26 persone, tra cui 16 francesi e 4 tedeschi. È il materiale sequestrato a tracciare il profilo del gruppo: 20 martelletti per spaccare vetrine, 3 caschi, 4 maschere antilacrimogeni, bastoni con la punta d’acciaio, fionde, punteruoli, petardi, fumogeni. Arrestato un ragazzo tedesco con nell’auto taniche di benzina, bottiglie e stracci per fabbricare delle molotov. È un armamentario completo per devastare banche, auto e attaccare le forze dell’ordine durante un corteo. Mostra la fondatezza dei segnali d’allarme sull’arrivo di anarchici e casseur stranieri intenzionati a confondersi nel corteo del Primo maggio convocato dai comitati «No Expo» per contestare la manifestazione nel giorno di apertura. Solo 5 dei 20 stranieri al Giambellino avevano documenti, tutti vengono denunciati per occupazione abusiva e nel pomeriggio la questura, in base all’articolo 20 (comma 11) del decreto legislativo 30/2007, firma i provvedimenti di «allontanamento dal territorio nazionale» di una francese e di tre tedeschi autori di «comportamenti che costituiscono minaccia concreta e attuale all’ordine pubblico»
"Indizi generici"
L’intervento di natura preventiva sull’ordine pubblico si scontra con i parametri di legalità pretesi dagli standard di garanzia giudiziaria. Il provvedimento di allontanamento non viene infatti convalidato dai giudici dell’Ufficio immigrazione del Tribunale civile di Milano. Perché? Nelle 4 ordinanze di diniego, il presidente facente funzioni Olindo Canali e il giudice Nicola Fascilla obiettano che è troppo poco scrivere, come negli atti di polizia, che i 4 stranieri siano stati «individuati in un edificio che da informazioni in possesso delle autorità era destinato ad accogliere soggetti appartenenti all’area anarchica» o che erano «in possesso di oggetti atti a offendere» ma imprecisati: queste espressioni, infatti, «non contengono riferimenti individualizzanti sulle condotte» che dovrebbero giustificare una «limitazione gravissima di diritti fondamentali di cittadini comunitari» come l’espulsione, «dovendosi invece pretendere» a questo fine precise condotte «incompatibili con la civile e sicura convivenza».
Sgombero anche a Bresso
Il 29 aprile, secondo quanto si è appreso, è avvenuta anche un’altra operazione di Polizia nell’area dell’aeroporto di Bresso, che non interferisce sull’operatività dello scalo. Sul posto, l’hangar 39, si sono trovate le forze dell’ordine e i vigili del fuoco, con l’obiettivo di sgomberare diverse persone. L’aeroclub, raggiunto telefonicamente, ha confermato i «controlli» precisando solo che «non interferiscono con l’attività di volo», che rimane operativa.
Le persone e la dignità
28 04 2015
Un mese di attacchi incessanti da parte della coalizione guidata dall’Arabia Saudita contro le milizie houti ha reso lo Yemen un paese in cui ogni centro abitato è un potenziale obiettivo. La popolazione civile è costantemente a rischio di essere colpita. Vani gli appelli per cessare le ostilità.
Secondo le Nazioni Unite, dal 25 marzo gli attacchi dal cielo o da terra hanno ucciso oltre 550 civili, tra cui 100 bambini. I feriti sono migliaia.
Bombe e missili hanno distrutto o danneggiato abitazioni, ospedali, scuole, università, aeroporti, moschee, centri industriali, impianti sportivi, mezzi per il trasporto di beni alimentari, centrali elettriche, stazioni di rifornimento e reti telefoniche.
Il numero degli sfollati è di oltre 100.000, che vanno ad aggiungersi agli altri 120.000 fuggiti a causa di precedenti conflitti in un paese che non trova pace.
Dopo averne denunciato già due alla fine di marzo, questo mese Amnesty International ha potuto documentare altri otto attacchi contro zone densamente abitate a Sa’dah, Hodeidah, Hajjaj, Ibb e nella stessa capitale Sana’a. Su 139 persone uccise, 97 erano civili (33 dei quali bambini) e su 460 persone ferite, almeno 157 erano civili.
Nel determinare gli obiettivi da colpire, il comando della coalizione guidata da Riad non pare farsi troppi problemi riguardo ai “danni collaterali” né si preoccupa di prendere le misure necessarie per proteggere i civili.
Uno dei sopravvissuti all’attacco lanciato il 20 aprile nella zona di Faj ‘Attan, alla periferia della capitale, ha raccontato ad Amnesty International che tre componenti della sua famiglia, tra cui un bambino di otto anni, sono morti schiacciati dalle macerie della loro abitazione, colpita da pesanti rocce che si erano staccate da una montagna centrata da un missile.
Gli houti e i loro alleati, i sostenitori dell’ex presidente Saleh che alla fine del 2011 ha lasciato il potere in cambio dell’immunità (e ora se ne vedono le conseguenze), non si comportano meglio. Nella zona di Aden hanno ripetutamente bombardato obiettivi civili e Amnesty International ha ricevuto segnalazioni di operatori sanitari e forniture mediche di prima necessità fermati ai posti di blocco: rapiti i primi, razziate le seconde.
L’episodio più agghiacciante risale al 3 aprile: due fratelli che lavoravano per la Mezzaluna rossa sono stati uccisi ad Aden mentre aiutavano le persone rimaste ferite a seguito di un attacco a salire a bordo delle ambulanze.
Corriere della Sera
23 04 2015
È rimasto ucciso in un raid Usa Giovanni Lo Porto, cooperante di Palermo, 38 anni, rapito in nella provincia del Punjab, a cavallo tra Pakistan e Afghanistan, il 19 gennaio del 2012 da quattro uomini armati. Il governo Usa ha annunciato di aver ucciso per sbaglio Lo Porto in gennaio, nel corso di un’operazione di antiterrorismo contro Al Qaeda. Da quanto è trapelato, l’attacco è stato condotto da un drone della Cia. La Casa Bianca ha aggiunto che insieme a Lo Porto è rimasto ucciso un secondo ostaggio di al-Qaeda, lo statunitense Warren Weinstein. Nell’operazione è stato ucciso anche Ahmed Farouq, cittadino americano tra i leader di al Qaeda.
«Mi sento responsabile»
«Ho parlato ieri (mercoledì, ndr), con il primo ministro italiano Matteo Renzi» dell’uccisione dell’ostaggio Giovanni Lo Porto»: lo ha detto Barack Obama in un messaggio video. «I nostri pensieri vanno alle famiglie di Warren Weinstein, americano prigioniero di al Qaeda dal 2011, e Giovanni Lo Porto, un cittadino italiano ostaggio di al Qaeda dal 2012», ha detto il presidente. «Nessuna parola può esprimere appieno il nostro rammarico per questa terribile tragedia», ha affermato. E ha aggiunto: «Come marito e come padre posso solo immaginare il dolore e l’angoscia che stanno provando le due famiglie» per la perdita dei loro cari». «Il loro esempio sarà una luce per chi è rimasto».
«Un esempio per noi»
Obama ha poi dichiarato di «assumersi tutte le responsabilità di tutte le operazioni antiterrorismo, compresa questa». E ha definito Lo Porto e Weinstein «un esempio per noi». «Quelle persone che vedono la sofferenza e rispondono con la compassione, vedono guerre e rispondono con la pace». «I servizi» umanitari «di Giovanni riflettevano gli impegni degli italiani nostri alleati e amici nel garantire la sicurezza di tutti nel mondo».
Renzi: «Profondo dolore»
«L’Italia porge le più sentite condoglianze alla famiglia di Giovanni Lo Porto», ha dichiarato il presidente del Consiglio, Matteo Renzi che esprime «profondo dolore per la morte di un italiano, che ha dedicato la sua vita al servizio degli altri». Renzi ha espresso condoglianze «anche alla famiglia di Warren Weinstein».
L’operazione
In un comunicato, la Casa Bianca ha sottolineato che nell’operazione contro un edificio di al Qaeda, sono stati uccisi «accidentalmente» entrambi gli ostaggi e che «non c’era motivo di credere che all’interno del compound, al confine tra Afghanistan e Pakistan, fossero presenti» i prigionieri. «Nessuna parola può esprimere il nostro dispiacere per questa terribile tragedia», ha aggiunto la Casa Bianca. Le informazioni, finora segrete, sono state diffuse per volontà del presidente Obama, «declassificate e condivise con il popolo americano», prosegue la nota, ribadendo che il presidente «si assume la piena responsabilità di queste operazioni e crede che sia importante fornire agli americani più informazioni possibili sulle operazioni anti-terrorismo, in particolare quando provocano la morte di nostri cittadini».
La Casa Bianca ha sottolineato che l’operazione è stata condotta in osservanza delle politiche anti terrorismo e che sono in corso indagini che comprender cosa sia avvenuto e come impedire che possano ripetersi altri incidenti in futuro. «A volte si fanno errori mortali, ma una delle cose che rende eccezionali gli Stati Uniti è la nostra volontà di imparare dai nostri errori, sto aspettando una relazione di cio che è successo per chiarire che lezione dobbiamo imparare, faremo di tutto per non ripetere questi errori ed evitare la perdite di vite innocenti», ha detto il presidente, collegato dalla Casa Bianca.
Il sequestro
L’operatore umanitario palermitano aveva alle spalle missioni in Centro Africa, ad Haiti, due volte in Pakistan. Era stato sequestrato dal compound di Multan, nel Punjab, insieme con il collega tedesco Bernd Muehlenbeck, 59 anni, che come lui lavorava per la ong tedesca Wel Hunger Hilfe, nell’ambito di un progetto finanziato dall’Ue per soccorrere la popolazione del Pakistan. Muehlenbeck era stato liberato lo scorso ottobre.
Weinstein
Warren Weinstein, che ha perso la vita con Lo Porto, era il direttore per il Pakistan della J.E. Austin Associates, società privata di consulenza che assiste economie emergenti nella crescita e ha progetti in tutto il mondo. Era stato rapito nell’agosto 2011 a Lahore mentre si preparava a tornare in patria, quattro giorni prima della scadenza del suo contratto con l’Agenzia Usa per lo Sviluppo Federale. Weinstein aveva 73 anni e viveva a Rockville, alle porte di Washington. Nel dicembre 2013 al Qaida aveva diffuso un video il cui il cooperante faceva appello a Obama per la sua liberazione.
«Vogliamo chiarezza»
«Al momento siamo senza voce. Ciao Giovanni, che la terra ti sia lieve». Gvc onlus, la ong bolognese con cui il giovane palermitano nel corso della sua lunga carriera da cooperante ha collaborato, affida a Facebook le lacrime per la notizia arrivata oggi dagli Stati Uniti. «È straziante leggere le dichiarazioni americane. È morto a gennaio e lo comunicano adesso. Perche’? A noi non resta che stringerci ancora piu’ vicino alla famiglia», ha detto Margherita Romanelli, responsabile per l’Asia della ong.
Gli ostaggi
Lo Porto era stato ricordato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel giorno del suo insediamento: «Desidero rivolgere un pensiero ai civili impegnati, in zone spesso rischiose, nella preziosa opera di cooperazione e di aiuto allo sviluppo. Di tre italiani, padre Paolo Dall’Oglio, Giovanni Lo Porto e Ignazio Scaravilli non si hanno notizie in terre difficili e martoriate. A loro e ai loro familiari va la solidarietà e la vicinanza di tutto il popolo italiano, insieme all’augurio di fare presto ritorno nelle loro case». Da allora, ancora altro silenzio, fino a oggi.