DINAMO PRESS

Dinamo Press
23 06 2015

Le conclusioni della Commissione per la Verità sul Debito Pubblico sono un documento storico. Ma quali saranno le conseguenze politiche?

Il governo greco oserà procedere alla sospensione dei pagamenti e alla rivendicazione della cancellazione del debito, approfittando anche della legittimazione politica e delle argomentazioni giuridiche offerte dalle conclusioni della Commissione, cambiando così radicalmente anche i termini delle «trattative»?

I risultati preliminari della Commissione per la Verità sul Debito Pubblico ci forniscono il racconto più coerente su come siamo arrivati non solo a una crisi del debito mai vista prima, ma anche all’imposizione delle condizioni per una catastrofe sociale senza precedenti. Il documento giustifica la ferma posizione dei movimenti, secondo cui il debito greco è illegale, inaccettabile e non sostenibile, e offre una legittimazione economica, giuridica e politica alla richiesta di sospendere i pagamenti e cancellare il debito.

In particolare, le conclusioni smentiscono la leggenda secondo cui il debito greco sia cresciuto a causa delle enormi spese pubbliche, provando che l’aumento del debito è il risultato degli enormi interessi pagati ai creditori, delle enormi spese militari, dell’evasione fiscale diffusa, della fuoruscita di capitali all’estero, del costo della ricapitalizzazione delle banche e dello squilibrio strutturale dell’archittetura dell’Eurozona. Inoltre, il documento svela la catena di criminali alchimie statistiche del meccanismo costruito dall’ELSTAT [Autorità Ellenica di Statistica, n.d.t.] con cui il debito è stato ingradito attraverso considerazioni arbitrarie sui debiti degli ospedali e altrettanto arbitrari conteggi del debito delle Società Pubbliche, con l’unico obiettivo di ingrandire la crisi greca del debito.

Inoltre, il testo rivela il meccanismo che ha portato alla mancata pronta riduzione del debito greco, proposta anche dal FMI, a causa delle ciniche richieste dei governi di Germania e Francia, perché le banche francesi e tedesche, esposte al debito greco, non subissero perdite. Successivamente queste banche, grazie agli interventi della BCE nel mercato secondario, hanno potuto disfarsi dei titoli degli Istituti di Assicurazione Sociale Greci. Per questo, gli organismi greci hanno subito conseguenze disastrose dal noto PSI.

Infine il documento, in base ad un’argomentazione giuridica completa, rivela il motivo per cui anche il debito prodotto dai mutui con la Troika sia illegale e inaccettabile, rispondendo a quelle voci – anche all’interno del governo – secondo cui era illegale solo una piccola parte del debito. Il testo dimostra in modo esaustivo la violazione della Costituzione e delle procedure democratiche a livello nazionale, delle misure previste dalle Nazioni Unite sui ditti fondamentali, delle regole dell’UE e anche della carta costitutiva dello stesso FMI. In questo modo, è stato reso chiaro pubblicamente che, in termini di diritto nazionale e internazionale, il governo greco è del tutto legittimato a procedere alla sospensione dei pagamenti e a porre la questione della cancellazione del debito, e non di una semplice «ristrutturazione».

Eppure, questo storico documento viene sottovalutato dai media di sistema, che quasi non lo menzionano. Il portale informativo di Psycharis l’ha presto tolto dall’home page. La pagina del giornale «Kathimerini» lo mantiene, ma solo in fondo. Le altre pagine di informazione hanno messo in prima fila altre notizie, insieme alla grande immagine del vicolo cieco delle trattative. Tutto ciò è indicativo della cattiva coscienza dei media di sistema e del fatto che sono schierati al servizio delle politiche dei Memoranda. Tra l’altro, proprio di recente siamo stati informati che questo «reclutamento» è anche il risultato di «seminari» speciali organizzati dal FMI.

Ma, al di là della copertura mediatica, la vera questione è un’altra: quali saranno le conseguenze politiche di questo rapporto? Il governo greco oserà andare avanti con la sospensione dei pagamenti e con la rivendicazione della cancellazione del debito approfittando dalla legittimazione politica e dalle argomentazioni giuridiche offerte dalla commissione? Cambierà quindi in maniera radicale anche i termini delle «trattative»? Utilizzerà il documento per mettere in dubbio l’architettura monetaria neoliberale e quella istituzionale dell’Eurozona, che hanno contribuito a peggiorare le cose, e come argomentazione per una rottura che diventa sempre più inevitabile? Oppure ne «approfitterà» solo a livello comunicativo, tornando a discutere con le «istituzioni», rivendicando semplicemente una «redistribuzione» interna del debito e ritirandosi continuamente da vincoli e linee rosse?

Questo documento può avere però una sua vita anche al di là di qualsiasi utilizzo da parte delle istituzioni. Perché in ogni caso, per coloro che hanno lottato e lottano contro la trasformazione della Grecia in una colonia del debito, questo documento può essere un’arma importante per un percorso di rivendicazioni tutt’altro che terminato.


Fonte: unfollow.com.gr, traduzione di AteneCalling.org

La solidarietà è la nostra arma!

Dinamo Press
17 06 2015

Contro le retoriche della paura la generosità di centinaia di persone nei confronti dei migranti accampati alla stazione Tiburtina. La dimostrazione concreta che la battaglia per una società inclusiva e solidale è tutta da giocare

In queste ore a Roma sta succedendo qualcosa di grande, che occorre raccontare nella sua grande bellezza. Si è aperta una crepa in quel muro di paura costruito ad hoc, un'ennesima volta, dai media, dal Comune di Roma, dal Governo, dalle forze dell'ordine.

Prima, un panico illogico per il trasferimento di poco più di cinquanta sgomberati della borgata “Comunità della Pace”, adiacente alla metro Ponte Mammolo. Principalmente rifugiati politici eritrei che vivono a Roma da molti anni, inseriti nel tessuto sociale del quartiere di Pietralata e punto di riferimento per molti “transitanti”, spesso appena arrivati e in condizioni davvero precarie, a cui le ruspe del sindaco Marino e del prefetto Gabrielli hanno distrutto le case, senza preavviso. Persone abbandonate dalle istituzioni in un parcheggio, dove dormono da oltre un mese in attesa di una sistemazione dignitosa.

Poi, la retorica del degrado utilizzata contro altri corpi: quelli dei rifugiati in transito che, perduto il riferimento di Ponte Mammolo, si sono accampati per giorni tra il centro Baobab di via Cupa e la stazione Tiburtina. In attesa che la Germania riaprisse Schengen o aspettando un treno per raggiungere la Francia. Su alcuni siti legati a noti esponenti politici e gruppi organizzati di estrema destra, queste persone sono state descritte come spazzatura, come untori e la scabbia è diventato il pericolo con maggior fortuna mediatica. Per due volte le forze dell’ordine hanno attaccato con violenza l’accampamento di fortuna, senza alcun piano alternativo, per disperderli e mostrare i muscoli “contro il degrado”.

Solo nel fine settimana è stato aperto dalla Croce Rossa un centro di transito informale: un luogo in cui le persone possono dormire e rifocillarsi senza il rischio dell’identificazione, che le costringerebbe a chiedere asilo in Italia, per volere del feroce regolamento di Dublino che denunciamo da anni e con cui i migranti si scontrano inesorabilmente dopo eventi, già drammatici, vissuti nei paesi di origine e durante la fuga. Un centro di transito: alcune decine di tende e di brandine montate in uno spiazzo vicino alla stazione Tiburtina. Il minimo. Niente di più.

Ma al di là della cronaca è successo qualcos’altro. Il vortice di paura è stato interrotto. Poco dopo il secondo sgombero, in maniera spontanea e diffusa, tantissime persone hanno iniziato a portare sostegno ai rifugiati. Piano piano, associazioni e gruppi informali si sono organizzati raccogliendo cibo davanti ai supermercati o mettendo a disposizione quello che avevano in casa.

Certo, ci ha stupito scoprire sui social che anche alcune sedi di partito sono diventate centri di raccolta, mischiandosi in maniera totalmente strumentale alla bontà di questa iniziativa popolare, che nasce spontaneamente dal basso in quei quartieri vessati dalla crisi e dalle speculazioni politiche quotidiane. Riteniamo vergognoso speculare anche sulla solidarietà!

Sarebbe forse utile ricordare a quei magnanimi presidenti di municipio e assessori che aprono (solo per le grandi occasioni) le sedi di quartiere per la raccolta dei beni di prima necessità destinati a profughi e bisognosi, che questa degenerazione è causa diretta delle scellerate scelte "operative" della giunta Marino tramite il suo braccio armato Gabrielli, durante lo sgombero di Ponte Mammolo.

I partiti, che hanno taciuto fino ad ora, invece di organizzare raccolte di beneficenza, dovrebbero sbrigarsi a trovare nel più breve tempo possibile una soluzione politica (e aggiungiamo noi: dignitosa) a questa vicenda, fermo restando che a nostro avviso, la totale inefficienza e inadeguatezza delle istituzioni in questa storia si conferma giorno dopo giorno.

Dopo l’annuncio che gli sgomberati di Ponte Mammolo sarebbero arrivati nel nostro quartiere, si è deciso di creare una rete di accoglienza dal basso, animata dalla Libera Repubblica di San Lorenzo, per presentare ai nuovi arrivati i servizi autogestiti che questo quadrante di Roma offre, per organizzare una festa di benvenuto e per dire, contro ogni speculazione e campagna mediatica vergognosa, che “A San Lorenzo nessuno è straniero”.

Il Presidente di Municipio Gerace ha però prontamente bloccato il trasferimento. Sempre “contro il degrado” e “contro la dignità” dell'altro, si intende. Nonostante ciò, la discussione è andata avanti, per capire come attivarsi collettivamente. Nel fine settimana diversi attivisti si sono recati ripetutamente nell’area in cui hanno cercato rifugio i migranti, per capire cosa poteva servire. È apparso immediatamente evidente che la macchina della solidarietà spontanea, viscerale, di una Roma che resiste all'imbarbarimento era già all'opera. Da lunedì mattina la Libera Repubblica di San Lorenzo ha organizzato un punto di raccolta di beni di prima necessità, vestiti e prodotti per l’igiene al Nuovo Cinema Palazzo. Da allora, un flusso continuo di gente ha riempito la sala del Cinema di ogni genere di prodotti.

Una risposta immediata e oltre ogni aspettativa!

Sin dal comunicato di lancio dell’iniziativa si è chiarito che non si trattava di carità. Le decine di persone che in pochissime ore si sono attivate, hanno risposto ad un appello che chiamava ad esprimere una solidarietà carica di valore politico contro la vergogna prodotta in queste settimane dalle istituzioni e da questo sistema di accoglienza, strumentale solo a garantire profitti a Carminati, Buzzi & co. Una solidarietà desiderosa di rompere il muro di paura costruito scientificamente per alimentare una spirale cieca di odio e di razzismo. Roma ha risposto a tutto questo. Roma ha detto che c’è ancora chi non ha paura e vuole accogliere e aiutare.

Ovviamente ci sarà chi proverà a dire che bisognerebbe organizzare la raccolta di cibo per gli italiani. Che prima di sistemare i migranti, occorre dare una casa agli indigeni. A questi rispondiamo una cosa precisa: le persone che stanno portando solidarietà in queste ore, sono le stesse che inondarono i centri sociali di ogni tipo di prodotti subito dopo il terremoto de L’Aquila. Probabilmente sono anche le stesse che, in un modo o nell’altro, difendono il diritto all’abitare per tutti, al di là della provenienza geografica. Chi fomenta l’odio invece – da Salvini a Casapound, da Il Messaggero a tanti altri – sono gli amici degli imprenditori che ridevano compiaciuti delle scosse che hanno raso al suolo una città, fiutando l’affare, o di quelli che si auguravano un anno pieno di catastrofi, per aumentare i propri introiti. Per non citare, perché ne sono pieni i mezzi di informazione (anche quelli mainstream) le intercettazioni su Mafia Capitale che spiegano bene “l'utilità economica” dei soggetti svantaggiati, per fini personali.

Chiunque lavori sistematicamente per indirizzare il malcontento e le difficoltà materiali delle persone contro i più deboli, contro i poveri (neri o bianchi che siano), lo fa per coprire i ricchi e quelli che esercitano il potere. Sono perciò loro complici a tutti gli effetti.

Infine, è interessante prestare attenzione alla portata effettiva dell'ennesima presunta “emergenza”. A Ponte Mammolo si trattava di circa cinquanta sgomberati. A Tiburtina di poco più di quattrocento persone. Numeri irrisori per una metropoli come Roma, che conta milioni di abitanti. Numeri che scomparirebbero se esistesse un sistema di accoglienza dignitoso e se non ci fossero gli sciacalli – del mondo della politica, dell’informazione e della criminalità organizzata – pronti a soffiare sul fuoco a ogni occasione utile. E mentre si grida, ancora una volta, all'invasione, le statistiche raccontano altro: gli sbarchi rispetto allo scorso anno sono aumentati del 6,8%. Circa 3 mila persone in più. L’ISTAT, proprio in questi giorni, ha pubblicato il rapporto annuale sullo stato della popolazione italiana: sempre più vecchia, caratterizzata da un crollo delle nascite paragonabile solo a quello della Grande Guerra, con un saldo negativo di oltre 100 mila unità. Cosa significa? Significa che nel 2014 sono morte 100 mila persone in più di quelle che sono nate. Inoltre, 136 mila persone hanno lasciato questo Paese senza futuro: tra queste 46 mila non italiani (ebbene sì! I migranti partono, vanno via, non arrivano e basta). Insomma, se la popolazione rimane costante il “merito è dei 92 mila migranti arrivati lo scorso anno” (cit. ISTAT).

I flussi migratori stanno aiutando l’Italia a mantenere il tasso di popolazione attuale e soprattutto ad abbassare l’età media e ad assicurare che le pensioni degli italiani continuino ad essere pagate.

Pagate dai migranti, ma questo non fa notizia. Oltre ogni demagogia, è questa la realtà che non viene raccontata.
Produrre l’emergenza conviene “solo” all'interno dei giochi politici che immobilizzano questo paese da decenni: conviene alla Lega di Salvini, che sull’odio e sui conflitti orizzontali, tra poveri e tra sfruttati, ha costruito le sue fortune politiche; conviene a Renzi, che utilizza lo spauracchio dei transitanti per aumentare il suo potere contrattuale in sede europea. Proprio come fece Maroni – lo stesso che ora non vuole altri migranti in una Lombardia che senza lavoro migrante imploderebbe – quando era Ministro dell’Interno e a Lampedusa sbarcavano i tunisini. Piccola coincidenza: Gabrielli, l’attuale Prefetto di Roma e probabile futuro commissario della capitale, rivestiva allora un altro ruolo degno di nota, era a capo della protezione civile.

Sulla pelle dei rifugiati si stanno giocando partite opposte, animate da soggetti politici differenti, ma accomunati dallo stesso disprezzo per la vita umana e per la dignità delle persone. Queste tensioni contrastanti stanno producendo delle linee di frattura nella società italiana.

La solidarietà attiva, la solidarietà come arma di azione politica può essere un importante strumento di ricomposizione e di affermazione di una società ancora capace di autodeterminazione, di difesa dei diritti, di solidarietà e senso del vivere comune.

Speriamo che azioni spontanee e iniziative organizzate si diffondano. Mai come ora, è importante aprire una breccia nel muro di paura. Mai come ora, occorre rivendicare un asilo europeo che tuteli il diritto di scelta delle persone e non gli interessi degli Stati nazionali, l’apertura immediata di un canale umanitario e la trasformazione radicale del sistema di accoglienza.

Mai come, è necessario gridare che contro chi spaccia odio e razzismo, diffonderemo solidarietà e mutualismo!

 

 

Saluti da Ventimiglia

Dinamo Press
16 06 2015

Cosa ci racconta questa foto scattata questa matttina all'alba durante lo sgombero di un gruppo di migranti in attesa di varcare la frontiera a Ventimiglia?

La foto che vedete qui sopra è stata scattata questa mattina dall'agenzia Ansa a Ventimiglia durante lo sgombero di alcune decine di migranti dalla zona prossima al confine con la Francia. L'intervento della polizia contro i migranti - bloccati ormai da giorni dalla polizia francese che gli impedisce di varcare il confine in aperta violazione dei principi del trattato di Dublino e di Schengen - è scattato attorno alle 7,30 del mattino. Con i loro cartelli che chiedono di poter varcare la frontiera, dormivano ad appena 500 metri dal confine Francese, abbarbicati sugli scogli.

A portata di mano la conquista di una nuova tappa del loro viaggio o l'agognata fine di un'odissea, magari per raggiungere qualche amico o parente che vive in Francia. In mezzo la brutalità delle frontiere e del filo spinato. Linee immaginarie ma che possono divenire invalicabili. La stessa brutalità che ci racconta questa foto. Mani in faccia, strattoni, calci. La violenza esercitata su corpi inermi per immobilizzarli. Corpi che scalciano, tentano la fuga, si fanno trascinare di peso e vengono trasportati contro la loro volontà. Copri che provano a conquistare l'unica Europa possibile, un'Europa senza steccati, fossati e mura.

La politica dice che la polizia ha agito per la loro sicurezza, per garantire la loro dignità e le loro condizioni igieniche. Il sindaco di Ventiglia protesta, dice di non essere stato informato, ma il Viminale neanche si degna di rispondere. Allora il primo cittadino di questo piccolo comune al centro dello scontro in Europa sul tema immigrazione si rivolge al neogovarnatore Giovanni Toti, forzista eletto con i voti della Lega di Salvini. Chiede aiuto per gestire l'emergenza, l'intervento della Protezione Civile. Ma niente da fare, perché su quei corpi abbandonati sugli scogli si raccolgono i voti.

L'accoglienza tra Mafia Capitale e razzismo

Dinamo Press
15 06 2015

Infuria lo scontro tra Maroni e Renzi, e la Lega Nord continua la sua partita sulla pelle dei migranti. Ma dall'inchiesta Mafia Capitale emerge il fallimento completo del sistema di accoglienza. Voluto proprio da Maroni al tempo dell'emergenza Nord Africa.

In queste ore Renzi e Maroni stanno giocando cinicamente una partita politica sulla pelle di migliaia di persone. Tutti si chiedono da che parte stare? In maniera istintiva viene da avversare il razzismo della Lega Nord pronta a demolire con le ruspe le richiesta di protezione dei rifugiati e, perché no, il sogno di miglioramento sociale ed economico dei migranti. Ma tuttavia un dubbia assilla questa discussione, siamo sicuri che perpetuare questo sistema di accoglienza sia la soluzione migliore? Ormai è un modello indifendibile, fallito fragorosamente sotto i colpi delle inchieste giudiziarie e l'incapacità politica amministrativa di gestire con politiche lungimiranti i nuovi arrivi.

La genesi di questo sistema ha dei nomi precisi, nel 2011 il governo Berlusconi con il ministro dell'interno Maroni varò l'Emergenza Nord Africa, nacque così il sistema di accoglienza attuale: mega centri con centinaia di posti, nel caso di Mineo migliaia, assegnati con chiamata diretta alle cooperative amiche in cambio di finanziamenti e pacchetti di voti. Il risultato di quell'esperienza è sotto gli occhi di tutti, i principali gestori dei centri sono stati tutti arrestati o sotto indagine. A dicembre è toccato alle cosiddette coop rosse guidate da Buzzi. La scorsa settimana è stato il turno di quelle bianche: La Cascina fin dalla nascita in orbita CL e membro della compagnia delle opere e Arci confraternita del S. S. Sacramento e di S. Trifone fondata secoli fa ma rigenerata di recente dal cardinal Ruini, questi due campioni dell’accoglienza si sono unite in una terza entità denominata Domus Caritatis che ha fato razzia degli appalti nel sistema delle migrazioni. La magistratura arriva nettamente in ritardo, le inchieste giornalistiche e le pubbliche denunce delle associazioni avevano fatto luce sul business molto tempo prima.

Mineo e Roma non sono due casi marginali ma sono il cuore stesso del sistema di accoglienza, uno è il centro più grande d'Europa, l'altra la metropoli che per volontà dell'amministrazione Alemanno è divenuto il principale hub per i rifugiati in Italia. Di fatto si tratta due colonne portanti per il funzionamento di tutto l'apparato, venute a mancare il sistema non esiste più. Né tanto meno si può pensare che si possa salvare consentendo ai comuni di eccedere il patto di stabilità o promettendo delle opere di compensazione in cambio dell’ospitalità dei migranti, un provvedimento quest’ultimo di particolare gravità perché immette il principio per cui i centri siano al pari delle discariche degli scompensi per le comunità da risarcire in qualche modo.

Il fallimento dell’accoglienza tutto nella logica della grande opera, che da una parte ha alimentato la corsa delle cricche politico/mafiose a depredare le risorse pubbliche, dall'altra ha impedito alle piccole associazioni o cooperative di accedere ai bandi. I comuni e le prefetture hanno voluto semplificare al massimo il governo dell'accoglienza, permettendo a pochi centri la capacità di ospitare migliaia di persone, in modo tale da affidare completamente a loro tutto il settore e di ammassare i nuovi arrivati in luoghi delimitati per controllarli più efficacemente. Ciò ha prodotto delle evidenti distorsioni. Per gestire i centri, infatti, oltre le mazzette sono necessari dei budget iniziali molto grandi. I soldi depredati da Buzzi e company sono attinti per la quasi totalità da finanziamenti europei che solitamente vengono versati come rimborsi a distanza di mesi dalla spesa effettuata. Nei primi mesi la cooperativa deve fornire i servizi e l'assistenza giornaliera a 100 e più persone solo con i propri mezzi, o chiedendo prestiti alle banche, questo iter lo possono seguire solo le grandi holding del terzo settore, già attive nel mondo della cooperazione. Del resto "La Cascina" è un'azienda che realizza fatturati milionari e la 29 giugno da anni gestiva il verde e altri servizi per il comune di Roma, dunque non proprio una piccola esperienza. Tutti gli altri, le piccole associazioni, i collettivi anti razzisti, sono tagliati fuori. Al contrario si è scelto di affidare tutto il sistema al mostro. Un caso che non ha precedenti nella storia, eccetto i più efferati regimi, in Italia in questi anni sono stati i gruppi razzisti e neofascisiti i responsabili del sistema di accoglienza.

Il mosto è stato creato da prefettura e governo, dal 2011 Gramazio e Carminati di giorno contavano i soldi e la sera organizzavano le manifestazioni contro i "clandestini". Se oggi vediamo sfilare nel carcere i protagonisti di questa ennesima pagina tragica italiana, la logica della grande opera che li ha creati non viene scalfita. Né il sindaco di Roma, né il nuovo prefetto della Capitale (che al tempo dell'Emergenza Nord Africa era il capo della protezione civile, l'organo a cui venne affidata la dislocazione dei richiedenti asilo) né tanto meno il governo Renzi hanno messo mano ai piani di accoglienza. A riprova della continuità politica, nell'ultimo bando della prefettura di Roma per la gestione dei cosiddetti CAS (centri accoglienza speciale), vengono riproposti di nuovo i mega centri da 100 persone e per ironia del destino la fa da padrone la cooperativa Tre Fontane erede del sistema Arciconfraternita/La Cascina.

La polemica tra Renzi e Maroni non può fare contento nessuno, si tratta tutt'al più di una disputa tra chi come il Governatore della Regione Lombardia vuole cogliere la palla la balzo per fare il pieno politico con la retorica razzista, e chi come il Presidente del Consiglio non ha nessuna idea su come gestire la questione e dopo aver perso la partita per la distribuzione europea dei richiedenti asilo, si ritrova con la solo possibilità di continuare il sistema Buzzi/La Cascina/Arci confraternita sotto altre spoglie. In realtà una strada ci sarebbe, è l'accoglienza diffusa, per realizzarla basta mettere fine al concentramento dei migranti in strutture isolate e affollate, istituire un tetto massimo di 20 migranti per centro e consentire a chi davvero crede nella necessità di accogliere le persone in fuga dalla guerra di gestire i centri.

Tutta nostra la città!

Dinamo Press
10 06 2015

Vite, energie, corpi favolosi e fuori controllo! Il 13 giugno partirà da Piazza della Repubblica il Roma Pride 2015. Appuntamento ore 15:00, Piazza della Repubblica

Lo attraverseremo come spazio conquistato e non concesso, dove rivendicheremo la libertà e i diritti delle persone lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersex insieme al diritto ad una città libera da pregiudizi e dal malaffare, per il rispetto della dignità di tutt*. Mentre il sindaco Ignazio Marino sostiene i diritti delle coppie gay, si schiera in prima fila insieme a chi sta svendendo la città, rispondendo con le ruspe alla necessità di diritti e sottraendo ai cittadini gli spazi sociali, di aggregazione e di produzione culturale. Scendiamo in piazza gridando no al Jobs Act, al Piano Casa e al decreto Salva Roma, no alle ruspe di Salvini e al silenzio sulle morti in mare dei migranti. La nostra città è diventata insopportabile, triste, grigia e vuota. Noi ci riprendiamo gli spazi che ci vengono sottratti e intrecciamo le lotte per un comune percorso di mobilitazione.

Contro la precarietà abitativa, culturale, lavorativa e affettiva, contro la tristezza e la solitudine, contro il silenzio e il razzismo, scendiamo in piazza e riprendiamoci le strade!

Noi non stiamo con Marino, siamo frocie fuori norma!


Siamo fuori controllo. Siamo posate ed educate. Siamo svogliate e sgraziate. Siamo artiste e fannullone, femministe e ricchione. Siamo frocie ineducate. Siamo mani delicate, bocche insaziate. Siamo figlie di un rigore che ci ha volute ribelli. Siamo corpi desideranti, corpi stanchi, corpi vivi e fuori forma. Viviamo le nostre vite di lotta e favolosità negli spazi che occupiamo. Il Pride, la parata, è uno spazio che occupiamo. Uno spazio che ci appartiene perché non ci è stato concesso, ma è stato da noi conquistato. Uno spazio in cui esprimiamo la nostra essenza, mostriamo i nostri corpi, urliamo i nostri desideri e cantiamo la nostra rivoluzione, senza paura e forti della resistenza che celebriamo, perché libere dalla norma, libere dalla classificazione e dalla costrizione. Le nostre vite reclamano spazi, e i nostri corpi se li prendono!

Politici incapaci costringono la nostra quotidianità in città come modellini di plastica, costruiti da grosse mani inesperte, che non riescono a gestire i particolari. Le nostre vite hanno bisogno di città amiche, città morbide che parlano lingue diverse e mangiano cibi colorati; città gestite da chi riempie le sue strade e fa vivere i suoi spazi. Le città che vogliamo non hanno centri commerciali tra le baracche di piccoli commercianti; non hanno parcheggi sterminati al posto di parchi né decorazioni futuriste di cemento al posto di case popolari circondate da giardini. Le nostre città non accettano ricatti e compromessi; per questo noi non ci pieghiamo ai dettami politici che ci vedono come problema di ordine e decoro, ci stigmatizzano come fannullone delinquenti e pericolose, e ci ghettizzano in periferie abbandonate o in quartieri frocifriendly. Le città che vogliamo non si muovono su ruoli ritenuti rispettabili da un’autorità che non ci rappresenta, ma camminano sulle gambe di donne pelose e uomini sui tacchi, di bambine vestite male e di mamme con la barba. Le famiglie che abitano le nostre case sono scomposte e incasinate, non vanno a messa la domenica ma praticano il cunnilingus; non vanno al family day ma giocano nei centri sociali.

Emblema della strumentalizzazione che delle nostre soggettività viene fatta è Expo2015, che si è impossessata di costruzioni ideologiche da benpensanti per proporre modelli di città ecosostenibili, modelli di nutrizione sana e di integrazione di tutte le culture e di tutte le sessualità, per niente, però, supportati da credibilità e concretezza. Quello che expo è stato in grado di proporre fin’ora è solo sfruttamento dei territori, mercificazione dei corpi e sfruttamento del lavoro di giovani sottopagati. Ci opponiamo al modello expo, e rifiutiamo di sostenere il Pride ufficiale milanese che di tutto questo decide di farsi bandiera. Non vogliamo essere normalizzate; non vogliamo essere identificate in ruoli o controllate da norme. Vogliamo essere libere di autodeterminarci e usufruire di tutti gli strumenti che scegliamo per farlo.

Menti politiche illuminate impongono un regime economico di austerity definanziando le strutture pubbliche e sostenendo banche e grandi imprese; smantellano le forme di organizzazione sociale costruite dal basso e riconoscono un modello familiare irreale. La sanità deve essere pubblica, gratuita e libera dall’intervento delle lobby cattoliche! Gli interventi per il cambio di sesso si realizzano come sperimentazioni sui nostri corpi guidate da macellai che ci vedono come mostri. Ci ritroviamo a dover scegliere se ricoprire un ruolo maschile o un ruolo femminile e a dover regolare ogni aspetto della nostra vita sulla base di questa scelta. Ce lo impongono da bambine, e lì dobbiamo scegliere se essere principesse rosa o guerriere solitarie. Noi siamo principesse guerriere! E non siamo mai sole! Ci propongono lavori adatti alle nostre “Specificità”, all’immagine che di noi vogliono dare, all’aspetto più attraente della nostra personalità …o dei nostri culi.

Siamo brave casalinghe e badanti. Siamo negre puttane e zingare bastarde. Siamo migranti in cerca di vita, che vengono accolte da razzismo, sessismo e fascismo. Non vogliamo piacere alle belle forme dei salotti in cui si decidono le sorti di migranti che poi vengono lasciati morire sul tappetino di casa come fossero zanzare. Il nostro Paese si fa forte di grandi elogi sulle sue capacità di accogliere i migranti; cita enormi cifre stanziate a loro favore e bacchetta l’Europa che inerme assiste a tutto questo, ma non parla di CIE, non parla del lavoro in nero da schiavi, non parla del totale abbandono riservato a chi richiede asilo, e propone soluzioni ridicole da fumetto. Non ci riconosciamo in queste politiche, per questo decidiamo di non esserne schiave e trasgredire. Saremo in ogni città, in ogni lotta, in ogni parata, in ogni casa!

Ci riprendiamo la città, perché è tutta nostra!

 

Turchia: Il ritorno della politica

Dinamo Press
10 06 2015

“Al sana yeni Türkiye!“: “Prenditela la nuova Turchia!” questo era uno dei titoli dei giornali dell’8 giugno, il giorno dopo il voto. Un’invito che riprendeva ironicamente il mantra utilizzato da Erdoğan per questa campagna elettorale “Vota per una nuova Turchia”.

La frase capeggiava sulla prima pagina di Cumhuriyet, il quotidiano per il cui direttore il Presidente Erdoğan in persona aveva evocato l’ergastolo la settimana prima, avendo il giornale pubblicato delle foto che ancora una volta provavano l’aiuto materiale in armi che la Turchia da tempo fornisce alle milizie dell’Isis, con la copertura dei servizi segreti.

La nuova Turchia che è uscita dalle urne non è quella a cui puntava il Presidente: avendo perso la maggioranza assoluta mantenuta per 14 anni, cioè da quando l’AKP, il suo partito, è al potere, ha subito una battuta d’arresto l’ambizione di riformare il sistema parlamentare in chiave presidenziale, cambiamento che gli avrebbe permesso di ritornare sullo scenario politico con un ruolo di primo piano e di concentrare il potere nelle sue mani. Un progetto che era il tema principale di queste elezioni e che ha suscitato profonde discussioni e diffuso malcontento anche fra il suo stesso elettorato che di fatto non lo ha sostenuto fino in fondo.

Inoltre, a rompere le uova nel paniere all’ex premier aspirante capo assoluto, e a portare un significativo rinnovamento dentro uno scenario politico cristallizzato, ha sicuramente contribuito la sfida lanciata e vinta dall’HDP, il partito filo curdo.

Deputati curdi all’interno del parlamento turco non sono una novità: il sistema politico prevede la possibilità di essere eletti come indipendenti, e questo ha fatto si che già da due legislature fosse rappresentata anche questa forza; la grande novità di queste elezioni è stato decidere di correre come lista e superare l’alta soglia di sbarramento del 10%.

Il risultato era imprevedibile, la tensione nei giorni precedenti al voto è salita a causa di arresti, agguati e attentati (il più grave le due esplosioni a Diyarbakir) ai danni dell’HDP, che prefiguravano una strategia della tensione volta a mandare il paese nel caos, ma alla fine, nonostante il consueto bilancio di morti che si verifica in occasione di ogni elezione in Turchia, e anche grazie ai ripetuti richiami alla calma da parte di Selahttin Demirtas, il co-leader dell'HDP, l’atmosfera si è tranquillizzata; il voto si è svolto in maniera regolare e senza intoppi e si è anche caratterizzato per la straordinaria presenza di osservatori provenienti dalla società civile che si sono organizzati per controllare le operazioni di voto e di spoglio.

Lo scrutinio, come è prassi in questo paese, è avvenuto a tempi di record, e già a poche ore dalla chiusura dei seggi era chiaro che la politica turca era entrata in una fase nuova. Una parte del Paese ha mostrato insofferenza nei confronti di Erdoğan e della sua mania di grandezza, ha sanzionato il comportamento ambiguo mostrato durante l’assedio di Kobanı, ha reagito al rallentamento dell’economia ed ha tolto il suo voto all’AKP. Inoltre, nel contempo il laboratorio politico curdo, ha convinto e conquistato quell’elettorato più sensibile alle questioni democratiche, accogliendo istanze ecologiste, femministe, omosessuali, e superando la sua connotazione etnica curda per candidarsi a rappresentare tutte le minoranze.

Di fatto fra gli 80 deputati (su 550) eletti nelle fila dell’HDP, ci sono curdi, armeni, ezidi e suriani, atei ed omosessuali dichiarati, e moltissime donne: in relazione a quest’ultimo aspetto, è proprio grazie all’esempio messo in campo concretamente da diversi anni da quello che era il partito filo curdo BDP, evolutosi nell‘HDP, che anche gli altri partiti turchi sono stati spinti ad aumentare le loro rappresentati donne, e questo rende ora il parlamento turco quello a maggiore presenza femminile di tutta Europa.

A poche ore dalla chiusura dei seggi e quando i risultati non erano ancora definitivi, migliaia di persone si sono riversate nelle strade: ad Istanbul i quartieri a maggioranza curda erano un’esplosione di bandiere, caroselli, fuochi d’artificio, danze e canti. Ma non si è tratta di una vittoria solo dei curdi; questo risultato è anche il portato a lungo termine delle rivolte di Gezi park, il frutto maturo di una nuova richiesta di democrazia che aveva bisogno di sedimentare e diffondersi nella società per confluire in un dato politico.

Non si tratta di una rivoluzione, il partito di Erdoğan gode ancora di un ampio consenso, permangono problemi gravi e profonde lacune democratiche, ed un futuro incerto per questo parlamento, fra coalizioni improbabili ed ipotesi di elezioni anticipate, ma nel frattempo in Turchia si è tornati a fare politica.

Dinamo Press
09 06 2015

L`università e il mondo accademico più in generale rappresentano l`interessante terreno di studio di nuove unità di misura del lavoro. L`inizio di questo processo coincide con l’affermazione del New Public Management (NPM) , che ha imposto la managerializzazione delle istituzioni come unico principio nella modernizzazione del funzionamento del settore pubblico. Siamo nel mezzo di una vera e propria moltiplicazione degli strumenti di misurazione che si accompagna a quella dei suoi risultati: in questo ricco scenario non c’è più un unico standard valido una volta per tutte. Si tratta di un eterogeneo panorama che mostra tutta l’artificialità e l’arbitrarietà della nuova misura che, a seconda dei processi di selezione, degli indicatori o dell`algoritmo scelto, rileva differenti gradi e valori.

Dall`analisi bibliometrica agli algoritmi

L`università e il mondo accademico più in generale rappresentano l`interessante terreno di studio di nuove unità di misura del lavoro che si intrecciano ad altrettante originali pratiche di valutazione della ricerca, del funzionamento dei dipartimenti e della produttività dei docenti basate sui dati bibliometrici e l’uso di algoritmi. L`inizio di questo processo coincide con l’affermazione del New Public Management (NPM), che ha imposto la managerializzazione delle istituzioni come unico principio nella modernizzazione del funzionamento del settore pubblico. il NPM si é affermato dapprima nei paesi anglosassoni, in particolare in Gran Bretagna, e rappresenta la sintesi della tradizione di Bussiness administration radicata negli USA e delle correnti neoliberali espresse da alcune organizzazioni internazionali tra cui l`OCSE, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. Questo approccio neoliberale del management delle istituzioni accademiche è caratterizzato da spinte che sono tra loro eterogenee, se non addirittura opposte: se da un lato siamo di fronte ad un processo di deregolamentazione dell’ università-azienda per rispondere alle necessità del mercato del lavoro, dall`altro abbiamo una vera e propria «over-regulation» che investe i risultati della ricerca e dell’insegnamento. Proprio in questa «over-regulation», che coinvolge l’intera vita accademica, si possono collocare i processi di valutazione e misurazione della ricerca basati sulla scientometria, i cui risultati gestiscono la forza lavoro e orientano tanto la spesa che gli investimenti strategici istituzionali. Scrive giustamente Nicola De Bellis nel suo lavoro Introduzione alla bibliometria: dalla teoria alla pratica (De Bellis, 2014): «La bibliometria ha fatto il suo ingresso nelle valutazioni comparative individuali dei ricercatori (in occasione di reclutamenti, promozioni, ecc.) e negli esercizi di valutazione collegati ai meccanismi di finanziamento della ricerca universitaria». A partire dalla metà degli anni Ottanta nel mondo anglosassone, e dagli anni Novanta in molti altri paesi, questo tipo di valutazione ha sempre più caratterizzato la produzione di sapere e il lavoro nell’accademia. È l’Institute for Scientific Information (ISI) che, per primo, ha introdotto criteri valutativi di carattere quantitativo per misurare la produzione e il lavoro accademico. Si tratta di unità di misura basate sull’analisi delle citazioni, attraverso l’utilizzo di una serie di indicatori di «impatto», «influenza» e «qualità» «del lavoro accademico a partire dalle citazioni, dai riferimenti bibliografici presenti nelle note o nella bibliografia di ricerche pubblicate» (Henk F. Moed, 2005).

L’uso della bibliometria nella valutazione della ricerca prende le mosse nella seconda metà del secolo scorso. Il chimico e imprenditore statunitense Eugene Garfield, dopo aver fondato nel 1954 la Eugene Garfield Associated, nel 1964 istituisce l’Institute for Scientific Information (ISI) con lo scopo di ideare gli strumenti e studiarne i possibili usi per servizi di valutazione a enti istituzionali e non solo, tanto nel settore pubblico che in quello privato. Nel 1992 Garfield vende la ISI alla famosa multinazionale Thomson Reuters. Dal 1964 ad oggi la ISI si è trasformata in uno dei più importanti e autorevoli fornitori di servizi legati agli studi bibliometrici: una vera e propria agenzia che offre consulenze a pagamento su scala transnazionale, con uffici sparsi in tutto il mondo. Il lavoro svolto dalla ISI è stato reso possibile grazie alla creazione di particolari database che raccolgono dati e metadati di riviste selezionate da questa stessa compagnia. Queste banche di informazioni, tra loro molto differenti, variano in relazione al campo disciplinare da analizzare; la prima a essere stata realizzata da Garfield è il SCI (Science Citation Index), che ricopriva circa seicento giornali scientifici. Dopo questo primo esperimento, che elaborava esclusivamente discipline scientifiche, l’ISI ha iniziato a lavorare sulle pubblicazioni di scienze sociali e scienze umane: nel 1973 è stato fondato il SSCI (Social Science Citation Index), e nel 1978 il A&HCI (Art and Humanities Citation Index). Nel 2009, dopo che la ISI è diventata proprietà della Thomson Reuter, tutti e tre i database (SCI, SSCI e A&HCI) sono stati trasformati in versione elettronica chiamata Web of Science (WoS). Continuando l’esplorazione degli strumenti sviluppati da Garfield per valutare il lavoro nel mondo accademico e della ricerca, non possiamo non parlare dello strumento Impact Factor (IF), un indicatore sviluppato all`interno del progetto Journal Citation Reports definito da Garfield «uno strumento bibliometrico per stimare la rilevanza di un giornale scientifico» (Garfield, 1972). La valutazione dell’impatto di un giornale accademico all`interno della comunità scientifica è calcolato dividendo il numero totale delle citazioni ricevute in un dato anno dai contributi pubblicati nel giornale nel biennio precedente per il numero delle «original research» e dei «review articles» pubblicati nei due anni precedenti (1).

La caratteristica principale della bibliometria e dell’analisi delle citazioni operata dalla multinazionale Thomson Reuters consiste nel fatto che le sue operazioni di calcolo non ricoprono l`insieme totale dei giornali che vengono pubblicati nella comunità scientifica. Essa riflette esclusivamente il numero delle citazioni di quei giornali presenti nei database proprietari SCI, SSCI e A&HCI, che sono costruiti attraverso processi di selezione ed esclusione: infatti non tutte le migliaia di giornali che quotidianamente vengono pubblicati a livello globale sono indicizzati, ma solo una parte di essi. Questo fatto indusse Garfield, già alla fine degli anni Sessanta, a formulare la cosiddetta legge di concentrazione: «Non più di 1000 riviste sarebbero state sufficienti, in quel periodo, a coprire il nucleo della letteratura specializzata in tutte le discipline scientifiche, rendendo di fatto inutile, e forse persino sbagliato, ambire alla copertura totale» (De Bellis, 2014). Martin Garlinghouse, direttore del Thomson Reuters Institute for Scientific Information nella regione Asia, intervistato nel 2010 nel suo ufficio di Singapore, ha confermato che è proprio il processo di selezione a qualificare il lavoro di valutazione di questa multinazionale, differenziandosi così dai «competitor» del mercato: «per la ISI, selezionare significa qualità e rigore nel servizio che offriamo ai nostri clienti in tutto il mondo». Durante l’intervista a Martin Garlinghouse, è stato tuttavia molto difficile capire quali siano gli effettivi criteri utilizzati per selezionare ed escludere. Ciò che appare chiaro è che i risultati finali del conteggio del numero delle citazioni avviene esclusivamente a partire dai giornali selezionati presi in considerazione. Tale selezione afferma l’originale monopolio dei saperi come «denominatore comune delle leggi bibliometriche», dove «pochi autori sono responsabili della maggior parte della letteratura prodotta nel loro settore disciplinare; un ristretto gruppo di riviste pubblica la maggior parte degli articoli rilevanti in una data ricerca; un numero relativo basso di parole ricorrenti governa il comportamento linguistico individuale degli autori» (De Bellis, 2014).

La valutazione della ricerca e i criteri di misura nell’università

Se prendiamo il caso delle università in Asia, America o Europa, è facile scoprire come la valutazione della ricerca, la misura del lavoro accademico e della qualità della didattica siano sempre più dipendenti dall’uso di indicatori come il numero e tipo delle pubblicazioni, piuttosto che il valore dell’Impact Factor di quei giornali in cui accademici e ricercatori devono pubblicare. I risultati della ricerca sono misurati attraverso il numero di articoli pubblicati nei giornali accademici che appartengono ai database Science Citation Index (SCI) per le scienze dure e Social Sciences Citation Index (SSCI) per le scienze sociali, e questi risultati sono vincolanti per i finanziamenti universitari. Quanti più ricercatori attivi possiede un certo dipartimento, tanto più alto sarà l`ammontare complessivo dei fondi di ricerca di cui esso potrà disporre. L`allocazione differenziale dei fondi destinati alle istituzioni universitarie avviene utilizzando differenti indicatori che sempre più si focalizzano sulla misura della produttività del singolo ricercatore accademico (attraverso pubblicazioni, citazioni, impact factor, analisi dei giornali e degli articoli maggiormente citati appartenenti a Web of Science) e sulla valutazione dei cosiddetti «key input data» (come «R&D expenditures» e «R&D personnel»). Tale pratica è realizzata da differenti attori istituzionali e non, tanto privati quanto pubblici. La valutazione basata sui dati bibliometrici si realizza attraverso la creazione di una nuova figura: quella dell`esperto che include «educational development consultants», «quality assurance officers», «staff development trainers», «teaching quality assessors» e a cui si affiancano sempre più multinazionali e aziende private come la Thomson Reuters, che offre il proprio servizio ad un numero crescente di istituzioni: «sono sempre più le università che si rivolgono a noi, perché siamo gli esperti a cui chiedere consulenza su come migliorare e valutare i risultati della ricerca, quello che noi chiamiamo practice of science». Ancora, sempre nelle parole di Garlinghouse: «le università pubbliche ci chiedono un gran numero di questioni: vogliono valutare i risultati delle loro ricerche e gestire meglio le loro risorse; altre volte vogliono semplicemente fare soldi, e noi li aiutiamo in questo». Questi specialisti, tanto privati che pubblici, sviluppano un tipo di sapere e discorso che crea modelli e normative per la misurazione, dove la scientometria diventa «examination», «verification», ovvero una pratica che evoca i principi del giudizio piuttosto che dell’esame. Come affermano Shore e Wright, misurare il lavoro accademico è essenzialmente una «relazione di potere tra chi valuta e chi viene valutato». Inoltre un importante elemento da sottolineare è il fatto che i risultati di tale misurazione e valutazione vengono resi pubblici attraverso la stesura di ranking: «i risultati della valutazione sono spesso pubblicati nel formato gerarchico chiamato league table, facendo convergere valutazione e ranking» (Hazelkorn, 2011).

In altre parole i risultati della valutazione assumono sempre più un carattere relativo, mentre la misurazione diventa un processo di comparazione in uno spazio necessariamente eterogeneo. Valutare significa allora esaltare differenti posizioni, disuguaglianze, gerarchie e relazioni che acquistano sempre più peso. La stessa misurazione diventa «relativa»: essa ha bisogno di una relazione per poter essere decifrata e compresa. Un utile esempio di quanto andiamo dicendo è rappresentato dalla nascita del Academic Ranking of World Universities (ARWU), ranking delle Global University nato alla Shanghai Jiao Tong University nel suo centro di ricerca sulle World-Class Universities nel 2003. Il sistema rappresentato dal ARWU si definisce a partire da un’originale centralità delle gerarchie capace di dividere tra università considerate di serie A e di serie B. Questo tipo di classifiche unidimensionali «in stile hit parade esaltano chi vi primeggia (o migliora la propria posizione da un anno all’altro) deprimendo i perdenti e gli ignavi, al punto da diventare talvolta un pretesto per il lancio di costosissimi programmi di research excellence. Ancora peggio, condizionano i destini individuali di studenti in cerca di buone università dove iscriversi o di giovani scienziati in cerca del luogo migliore dove perfezionare le proprie competenze» (De Bellis, 2014). La nuova misura del lavoro e le pratiche di valutazione ci mostrano un inedito intreccio dove i dati «oggettivi» del sapere bibliometrico si annodano a processi di stratificazione e differenziazione tanto della produzione di sapere che della forza lavoro su scala globale. Gli strumenti della scientometria, i dispositivi con cui studiare e comparare il numero di citazioni per singolo autore e articolo pubblicato, i database proprietari SCI, SSCI e A&HCI, le piattaforme Web of Science, Google Scholar e Scopus, definiscono una misura sempre più basata su contenuti di informazioni.

Si può, in un certo senso, descrivere questa misurazione come un sapere sulla produzione di sapere che, in quanto tale, lo organizza, segmenta e differenzia. L`unità di misura basata sulla scientometria, infatti, è una forma di sapere che si applica, come abbiamo visto, alla produzione di sapere. Esso è un sapere sul sapere che produce effetti, pratiche e normative attraverso la formalizzazione che caratterizza gli algoritmi. Il tentativo di questi strumenti scientometrici è, cioè, misurare e standardizzare la dimensione qualitativa dei saperi attraverso l`uso di indicatori in grado di rendere conto della qualità comunicativa e sociale tanto del lavoro che dei suoi risultati.

Siamo nel mezzo di una vera e propria moltiplicazione degli strumenti di misurazione che si accompagna a quella dei suoi risultati: in questo ricco scenario non c’è più un unico standard valido una volta per tutte. Ogni database e algoritmo, distribuendo pesi diversi ad altrettanti indicatori, concentrandosi maggiormente su alcuni aspetti e sottovalutandone altri, produce inevitabilmente differenti risultati, valutazioni e gerarchie. Si tratta di un eterogeneo panorama che mostra tutta l’artificialità e l’arbitrarietà della nuova misura che, a seconda dei processi di selezione, degli indicatori o dell`algoritmo scelto, rileva differenti gradi e valori. Laddove pensare e produrre sembrano essere diventati la stessa cosa e le classiche forme di misurazione sembrano oggi inadeguate, l`università (ovvero dove si apprende e si produce sapere per eccellenza), acquista un significato ed una posizione tanto particolare quanto inedita. Questa istituzione sembra essere messa al centro dai cambiamenti di natura epocale che il mondo della produzione sta vivendo, trasformandosi nel laboratorio per nuove unità di misura del lavoro e originali forme di valore. Duttile, cognitiva, molteplice: è la nuova misura elaborata e raffinata in questi anni dal mondo dell`accademia, che ci pone di fronte a un’inedita centralità dell`università. Piuttosto che una «torre d’avorio» essa è capace di dislocare, in nuovi e originali terreni sociali, modelli di valorizzazione e reti della produzione economica oltre i confini e i perimetri già dati, come una nuova frontiera ancora tutta da esplorare.

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1. NdR: Definizione di Impact Factor (http://en.wikipedia.org/wiki/Impact_factor)

In any given year, the impact factor of a journal is the average number of citations received per paper published in that journal during the two preceding years.[1] For example, if a journal has an impact factor of 3 in 2008, then its papers published in 2006 and 2007 received 3 citations each on average in 2008. The 2008 impact factor of a journal would be calculated as follows:

2008 impact factor = A/B.

where:

A = the number of times that all items published in that journal in 2006 and 2007 were cited by indexed publications during 2008.

B = the total number of “citable items” published by that journal in 2006 and 2007. (“Citable items” for this calculation are usually articles, reviews, proceedings, or notes; not editorials or letters to the editor).

(Note that 2008 impact factors are actually published in 2009; they cannot be calculated until all of the 2008 publications have been processed by the indexing agency.)

*tratto da roars.it

 

Dinamo Press
09 06 2015

Dalla Turchia l'analisi della delegazione italiana degli osservatori per le elezioni. Un risultato importante per l'HDP e per la sinistra turca, una batosta per Erdogan, nonostante i tentativi di brogli

La delegazione di osservatori italiani presente ad Amed (Diyarbakir) viene inviata nei distretti diBitlis e di Bingol. Il nostro gruppo, composto da 6 persone, parte alla volta del distretto di Bitlis, insieme ad un gruppodi osservatori tedeschi. In tutto 14 persone, tra le quali una deputata dei Grünen ed una della Linkedella regione dell'Assia.

Alloggiamo a Tatvan, una cittadina a vocazione turistica sulla sponda ovest del lago di Van,amministrata da una giunta dell'AKP (il partito di Erdogan). Il territorio circostante è prevalentemente montuoso e rurale, basato sull'allevamento di ovini e bovini e su un' agricoltura ad uso domestico.

I piccoli villaggi dei dintorni si caratterizzano anche per la presenza dei cosiddetti “Guardiani del Villaggio”, personaggi al soldo del governo deputati al controllo capillare del territorio che, durante i periodi elettorali, hanno il compito di orientare il voto degli abitanti. In questa zona si segnalano dunque delle criticità e rischi di condizionamenti e di violazioni delle norme elettorali in ragione delle quali si rende necessaria la presenza, accanto ai rappresentanti dell'HDP, degli osservatori internazionali.

Divisi in tre gruppi e accompagnati da interpreti, legali e rappresentanti del partito, abbiamo visitato in tutto una quarantina di seggi. Tutti presidiati dai militari e dai guardiani del villaggio ad eccezione di due seggi nella zona di Hizan, ove abbiamo riscontrato l'anomala presenza di soggetti armati appartenenti ad agenzie di sicurezza private.

In generale le operazioni di voto si sono svolte senza particolari problemi. Le delegazioni sono state accolte dai presidenti di seggio e in molti casi ci è stato possibile documentare le operazioni di voto e assistere alle verifiche delle procedure da parte dei legali e dei rappresentanti del partito. In qualche caso è stato necessario un intervento più deciso ad evitare violazioni piuttosto smaccate, come la doppia presenza di rappresentanti dell'AKP in un seggio oppure “l'accompagnamento personalizzato” dei votanti in cabina da parte di una scrutatrice che si giustificava sostenendo di essere stata autorizzata dai militari. Breve ma intensa discussione con intervento dei soldati a calmare gli animi e risoluzione del problema. Altro caso di irregolarità ancora più disinvolto l'abbiamo riscontrato in un seggio dove, prima del nostro arrivo, si procedeva a “votazioni collettive” con ingresso a gruppi nella cabina elettorale (…). Anche qui la presenza della delegazione e l'intervento deciso dei legali ha potuto ripristinare la regolarità delle operazioni.

Già nel primo pomeriggio la percentuale dei votanti era molto alta ed allineata all'86% del dato nazionale. Al termine dello spoglio il risultato dell'HDP si attesatava al 75% analogo dunque a quello di molti dei distretti della regione Kurda.

Poco dopo la chiusura dei seggi la Amed News Agency, agenzia indipendente di Diyarbakir, batteva la notizia, ripresa e confermata dai social media turchi, di auto senza targa che un po' dovunque nell'intero territorio nazionale rubavano le urne con le schede elettorali già scrutinate e dirette ai centri istituzionali di raccolta. Dunque nelle ore immediatamente successive alla chiusura dei seggi, si percepiva una grande attesa e una certa tensione diffusa per la possibilità di manipolazione fraudolenta dei risultai ma poi, al diffondersi dei parziali che davano fin da subito l'HDP oltre l'11% e dunque al di sopra della soglia del 10%, la tensione via via si trasformava nella sensazione di una vittoria imminente e indiscutibile. In serata il dato dell'HDP superava anche le previsioni più ottimistiche dello stesso partito arrivando addirittura al 13% con i voti dei turchi all'estero. Un risultato storico, una vittoria ottenuta nonostante gli attacchi alle sedi del partito, all'omicidio del militante di Bingol ed alla strage infame del 5 giugno ad Amed. Per la prima volta nel parlamento turco siederanno 78 deputati a rappresentanza di una sinistra fortemente orientata all'ideologia del confederalismo democratico promossa dalle formazioni kurde in Rojava e nelle altre regioni del Kurdistan. Ora ci si aspetta, visto anche il significativo ridimensionamento del partito di Erdogan che scende al 40,8% e vede sconfitte le sue politiche di guerra e discriminazione, la ripresa del processo di pace, la liberazione di Ocalan e, con l'urgenza dovuta, l'apertura del confine con il Rojava.

Amed, dove abbiamo vissuto la paura della bomba, il dolore per i lutti, il coraggio e la fierezza della popolazione che ogni volta risponde e che non si è mai piegata durante quasi un secolo di persecuzioni, la sera e la notte del 7 giugno è esplosa di gioia in tutti i suoi quartieri nonostante l'HDP avesse invitato al silenzio e alla sobrietà in memoria delle vittime della strage. Impossibile trattenere il flusso di emozioni che, nel volgere di 48 ore, dalla rabbia e dall'odio verso gli assassini di stato si è trasformato in un'onda incontenibile di felicità collettiva.

La nuova bolla

Dinamo Press
08 06 2015

Demistificare i numeri, combattere il Jobs Act, costruire il sindacalismo sociale

Poco dopo la tornata elettorale, che ha avuto come protagonisti l'astensione e il naufragio del Partito della Nazione, arrivano i numeri tanto attesi: il rapporto ISTAT indica, nel mese di aprile, una lieve riduzione della disoccupazione (0,2%), e soprattutto di quella giovanile (che comunque supera il 40%). Se letti con maggiore attenzione, e raffrontati a quelli raccolti nelle ultime settimane, emerge un quadro di gran lunga diverso. È urgente dunque un'opera di demistificazione, capace di cogliere la verità del processo in atto e di indicare – a un'iniziativa di movimento che non si rassegna alla marginalità – i punti di attacco. Ciò che proviamo a fare nel breve testo che segue.

1. Il Jobs Act è la quinta riforma del mercato del lavoro realizzata in Italia negli ultimi quattro anni, anni segnati dalla più grave crisi economica e occupazionale del secondo dopo guerra. Ispirata al modello tedesco, e fortemente voluta dalla Commmissione Europea e dalla BCE (ricordate la famosa lettera del 5 agosto del 2011?), è dichiarata come la vera priorità da attuare dal governo Renzi, costantemente elogiata dalla governance globale (FMI in testa) e dalla stampa tutta (o quasi) per i risultati ottenuti. I dati diffusi dal ministero del Lavoro il 25 maggio scorso, e riguardanti l'andamento degli avviamenti, delle cessazioni e delle trasformazioni dei contratti di lavoro nel mese di aprile 2015, non ratificano di certo la “primavera dell'occupazione”. Dovrebbero essere analizzati, piuttosto, come il segno di una vera e propria “bolla occupazionale”, che sta prendendo forma nel mercato del lavoro italico.

E' evidente, infatti, che il leggero aumento (il saldo positivo è di 7 mila rispetto alla differenza tra avviamenti e cessazioni nel mese di aprile 2014) è l'esito della corsa delle imprese per assicurarsi incentivi fiscali e decontribuzione – 8.060 euro all'anno, per ogni lavoratore e per tre anni – prima che finisca il miliardo e 900 milioni disponibile dal 1 gennaio e previsto per il 2015 dalla Legge di stabilità. Con l'entrata in vigore, il 7 marzo, del decreto legislativo n. 23/2015 che ha dato attuazione alla delega, viene istituito il contratto a tutele crescenti, che trasforma la libertà di licenziare per le imprese in indennizzo economico, neutralizzando quel poco che rimaneva, dopo la Legge Fornero, della possibilità di reintegra. Con il sostegno dei più grandi gruppi editoriali (Ad aprile 210 mila contratti in più – Corriere della Sera, 26 maggio), di Confindustria e del Governatore della Banca d'Italia, si cerca di far passare il nuovo contratto come protagonista assoluto dell'inversione di tendenza nella crisi occupazionale italiana, segnata, come sappiamo, da tassi di disoccupazione sempre più drammatici.

Se osserviamo il saldo dello scorso aprile, scopriamo che i contratti sono più di 203 mila. Inoltre l'attenzione sulla dinamica del mercato del lavoro dipendente e parasubordinato, attraverso l'analisi dei dati amministrativi del sistema informativo delle Comunicazioni Obbligatorie, si sofferma sulla diminuzione dell'apprendistato e delle collaborazioni, in verità minima, valorizzando la crescita dei contratti a tempo indeterminato, forma maggiormente incentivata e conveniente. Della giungla degli oltre 475 mila contratti a tempo determinato – tipologia che continua a essere dominante nelle attivazioni con oltre 6 contratti su 10 – non si pubblicano e analizzano gli indici di flessibilità/precarietà, che corrispondono alla media dei contratti attivati per lavoratore. Tali dati ci farebbero scoprire, come avvenuto negli ultimi tre anni, una maggiore discontinuità nei rapporti di lavoro, indicando un aumento delle attivazioni di brevissima durata, ma anche delle posizioni plurime con orari di lavoro ridotti. Negli ultimi anni di crisi, infatti, oltre 4 contratti a tempo determinato su 10 hanno avuto una durata inferiore a un mese, per soddisfare esigenze temporanee, di pochi giorni, nei settori della sanità, dell'istruzione, degli alberghi e dei ristoranti.

La liberalizzazione attuata dalla Legge Poletti ha istituzionalizzato l'intermittenza contrattuale e la condizione precaria, condizione che sta alla base delle difficoltà di molti a metter su un salario dignitoso, al di sopra della soglia di povertà. E proprio da coloro che vivono in un regime di working poor, d'altronde, si ottiene la disponibilità ad accettare un lavoro purché sia. Una temporaneità dimostrata dall'aumento delle cessazioni di 31.736 unità, sopratutto nel lavoro dipendente a tempo determinato: il silenzio su questi dati, neanche a dirlo, è trasversale. Un sistema “drogato” dunque attraverso gli sgravi contributivi previsti dalla Legge di stabilità, i bonus occupazionali e i tirocini attivati grazie ai fondi del programma europeo Garanzia Giovani che vanno a implementare le altre forme di incentivi e agevolazioni esistenti nella normativa nazionale, regionale e degli avvisi regionali/provinciali a valere sui fondi FSE/FESR 2007-2013, FSE/FESR 2014-2020, e sui fondi di bilancio regionale/provinciale. I destinatari di questi ultimi incentivi sono i giovani, le donne, i lavoratori over 50, i lavoratori in CIGS o in mobilità, i lavoratori svantaggiati. Un ingente flusso di fondi che costituisce l'asse portante del sistema di politiche di attivazione in Europa, improntate a «rendere le transizioni convenienti» nei «mercati del lavoro transitori» (SPO 2020). In sostanza la governance macroeconomica, strettamente connessa alla governance del mercato del lavoro, indica nei processi di precarizzazione e nelle fluttuazioni permanenti tra disoccupazione e «occupabilità» l'elemento centrale per uscire dalla crisi, rilanciare competitività, produttività e occupazione.

Ma cosa accadrà quando le “iniezioni” finiranno? Non è difficile immaginarlo, vista la facilità con cui le imprese possono licenziare attraverso la totale flessibilità in uscita. Gli incentivi sono a termine e il contratto a tutele crescenti si scoprirà per quello che è realmente: un'altra modalità di assumere in maniera temporanea, che ha alla base un ricatto costante e uno sfruttamento intensivo della forza-lavoro, per di più finanziando le imprese attraverso risorse pubbliche. L'incremento di 16.739 mila trasformazioni di contratti dal tempo determinato all'indeterminato, in questo senso, è una magra consolazione per il ministro Poletti: non si tratta di «contratti stabili», né riducono la precarietà sociale e lavorativa di milioni di soggetti.

2. La seconda gamba del Jobs Act è rappresentata dalla delega per il riordino del sistema degli ammortizzatori sociali che doveva praticare, nelle intenzioni del Governo, «l'universalizzazione delle tutele», incrementando le inique prestazioni di sostegno al reddito in caso di disoccupazione, applicando i principi della Flexsecurity indicati dalle strategie europee dell'occupazione degli ultimi quindici anni e dagli orientamenti integrati «per la crescita, l’occupazione e la coesione sociale» previsti dalla Strategia Europea 2020, lanciata dalla Commissione Europea. Obiettivo dichiarato: una maggiore flessibilità in entrata e in uscita nella gestione dei rapporti di lavoro, in cambio dell'ampliamento delle forme di sicurezza del reddito, attraverso un nuovo sistema di ammortizzatori sociali.

Il decreto legislativo n. 22/2015 (Disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati) disciplina una sola prestazione di disoccupazione per i lavoratori dipendenti non estende, come dichiarato negli obiettivi della riforma, l'Assicurazione Sociale per l'Impiego, né ai parasubordinati né ai lavoratori autonomi. La NASpI, a decorrere dal 1 maggio, estendendo la platea dei potenziali beneficiari con requisiti di accesso meno stringenti dell'ASpI, penalizza sia per la durata che per la prestazione economica erogata i lavoratori dipendenti che hanno una storia contributiva e lavorativa intermittente, come ad esempio i dipendenti a termine, caratterizzati spesso da carriere molto frammentate con frequenti entrate e uscite dalla disoccupazione. Un esempio in questo senso, balzato agli onori delle cronache, è il dimezzamento dell'indennità di disoccupazione, con l'introduzione della NASpI, denunciato dai lavoratori stagionali turistici: oltre 300 mila in Italia tra camerieri, baristi, cuochi, pizzaioli, bagnini, ecc.

La delega indicava come obiettivo l'estensione dell'Assicurazione Sociale per l'Impiego (ASpI) anche ai lavoratori con contratto di Collaborazione Coordinata e Continuativa (Co.Co.Co.) e a Progetto (Co.Co.Pro.). Le dichiarazioni di Renzi furono chiare al riguardo: «dare diritti a chi non ne aveva mai avuti, ponendo fine alla vergognosa esclusione dei parasubordinati dalle misure di sostegno al reddito». Il decreto attuativo istituisce la DIS-COLL in relazione agli eventi di disoccupazione verificatisi a decorrere dal 1° gennaio 2015 e sino al 31 dicembre 2015. Nella realtà dei fatti, ha prevalso l'opzione della prestazione specifica per i lavoratori parasubordinati, con l'introduzione di una misura sperimentale per il 2015 e un finanziamento di 230 milioni di euro. La prestazione di tutela del reddito è prevista soltanto nel 2015, poiché nella legge delega si prevede il superamento dei contratti di collaborazione. Ma nel riordino delle nuove tipologie contrattuali, così come indicato nello schema di Dlgs in approvazione nel mese di Giugno, vengono eliminati i Co.Co.Pro, ma non le Collaborazioni Coordinate e Continuative. Questo significa che per il 2016 non è previsto nessun ammortizzatore sociale per i parasubordinati iscritti alla Gestione separata, nonostante versino annualmente migliaia di euro di contributi all'INPS, per di più in una cassa in attivo.

Il legislatore italico ha sempre escluso questa categoria dalla possibilità, sempre ammessa a parole, di estendere l'indennità di disoccupazione prevista per i lavoratori subordinati. Nel 2008 fu introdotto un trattamento di sostegno al reddito, caratterizzato dall'essere una tantum e non una prestazione continuativa. La Legge Fornero ha confermato l'impostazione precedente, modificandone in parte i requisiti e il calcolo dell'ammontare. Ma l'efficacia della prestazione, sin dall'introduzione, è stata limitata dai numerosi e restrittivi requisiti d'accesso, lasciando fuori dalla tutela la generalità dei lavoratori che si dichiarava di voler sostenere nei periodi di non occupazione. Nella DIS-COLL, targata Jobs Act, non sono più presenti il requisito della monocommittenza e i limiti di reddito dell'anno precedente. La prestazione, pur diventando continuativa, a differenza della precedente una tantum, dura al massimo 6 mesi (un quarto della durata della NASpI) e, dati i salari e l'intermittenza dei parasubordinati, è facile prevedere che anche l'importo della DIS-COLL sarà decisamente inferiore. Inoltre tale prestazione di sostegno al reddito, come sottolineato dalle proteste del Coordinamento dei ricercatori non strutturati, esclude le figure precarie dell'università, e un’interpretazione estensiva dell’INPS di tale norma non sembra essere all’orizzonte. Tutto questo anche se le aliquote previdenziali versate alla Gestione Separata dell’INPS, da parte di tutti i parasubordinati (collaboratori e non), coincidono. Al termine della DIS-COLL, i parasubordinati non beneficeranno di ulteriori sei mesi di assegno di disoccupazione (ASDI), come invece succederà nel caso dei lavoratori dipendenti se ancora disoccupati. Quest'ultima prestazione, istituita dal decreto attuativo a decorre dal 1 maggio è inedita per l'ordinamento italiano: simile alla prestazione tedesca Arbeitslosengeld II, non appartiene al sistema di assicurazione sociale per l'impiego, ma è finanziata dalla fiscalità generale, si tratta di una prestazione sperimentale per il 2015 con un limitato stanziamento di 200 milioni di euro.

Vale la pena sottolineare, inoltre, che nonostante siano uscite le due circolari INPS riferite alla DIS-COLL e alla NASpI, rispettivamente Circolare n. 83 del 27 Aprile 2015 e Circolare n. 94 del 12 maggio 2015, la situazione è ancora completamente bloccata per evidenti ritardi e inadempienze procedurali dell'INPS. La mancanza di procedure interne per trattare le domande e iniziare l'istruttoria genera un vuoto temporale nell'erogazione che può durare anche diversi mesi. L'adeguamento da parte dell'INPS dei cosiddetti «flussi amministrativi e procedurali» (relazione programmatica INPS 2016-2018) paralizza le vite di migliaia di beneficiari delle prestazioni di sostegno reddito, nell'impossibilità di poter lavorare con contratti di lavoro, pena la sospensione o addirittura la perdita dell'indennità. L'unica alternativa per procurarsi un reddito utile a vivere è il lavoro sommerso e irregolare (più di un occupato su 10), incrementato in maniera rilevante perché funziona da camera di compensazione delle tantissime aziende che con la crisi avrebbero chiuso. L'Italia è dunque un paese, caso quasi unico in Europa, in cui le indennità di disoccupazione non sono erogate nel periodo in cui il soggetto avente diritto e richiedente si trova in questo stato (il tempo minimo effettivo, nonostante la normativa, si aggira dai 3 ai 6 mesi fino ad arrivare anche ad 8 mesi dalla richiesta, su questo non esistono dati ufficiali).

3. Cosa succederà ancora? Non è difficile intuirlo. Dopo il contratto a termine senza causale, quello a tutele crescenti, governo e imprese hanno un obiettivo preciso: eliminare il contratto nazionale collettivo. La rottura FIAT – FCA ha aperto il varco, Confindustria si accoda. In sostanza, un nuovo e radicale attacco al salario, oltre che al potere di coalizione. Con i contratti nazionali, infatti, salta la contrattazione sulla paga base, sostituita da un salario minimo legale. La fissazione di un salario minimo europeo, capace di contrastare il dumping che attraversa il continente, è pretesa irrinunciabile, intendiamoci. Ma il salario minimo in salsa Renzi, invece, potrebbe rivelarsi un disastro, un nuovo regalo ai datori. Altrettanto: non possiamo che vedere di buon occhio la marginalizzazione dei sindacati confederali, vera e propria iattura che ha impedito negli ultimi anni l'esplosione di un movimento trasversale contro le politiche di austerity; cosa diversa è pensare che la contrattazione aziendale, con peggiorative regole sulla rappresentanza (vedi le battute di Renzi sul sindacato unico), possa mettere in salvo le figure del lavoro precario e più ricattato.

Dal salario, al diritto di coalizione, fino al diritto di sciopero: questi sono gli obiettivi dell'offensiva neoliberale in corso, in Italia come in Europa. La nuova Legge tedesca contro il diritto di sciopero, fortemente voluta dalla SPD, è un esempio che potrebbe essere ripreso e seguito con zelo anche nel Bel Paese. Di certo a Renzi & co non manca la ferocia padronale. Come ha detto Marchionne, visitando con il premier gli stabilimenti di Melfi: «Renzi è come me, cattivo e determinato».

Eppure, di fronte a un'offensiva senza precedenti, non sono mancate e non mancano le resistenze. L'ultima, di certo non per importanza, quella che vede la scuola tutta, dagli insegnanti precari e di ruolo agli studenti, battersi contro il governo e la sua riforma. Così come di grande rilievo è stato l'esperimento di sciopero sociale dello scorso autunno. Il problema delle pratiche, infatti, non può che farsi decisivo: in che modo rendere nuovamente efficace lo sciopero se non estendendolo alle figure che non possono scioperare o che, almeno nella forma, eccedono il lavoro di tipo subordinato? Così come decisivo è l'intreccio delle istanze programmatiche: è possibile separare la battaglia per il reddito di base, incondizionato e garantito dalla fiscalità generale, dalla riduzione dell'orario di lavoro? Si può efficacemente tutelare il lavoro autonomo e professionale senza difendere quello precario e lottare contro sotto-occupazione e lavoro gratuito? In questo senso, già a partire dal mese di giugno e passando per la mobilitazione promossa dalla “Coalizione 27 febbraio”, è necessario avviare una campagna di conflitto sugli ammortizzatori sociali, sul reddito di base e sull'estensione universale del welfare. Infine, la dimensione organizzativa: senza una pluralità di laboratori territoriali, di leghe, di coalizioni sociali, sarà impossibile ricomporre le resistenze, che pure ci sono, e generalizzarle. Questo sforzo organizzativo, che guarda nella direzione costituente di un inedito sindacalismo sociale, un multiverso sindacale capace di combinare conflitto e mutualismo, vertenze e cooperazione alternativa... questo sforzo deve essere fatto adesso. Con generosità, dedizione paziente, spirito collaborativo, mettendo da parte una volta per tutte perimetri, identità, ethos tribale. A breve, considerando gli smottamenti in Europa, oltre che in Italia, potrebbe essere troppo tardi.

Le mani sull’accoglienza

Dinamo Press
08 06 2015

"Se mi dai cento persone facciamo un euro a persona". Nelle intercettazioni dell'inchiesta di Mafia Capitale il "prezzario" delle vite dei migranti. Il sistema corruttivo di Buzzi, Carminati e Odevaine si estedeva oltre i confini della Capitale.

Delle quattrocentoventotto pagine che compongono l’ordinanza firmata dal Giudice per le Indagini Preliminari della Procura di Roma, Flavia Costantini, relativa alla seconda trance dell’inchiesta “mafia capitale”, più di un centinaio sono quelle dedicate alle “corruzioni nella gestione dei centri di accoglienza dei richiedenti asilo”. Come è noto il personaggio chiave è Luca Odevaine, al secondo arresto dopo quello dello scorso ottobre, il potentissimo funzionario di “comprovato inserimento nel sistema politico/burocratico romano e conseguente rete di conoscenze e entrature a ogni livello” scrivono di lui i carabinieri del Ros nell’informativa alla base dell’inchiesta, ipotizzando i reati di corruzione e di turbativa d’asta, rivelando come Odevaine “abbia agito in spregio ad ogni principio di fedeltà e di buona amministrazione che dovrebbe condurre la sua opera”, mettendo in essere “accordi di natura corruttiva con esponenti del gruppo imprenditoriale La Cascina. Non solo. Nelle carte dell’inchiesta ci si sofferma, in particolare, sul ruolo istituzionale detenuto dal funzionario sottolineando come egli “non provi alcun senso di disagio per i propri comportamenti riprovevoli, che antepongono l’interesse personale e quello degli imprenditori che lo corrompono, alle esigenze umanitarie sottese alle decisioni”.

Insomma, secondo i giudici dell’antimafia romana sono proprio le funzioni ricoperte da Odevaine al tavolo di coordinamento nazionale sull’accoglienza per i richiedenti e titolari di protezione internazionale e quale componente di tre commissioni di gara pubblica per l’aggiudicazione dei servizi di gestione del CARA di Mineo a fare di lui il perno di un sistema corruttivo, in spregio totale alle esigenze delle persone richiedenti protezione internazionale. È lo stesso Luca Odevaine a rivelare in una intercettazione telefonica allegata agli atti il criterio di calcolo delle tangenti dovute in base al numero di immigrati ospitati nei centri. Il prezzo per ogni migrante accolto, perché di questo si tratta. Così dice al telefono ad un imprenditore spiegando il sistema: “possiamo pure quantificare, guarda. Se me ... me dai cento persone facciamo un euro a persona” arrivando così a prospettare un vero e proprio tariffario per ogni migrante ospitato. È sempre lo stesso alto funzionario, in un colloquio intercettato con i manager della Cascina negli uffici della sua Fondazione Idea – Azione a spiegare le “sue particolari esigenze” in qualche modo connesse al ruolo istituzionale rivestito: si discute dell’appalto dell’affidamento dei servizi per il centro di accoglienza di Mineo, il più grande Cara esistente in Europa ed Odevaine rivela: “io questa volta, una volta nella vita, vorrei quantomeno non regalare le cose, insomma". E poi aggiunge: “almeno io da questa roba qua ce vorrei guadagnà uno stipendio pure pe me”.

Lo schema del sistema corruttivo è unico e sembra valere - a leggere le carte dell’inchiesta - per diversi appalti sull’accoglienza, in varie parti d’Italia. “Un tanto a persona, per le persone, per i nuovi centri che gli stiamo attivando in questi giorni” è ancora Odevaine, intercettato, a spiegare il tariffario agli imprenditori, per se stesso, e per il sistema di potere criminale a cui egli appare connesso. Sulla pelle dei rifugiati, naturalmente. “Sarebbe meglio stabilire una cifra a persona, più che sugli utili, perchè se poi dopo calano” ( i rifugiati si intende).

Odevaine riceveva dai manager Cammisa, Ferrara, Menolascina e Parabita esponenti dei soggetti economici interessati alle vicende amministrative (gruppo La Cascina) la promessa di una retribuzione di 10.000 euro mensili, aumentata a euro 20.000 mensili dopo l’aggiudicazione del bando di gara del 7 aprile 2014, per la vendita della sua funzione e per il compimento di atti contrari ai doveri del suo ufficio in violazione dei doveri d’imparzialità della pubblica amministrazione, lo certificano i giudici nell’ordinanza quanto vale la vita di un migrante per il sistema mafia capitale, e lo ammette ancora lo stesso funzionario, sempre in un’intercettazione: “Perché sai, comunque sia, tra quelli lì che gli ho dato adesso in Sicilia, se riesco a fargli prendere questi di Roma, Castelnuovo di Porto e questi altri, alla fine sò quasi un migliaio di ... di posti, 1000 posti sò 1000 euro al giorno”…

Dunque, in sostanza, secondo la Procura di Roma guidata da Giuseppe Pignatone sarebbero state truccate le gare per la gestione dei servizi presso il centro d’accoglienza per i richiedenti asilo di Mineo, per il centro di accoglienza di San Giuliano di Puglia e per il c.a.r.a. di Castelnuovo di Porto, gara, quest’ultima, indetta dalla Prefettura di Roma il 30 giugno 2014. È sempre Luca Odevaine a spiegare il sistema alla base della turbativa: “Stando a questo tavolo nazionale e avendo questa relazione continua con il Ministero” dice: “sono in grado un pò di orientare i flussi che da Mineo vengono smistati in giro per l'Italia, per cui un poco a Roma, un poco nel resto d'Italia ... se loro c'hanno strutture che possono essere adibite a centri per l'accoglienza da attivare subito in emergenza, senza gara, le strutture disponibili vengono occupate e io insomma gli faccio avere parecchio lavoro”.

Ecco spiegato, dunque, a cosa servono le retoriche dell’emergenza: a lucrare e speculare sulla vita delle stesse persone che si ha il dovere di accogliere, degnamente.

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