DINAMO PRESS

DinamoPress
12 05 2015

Da ieri pomeriggio centinaia di persone vivono in mezzo alla strada, senza nessun servizio e risposta alla loro esigenze e diritti. Lo sgombero del borghetto di via delle Messi d'Oro, zona Ponte Mammolo, di cui le istituzioni hanno ignorato l'esistenza per dieci anni, ha peggiorato l'emergenza invece di migliorare la situazione. Non è stato un successo, come racconta oggi a mezzo stampa l'assessore alle Politiche Sociali di Roma Capitale Francesca Danese. E se anche l'Unchr ha alzato dubbi e perplessità su quanto accaduto, vista la violenza e il mancato preavviso con il quale è stata condotta l'operazione, ci aspettavamo una maggiore sensibilità da chi, per esperienza e percorso di vita, sa bene di cosa parliamo.

L'unica solidarietà ricevuta dai migranti in strada è giunta dai movimenti per il diritto all'abitare, dalle reti antirazziste, dalle associazioni che si occupano della tutela dei diritti umani. Quello che abbiamo registrato da ieri mattina ad ora, stando lì sul posto ad offrire volontariamente ogni tipo di aiuto, è un disastro politico e sociale prodotto da una giunta di centrosinistra al volante delle ruspe tanto invocate da Salvini. Quale legalità? Quale solidarietà? Quale giustizia sociale?

"Ieri - ha affermato Danese - l'assessorato era presente sul luogo con delle unità mandate tutelare e a sorvegliare l'operazione". Lei stessa avrebbe fermato le ruspe per ben due volte per permettere alle persone di racimolare in fretta e furia quel poco che avevano. E' vero: erano presenti delle persone, ma totalmente ignare di tutto, nemmeno in grado di fornire risposte ai cittadini che chiedevano informazioni e dove sarebbero state trasportate le persone. Abbiamo visto i responsabili del IV municipio, presidente e assessore alle Politiche Sociali, incapaci di prendere una posizione, farsi scortare dalle forze dell'ordine per non rispondere alle domande di chi chiedeva conto di quanto stesse accadendo.

Il piano prevedeva di trasferire tutti i regolari nei vari centri d'accoglienza di zona (già stracolmi),e ignorare completamente le esigenze dei così detti transitanti (perché di fatto irregolari e senza nessun diritto). Ancora oggi siamo noi con le associazioni territoriali a portare loro acqua e cibo. Ancora noi siamo andati questa notte a monitorare la situazione e a garantirne la sicurezza. Le istituzioni tacciono, o parlano per rivendicare un grande successo che in realtà è una piccola catastrofe umanitaria.

Chiediamo alle istituzioni di metterci la faccia, di dare risposte di assumersi pienamente la responsabilità di quando accaduto. L'amministrazione vuole trovare una nuova strada per la gestione dell'accoglienza? Ecco, quanto accaduto ieri non è sicuramente un buon inizio.

In fine, ci sentiamo solo di fare un piccolo appunto all'assessore Danese,ricordandole che anche non avere più nulla da un giorno all'altro, rende la vita molto dura. Specialmente se si tratta di diritti e di quei pochi legami sociali spezzati in pochi minuti dalla violenza delle ruspe.

Resistenze Meticce
 

Sgomberato SCUP, tutti in via Nola!

Dinamo Press
07 05 2015

In corso lo sgombero dello spazio, ruspe e operai all'interno stanno radendo al suolo l'edificio. Attivisti in presidio al di fuori dei cancelli. Lanciata conferenza stampa ore 11,30.

In mattinata, alle prime luci dell'alba, l'intervento dei carabinieri nello spazio occupato in via Nola, quartiere San Giovanni. Numerosi blidati e automezzi hanno circondato lo stabile e hanno eseguito lo sgombero. Attualmente all'interno dello stabile sono presenti due ruspe e una squadra di operai che stanno demolendo l'edificio. Già rasa al suolo la palestra e l'ingresso principale dello stabile. Alle 11,30 è stata convocata una conferenza stampa.

Fuori dallo spazio è in corso un blocco stradale da parte degli attivisti del centro sociale e della Rete per il Diritto alla Città.

Dinamopress
06 05 2015

Lo scorso 24 aprile, sotto la sede dell'INPS a Roma la Coalizione 27Febbraio ha promosso uno speaker's corner molto partecipato per rivendicare un'equita' fiscale e contributiva, l'estensione universale degli ammortizzatori sociali e l'introduzione di un reddito minimo. . L'ampia partecipazione alla mobilitazione e la presenza contemporanea di un presidio alla sede INPS di Padova, ha avuto come esito un incontro con il Presidente dell'INPS Boeri durante il quale sono state esposte le rivendicazioni della piattaforma.

In particolare, la delegazione ha fortemente insistito con Boeri per l'estensione del neo ammortizzatore DIS-COLL, introdotto con il Jobs Act, anche alle figure precarie che lavorano all'interno delle Universita': assegnisti di ricerca, dottorandi e specializzandi in medicina. In particolare, sono state elencate tutte le contraddizioni che emergono da questa esclusione ad hoc del comparto ricerca dalla platea dei beneficiari della DIS-COLL. Prima fra tutte l'iscrizione e il versamento dei contributi previdenziali (con la stessa aliquota!) alla Gestione Separata, esattamente come i collaboratori coordinati e continuativi e a progetto i quali invece, per loro fortuna, beneficieranno della DIS-COLL. La rispostadi Boeri, raggelante e imbarazzante, e' stata: "Noi non possiamo fare nulla, la DIS-COLL e' un ammortizzatore sociale per i lavoratori. E voi non lavorate!"...

Questa risposta, che ha dell'incredibile, svela in realta' qual e' la percezione in questo paese del lavoro svolto dalle figure precarie della ricerca: per la legge ancora studenti in formazione, per l'accademia figure lavorative a tutti gli effetti, le cui attività vengono messe direttamente a valore e per i quali la corsa sfrenata alle pubblicazioni, alla stesura dei progetti, alla raccolta punti da curriculum sotto il ricatto della valutazione è identica alle figure strutturate dell'accademia, se non peggio. La condizione di ricattabilita' perenne causata dal definanziamento storico, dal blocco del reclutamento e dalla gestione verticale dall'alto dei pochi spiccioli rimasti, costringe assegnisti e dottorandi a svolgere mansioni che non spetterebbero loro. Dallo svolgere servizi di segreteria amministrativa, a tenere lezioni al posto del titolare della cattedra, al fare esami, ad assistere gli studenti nelle ore di laboratorio.

Mansioni di cui ormai le Universita', prossime al collasso, non possono fare a meno. Tanto e' vero che dall'anno prossimo, i Professori a contratto ("titolo" con cui si cerca di retribuire l'assegnista di turno che per 800 euro all'anno tiene un insegnamento all'interno di un corso di laurea) saranno conteggiati come personale strutturato ai fini dell'accreditamento dei corsi di laurea (!). Senza contare che i lavori di ricerca compiuti dai ricercatori precari vengono utilizzati ai fini dell'ossessione valutativa che sta trasformando radicalmente le Universita': sono ovvero messi a valore dalle amministrazioni degli atenei con lo scopo di aumentare la propria porzione del fondo premiale. Inoltre, in alcuni ambiti, i risultati delle ricerche vengono immediatamente sfruttatieconomicamente da soggetti extra-accademici, che, a questo punto, trarrebbero profitto dal nostro non-lavoro. Tutto ciò farebbe quasi ridere, se la situazione non stessa diventando sempre più preoccupante.

Inutile dire che lo statuto giuridico di non lavoratori a cui si è appigliato Boeri insieme alla convinzione generalizzata che i ricercatori siano delle figure privilegiate che possano permettersi ancora di studiare, sono la causa principale della diffusione del lavoro gratuito all'interno delle Universita'. Un lavoro che spesso viene svolto nell'ambito della cosiddetta "economia della promessa" che alimenta ed ha alimentato le speranze di migliaia di ricercatori precari, puntualmente espulsi dal sistema. Spesso inoltre, le attività svolte gratuitamente all'interno delle Universita' viene "retribuito" con la moneta del curriculum, con la perenne ed inesauribile "formazione", necessaria per poter poi diventare Professore, in un futuro che non arrivera' mai.. Ed e' proprio questo uno dei nodi centrali della questione: i dottorandi non vengono considerati lavoratori in quanto "studenti di dottorato", mentre gli assegni sono dei "contratti di formazione". E' chiaro come attraverso il divenire moneta della formazione, soprattutto in questi anni di politiche sull'istruzione fondate sulla "formazione permanente", si è cercato di rendere eticamente legittima la frontiera più avanzata dello sfruttamento: il lavoro gratuito appunto. Allo stesso tempo, una delle motivazioni alla base delle esclusione dei precari della ricerca dalla platea di beneficiari della DIS-COLL consiste nel dipingere queste figure lavorative come dei giovani fortunati che hanno la possibilità di dedicarsi all'attività che desiderano, come se fosse una colpa quella di voler scegliere il proprio lavoro.

E' ora di decostruire questa narrazione strumentale del lavoro di ricerca che ogni giorno viene portato avanti dagli atenei dai ricercatori precari che di fatto contribuiscono in maniera sostanziale alle attività dell'Università e senza i quali, con buona probabilità, il meccanismo dell'accademia italiana si incepperebbe. E forse solo sottraendoci dalle mansioni che non ci competono e sprattutto evidenziando che la promozione e la diffusione delle nostre conoscenze sono già di per sè un'attività lavorativa che deve beneficiare delle medesime tutele di tutti gli altri lavoratori, che riusciremo a cambiare il futuro delle figure precarie nel mondo della ricerca Per questo pensiamo che sul tema degli ammortizzatori sociali sia più che mai cruciale in questo momento, nel solco individuato dal processo dello sciopero sociale, e della Coalizione 27Febbraio, mettere in piedi un intervento politico che sia in grado di ricomporre in primo luogo il comparto della ricerca e, successivamente, tutte quelle figure che quotidianamente vivono l'apartheid del welfare.

Dinamo Press
04 05 2015

Ieri sera almeno 46 persone sono rimaste ferite durante gli scontri con la polizia in Piazza Rabin a Tel Aviv. Almeno 15 manifestanti ebrei etiopi sono stati arrestati.

Sono almeno 46 i feriti degli scontri divampati durante la manifestazione di protesta ieri sera a Tel Aviv degli ebrei etiopi (noti come Falasha) contro la violenza che subiscono dalla polizia. Gli incidenti più gravi sono avvenuti in piazza Rabin quando centinaia di giovani manifestanti hanno tentato di entrare nel palazzo del municipio. La polizia, intervenuta anche con i reparti a cavallo, ha usato il pugno di ferro. I feriti sono stati almeno 46, tra i quali, secondo la versione uficiale, alcuni poliziotti. Almeno 15 i manifestanti arrestati.

“Né bianchi né neri, solo esseri umani” avevano scandito in precedenza gli ebrei etiopi nei pressi degli uffici governativi sotto le Torri Azrieli ad un passo dalla tangenziale che entra a Tel Aviv. Alcune migliaia di persone (le autorità hanno dato cifre più basse), tra le quali numerosi attivisti per i diritti civili, hanno poi attraversato la città fino a raggiungere Piazza Rabin dove in serata sono scoppiati gli scontri con la polizia.

La rabbia dei Falasha contro “il razzismo della polizia” era riesplosa giovedì a Gerusalemme quando diverse centinaia di ebrei etiopi riuniti in Piazza Francia si erano scontrati con agenti dei reparti antisommossa. “Il nostro sangue è buono solo per le guerre”, scandivano in quella occasione i dimostranti giunti a Gerusalemme da ogni parte di Israele. Anche la scorsa settimana la manifestazione si è conclusa contro scontri violenti.

Al capo dello Stato Reuven Rivlin una delegazione Falasha, per lo più studenti universitari, giovedì aveva raccontato “le discriminazioni quotidiane” di cui gli ebrei etiopi sono vittime in Israele e denunciato con forza l’aggressione subita da un soldato di origine etiope – le immagini hanno fatto il giro della rete – duramente percosso dalla polizia. Un fatto non isolato, avevano sottolineato i delegati. Nel tentativo di calmare gli animi, il premier Benyamin Netanyahu ha fatto sapere che oggi riceverà una delegazione di esponenti della comunità, fra cui il soldato picchiato dalla polizia. Ma le proteste sembrano destinate a continuare.

Gli ebrei etiopi sono fermi ai gradini più bassi della scala sociale in Israele. Già in passato hanno denunciato le discriminazioni che subiscono e la loro pesante condizione economica. Secondo la tradizione ebraica sarebbero i frutti dell’unione tra re Salomone e la Regina di Saba. Minacciati dal governo etiope nel 1977-1979 i Falasha emigrarono verso il Sudan. Il governo di Israele quindi decise di trasportarli nel proprio territorio con un ponte aereo, in tre operazioni denominate Operazione Mosè, Operazione Giosuè ed infine Operazione Salomone.

Attualmente in Israele vivono circa 120mila Falasha che continuano ad avere difficoltà di adeguamento ad un ambiente molto diverso da quello di origine. L’integrazione e l’omologazione dei giovani è svolta dalle scuole e soprattutto dall’arruolamento nelle Forze Armate. Le autorità sono accusate di aver attuato una politica di drastica “ebraizzazione” degli etiopi secondo i canoni di Israele, ignorando la lingua e la cultura Falasha.

tratto da Nena-News.it

EXPO 2015, Aldo Grasso e il carrozzone della vergogna

Dinamo Press
04 05 2015

"I giovani non hanno più voglia di lavorare". Così Aldo Grasso, dal sito del Corriere, attaccava ieri i giovani che rifiutano un lavoro sottopagato e precario ad EXPO 2015. Centinaia di precari insultati perchè non vogliono farsi sfruttare

Leggi anche la lettera di Selene Aldo Grasso, grazie per il suo editoriale

Ci risiamo. Ogni tanto – almeno una volta ogni due mesi – politici, imprenditori e figli di papà vari si mettono a pontificare sulla disastrosa situazione che riguarda il mondo del lavoro giovanile. Parleranno dei contratti a nero? Parleranno delle false partite Iva? Parleranno della vergogna degli stage non retribuiti? Ma quando mai! Il discorso si attesta sempre sulla stessa, identica, patetica solfa: “i giovani non lavorano perché vogliono rimanere a casa con mamma e papà”, “i giovani non vogliono più fare lavori umili”, “i giovani sono tutti sfigati, choosy e bamboccioni”. Ultimo, ma non in termini d’importanza, è stato il critico Aldo Grasso ad esprimersi – dall’alto della sua carriera di critico televisivo e dei suoi migliaia di euro guadagnati al mese – sul tanto mainstream tema della famigerata “disoccupazione giovanile”. Occasione è stata la notizia, pubblicata dal Corriere della Sera, che molti ragazzi avrebbero rifiutato un posto di lavoro all’Expo 2015 pagato 1300 euro al mese. Aldo Grasso ha dichiarato: “In queste contingenze, in questo momento di crisi, è impensabile che qualcuno rifiuti un lavoro. Inutile fare del moralismo, le cose vanno così. Probabilmente c’è una generazione che non è ancora stata abituata al lavoro, anche al lavoro estivo, ma credo che dovrà imparare presto”.

Il signor Aldo Grasso probabilmente fa parte di quella schiera di persone – che, guarda caso, nella totalità dei casi detiene una posizione di potere – che ama mistificare, a beneficio d’imprenditori e classe governativa (che nell’Expo2015 ha investito tutto, anche se con scarsi risultati) la situazione lavorativa attuale, soprattutto quando si tratta dei cosiddetti “giovani”. Giovani che, purtroppo, sono abituati non solo al mondo del lavoro, ma anche a vivere le peggiori condizioni di sfruttamento possibile. Call center dove la paga è di 2,60€ l’ora, ristoranti dove si lavora in nero per 30€ a sera in turni di circa otto ore, bar situati in posti improbabili – generalmente posti chic in centro città ma sempre a nero – dove il capo ti minaccia se osi chiedere un aumento. Agenzie che non ti pagano per il lavoro da hostess/promoter e, se minacci di fare causa, loro minacciano di fallire, grandi centri commerciali dove le commesse vengono picchiate, multinazionali che ti assumono per tre mesi per 500 euro al mese, aziende che fanno falsi contratti da stage a 300€ al mese, aziende che fanno falsi contratti da stage a stipendio zero, aziende che ti fanno aprire una falsa partita Iva quando rientreresti nella tipologia del lavoro subordinato. La lista potrebbe continuare ancora per molto, ma per comodità editoriale ci fermeremo qui.

Rifiutare un lavoro da 1300 euro per Expo2015? A parte che, come riportato dalle testimonianze riportate da alcuni ragazzi che hanno partecipato alle selezioni,( leggi qui e i commenti sotto l'articolo che trovi qui) la paga non era proprio quella, ma andava a scendere di molto. Senza contare che poi, chi avrebbe avuto il “privilegio” di avere un “contratto d’apprendistato” (ma poi, apprendistato di che? Era per caso la forma contrattuale che costava di meno?) a 1300 euro al mese, avrebbe dovuto pagarsi alloggio, trasporto, e pasto tutti i giorni. E ricordiamo, nel contratto erano compresi domeniche, turni notturni e festivi. Che, in un paese civile, sono pagati il doppio di un giorno feriale.

Sinceramente siamo anche un po’ stanchi di doverci giustificare ogni qualvolta rifiutiamo le condizioni di sfruttamento imposte dal mercato del lavoro. Siamo stanchi di dovervi ricordare che ogni singolo lavoro di merda che esiste nel mondo noi l’abbiamo fatto e continuiamo a farlo. Siamo stanchi di ricordarvelo perché voi che continuate a gettare fango sulla nostra generazione di precari e di sfruttati, in realtà sapete benissimo qual è la situazione reale in cui versiamo noi “giovani”. Solo che vi conviene continuare a mistificare e a darci dei bamboccioni e dei nullafacenti perché, dalla vostra posizione di servi del potere, vi serve continuare a far credere che il mondo del lavoro sia talmente inaccessibile e che, oggi, dobbiamo accettare ogni condizione di sfruttamento ci venga imposta.

Beh, non è più così. Il segnale dato da Expo2015, il rifiuto di migliaia di giovani che non hanno voluto accettare lavori gratuiti o mal pagati, e la difficoltà che avete avuto anche solo a vendere i biglietti di questo evento che non ha nulla di accettabile, è un chiaro segnale che in migliaia hanno deciso di non sottostare più alla vostra logica di mercato che, per la vostra sopravvivenza, prevede la nostra distruzione.

Dinamo Press
20 04 2015

Gli anarchici, seppur con qualche difficoltà interna principalmente legata alla partecipazione, rimangono ad oggi il movimento più importante ed effettivo della sinistra israeliana , capaci con le loro azioni dirette di minare l'assetto propagandistico e dogmatico dello stato israeliano. Sebbene siano passati ormai 3 anni da quando Noam Sheizaf ha scritto questo articolo, abbiamo ritenuto di pubblicarlo ora perché è più che mai attuale.

Il 5 maggio prossimo, uno di questi attivisti sarà con noi al Nuovo Cinema Palazzo a Roma per discutere dell'occupazione in tutte le sue sfaccettature, che toccano sia la West Bank che Israele.

ANARCHICI, GLI ATTIVISTI PIU IMPORTANTI DELLA SINISTRA ISRAELIANA

di Noam Sheizaf

La destra israeliana ha imparato una nuova parola: “anarchici”. Il parlamentare Miri Regev ha definito i leader della protesta J14 (protesta per la giustizia sociale in Israele nel 2011, ndr) “anarchici che attivamente mettono in pericolo lo stato”. Il giornalista di economia di Canale 10, Sharon Gal, ha detto che gli attivisti erano “un tipo di anarchici”. Gli aggiornamenti e i commenti su Facebook, nei siti di notizie riflettono simili sentimenti. Tutto ciò non ha senso, ovviamente. Il movimento per la giustizia sociale è guidato dalla classe media Israeliana e, alla manifestazioni, ci sono stati molti più israeliani medi che professionisti della rivoluzione.

Ma parliamo di questi anarchici. Negli ultimi 2 o 3 anni ho viaggiato con loro molte volte per andare a varie manifestazioni in West Bank, e conoscono un buon numero di loro, per lo più membri di Anarchici contro il Muro. Non sarebbe una esagerazione per me dire che averli conosciuti ha cambiato fondamentalmente la mia visione politica.

All'inizio ero sconvolto dal modo in cui gli anarchici dessero poco rilievo a eventi che per me erano importanti, come le elezioni alla Knesset, o manifestazioni a Rabin Square. Tuttavia dopo un po' ho iniziato a capire il potere del loro attivismo politico. Un aspetto di quell'attivismo è pensare politicamente rispetto a tutte le proprie scelte di vita, quello che mangiamo, chi sfruttiamo con il nostro lavoro, e come opprimiamo gli altri. L'altro aspetto è l'impegnarsi in una continua e determinata azione politica. La loro azione non è solo una questione di manifestazioni. Gli anarchici hanno cambiato i nomi delle strade di Tel Aviv, per nominarle con strade della Hebron sotto occupazione. Hanno attaccato poster con cui condannano le azioni dei coloni contro i palestinesi, hanno restituito all'ambasciatore nord americano candelotti di lacrimogeni usati – prodotti negli USA – adoperati dall'esercito Israeliano durante cortei in West Bank.

Tutte queste sono azioni simboliche, finalizzate a suscitare consapevolezza su quanto sta venendo fatto in loro nome a solo a 20 kilometri da Tel Aviv. Il fatto che questo piccolo gruppo di persone comprende i soli israeliani ebrei che sono determinati ad opporsi all'occupazione con attivismo serio, e non solo lamentandosene in una conversazione in un cafè, o nelle pagine di Haaretz- è una fotografia poco lusinghiera della società Israeliana.

Gli anarchici non sono più di alcune dozzine, ma hanno un impatto enorme. Grazie a loro, migliaia di israeliani hanno visitato Bil'in e visto per la prima volta l'esercito israeliano dalla prospettiva con cui lo vedono i palestinesi, affrontando la canna del fucile, piuttosto che guardarlo dal grilletto, ed è una esperienza che ti cambia la prospettiva. L'esercito ha cambiato il tracciato del muro di separazione a Bil'in come risultato delle manifestazioni. Ma, fatto ancora più importante, le manifestazioni hanno portato all'attenzione di una intera generazione la consapevolezza dell'occupazione.

La lotta a Sheikh Jarrah è nata dall'attivismo degli anarchici. Anche gli attivismi per la giustizia sociale hanno imparato qualcosa da loro, e non mi sto riferendo a rompere le vetrine di una banca.

La maggior parte delle accuse rivolte agli anarchici sono bugie. Ho partecipato a decine di manifestazione e non ho mai visto uno di loro attaccare un soldato o un ufficiale di polizia. A differenza del movimento anarchico globale, gli anarchici israeliani “limitano” il loro attivismo alla disobbedienza civile e alla nonviolenza – rifiuto di servire nell'esercito, bloccare le strade, boicottaggio, detenzione volontaria. Per queste azioni pagano un caro prezzo.

Anche quando non sono d'accordo con loro e mi trovo in difficoltà con il loro dogmatismo, sono certo che sono il gruppo più importante che la sinistra israeliana abbia visto in decenni. In pochi anni, molte persone che ora gli fanno gli sberleffi diranno che li hanno sempre supportati. Come un attivista ha scritto questa settimana su Facebook, se ci fossero così tanti anarchici come gli idioti che stanno alla Knesset, ci sarebbero un bel po' meno idioti nella Knesset.

Articolo del 8 luglio 2012, tratto da www.972mag.com

*traduzione a cura di Riccardo Carraro

Elogio dell’indignazione

Dinamo Press
28 04 2015

Sto male. Sono livido di odio e di disprezzo. Non “io” sto, male, ma detto nel modo più anonimo, vorrei dar voce a un sentimento impersonale, magari di minoranza, ma che me ne frega. Ho tutte le ragioni di star male. Abbiamo, anzi, tutte le ragioni. Anche se è una passione triste, come si fa a non odiare. A non odiare quelli che “sto con Stacchio” (eccetto Stacchio medesimo, che se ne è coraggiosamente dissociato), quelli che “vengono a rubarci il lavoro”, quelli che “aiutiamoli a casa loro”, quelli che “vedi che spalle larghe hanno, facessero le guerre in Africa e in Siria”.

Ci saranno tutte le spieghe sociologiche per interpretare la guerra fra poveri e il white trash, ma sono lo stesso degni di odio. Non tutte le idiozie sono giustificabili, da una certa età in poi i cretini devono farsi carico di quanto lo sono. Anche se è una passione triste, come si fa a non disprezzare. A non disprezzare le persone più “avvedute” che, per carità, loro non vogliono respingere a mare i migranti e soffrono, anime belle, a vederli rinchiusi nei Cie come bestiame, tuttavia discutono animatamente sui giornali e sul web, in parlamento e al caffè Commercio, se è meglio affondare i barconi (vuoti, per carità, o almeno speriamo che lo siano) o bloccare i porti di imbarco, quali pene irrogare agli scafisti e come riconciliare i due governi libici o quali ribelli siriani foraggiare o se selezionare i profughi per religione. Si è perfino rifatto sentire Bertolaso. Bertolaso!

Beninteso, ognuno scaricando le responsabilità di eventuali azioni militari sugli altri: tocca ad Alfano, no ai militari, alla Ue, all’Onu, alla Nato, a Obama, al governo di Tripoli o q quello di Tobruk. E chi è stato così stronzo da rovesciare il bravo Gheddafi? Io? No, tu, ecc. ecc. Idiozia, nausea. Come se i profughi fuggissero perché ci sono gli scafisti e i barconi e non perché sono incalzati dalla fame e dalle guerre. Come se le cause delle migrazioni fossero i mezzi di trasporto e i voraci traghettatori – le start-up del Canale di Sicilia. Come se gente alla disperazione si facesse spaventare dai motoscafi della guardia costiera in mare, dai droni nel cielo e dalle ronde padane una volta arrivati.

Si può essere più ciechi o in malafede? Forse quegli astuti strateghi da lunedì sport sono meglio dei leghisti con le corna o di Joe Formaggio col fucile sotto il letto? Alfano e Renzi con le camicie bianche valgono più di Salvini con la felpa? Si chiacchiera di affondamento barconi (con i droni, di malfamata precisione), blocco dei porti, sbarchi in Libia, controllo dei suoi confini meridionali, si votano decaloghi europei in materia, si sproloquia sull’innocenza delle famiglie ospitate nelle stive dei mezzi affondati (Renzi ha riportato forse lo score più atroce), si tratta con governi-fantasma libici pronti a negoziare soprattutto quanto è in possesso dei loro rivali, si rifinanzia il fallimentare Triton, senza che nessuno abbia il coraggio di additare le cause delle migrazioni e tanto meno di offrirsi di accoglierne le vittime. Sembra che l’unico problema sia se lasciarle morire in mezzo al mare, sulla costa africana, nei deserti interni o a casa loro nel Sahel, in Eritrea, in Somalia, in Siria. Lo chiamano “governare il fenomeno”. Fra velleità marziali, promesse vaghe e rifiuti precisi questo è stato anche il “grande risultato” del vertice UE, che Renzi vanta quasi come la due giorni con Obama, In entrambi i casi le brutte notizie sono rinviate a dopo.

Naturalmente questo affannarsi intorno all’emergenza spinge sotto il tappeto la condizione dei migranti già insediati in Europa e in Italia, se non per le furie della legislazione antiterrorismo. L’allarme Isis serve solo a nascondere la tragedia dei naufragi e a insinuare che i profughi sono sospetti criminali. Zingari in armi. Assurdo, ma intanto quale forza politica si azzarda a misurarsi con la situazione dei richiedenti asilo, con la gestione dei permessi di soggiorno o addirittura con la concessione della cittadinanza secondo lo jus soli? Il solo continuare a parlare di “clandestini” è oggi oggettivamente incitamento e apologia di strage.

Mi correggo. L’odio, la collera, lo schifo di cui parlavo all’inizio in forma non individuale, dobbiamo chiamarli con un nome più preciso e collettivo: indignazione. L’indignazione, ricordiamo Spinoza, è una passione costituente, che trasfigura collettivamente il de-potenziamento dell’odio e ne fa un’arma per combattere le ingiustizie del potere. Non dei capri espiatori scafisti e terroristi (un modo per rigettare la colpa su una parte dei migranti: vedi che non sono “famiglie innocenti”), ma dei governi che chiudono gli occhi, dei populisti selvaggi che sciacallano sui morti, dei populisti ipocriti alla Grillo e Alfano, degli strateghi neo-coloniali che vogliono spartirsi il petrolio della Libia e della Nigeria. E della governance europea che – nell’impossibilità di arginare i flussi esistenti – non trova di meglio che incaricare Frontex di rimpatriare, appunto, i “clandestini”. Un tempo lo avrebbero fatto con gli evasi da Auschwitz o con i superstiti armeni.

*tratto da Alfabeta2

Dinamo Press
28 04 2015

Migliaia a Baltimora si scontrano con le forze dell'ordine durante le celebrazioni per ricordare il giovane afroamericano di 25 anni, morto il 19 aprile per lesioni alla colonna vertebrale mentre era sotto custodia della polizia.

Dopo le proteste degli ultimi giorni nel pomeriggio di ieri si sono celebrati i funerali di Freddie Gray, l’ennesimo afroamericano morto, lo scorso 19 aprile, a causa della violenza della polizia americana. Al termine del funerale è esplosa la rabbia di migliaia di giovani, che hanno attaccato la polizia in vari punti della città, dando l’assalto a negozi ed erigendo barricate. Gli scontri, violentissimi, proseguono da diverse ore.

In rete circolano video di poliziotti che affrontano i manifestanti tirando mattoni, pietre e bottiglie, ma anche video di giovani afroamericani che ballano a decine sulle macchine parcheggiate, padroni delle strade.


Il governatore ha dichiarato lo stato d’emergenza e inviato la Guardia Nazionale a Baltimora. La polizia ha reso noto che sette agenti sono stati feriti negli scontri coi manifestanti, e alcuni hanno riportato fratture di diversa entità.

Va ricordato che gli agenti sotto la cui custodia è morto Freddie Gray sono stati semplicemente sospesi dal servizio, e ricevono tutt’ora il loro stipendio in attesa dell’inchiesta giudiziaria, ma i manifestanti chiedono che gli agenti coinvolti vengano incriminati e pretendono una riforma delle procedure di polizia.

Migliaia di persone hanno partecipato alle marce e alle proteste di questi giorni, ma la radicalità esplosa nelle ultime ore costituisce un'accellerazione' considerevole rispetto ai fatti di Ferguson e alla mobilitazioni contro la violenza della polizia che si sono svolte nelle ultime settimane.


Baltimora, d'altronde, è una città tagliata dalla linea del colore. Dei suoi seicentomila abitanti il 63% è nero, con un reddito medio di circa 41,000 dollari. Fuori dallo spazio urbano la popolazione è al 60% bianca e il reddito medio sale a 73,000 dollari.

La città sta per togliere l’acqua a circa 25,000 residenti morosi e sta sperimentando una serie di tagli molto pesanti ai servizi sociali e all’istruzione, specialmente nei quartieri a maggioranza nera.

Una città che vive pesanti disuguaglianze, dove il numero di detenuti è il più alto del suo stato e dove la polizia è all’80% bianca e meno di un terzo vive nello spazio urbano.

Oggi, dopo i funerali è esplosa tutta l’indignazione per l’ennesima morte provocata dal razzismo della polizia americana. E le autorità cittadine non hanno trovato una risposta migliore che dichiarare il coprifuoco per una settimana.

Roma e Kobane, città gemelle

Dinamo Press
27 04 2015

Il 23 aprile il comune di Roma ha approvato il gemellaggio con la città curda di Kobane, simbolo della resistenza contro Daesh. Il comunicato stampa di Rojava Calling.

Oggi, 23 Aprile 2015, il Consiglio comunale di Roma ha "sottoscritto un gemellaggio con la città curda di Kobane, simbolo della resistenza all'avanzata dello stato islamico". A pochi giorni dal 25 aprile, nel settantesimo anniversario della liberazione italiana dalle barbarie dal nazifascismo, il comune di Roma ha fatto un atto di amicizia ufficiale verso la città di Kobane, liberata lo scorso 26 gennaio dalle forze dello Ypg e Ypj dopo quattro mesi di occupazione.

Roma è la prima capitale europea gemellata con una delle più importanti città della Rojava, rilanciando cosi il percorso di riconoscimento politico dell'esperimento di autonomia democratica curda da parte delle istituzioni occidentali, intrapreso già da altri comuni in Italia e in Europa. Un'iniziativa fortemente richiesta dalla comunità curda. Un riconoscimento politico importante per la creazione di un corridoio umanitario atto alla difesa e alla ricostruzione della città assediata, non solo da Isis, ma anche dalla complicità dello Stato turco. Il gemellaggio istituzionale è di fatto uno strumento ulteriore a disposizione di quanti in questa città cercano di sostenere l’esperienza di confederalismo democratico in corso nel Rojava, un modello politico che interroga tutte le democrazie e le società civili del mondo.

Oggi la bandiera curda ha sventolato sul Campidoglio alla presenza di Hadla Omar, rappresentante del Parlamento del Cantone di Cizre, uno dei tre cantoni resistenti del Rojava. Con lei e con molti altri attraverseremo le piazze del 25 aprile per parlare anche della resistenza di Kobane, convinti che essere partigiani, oggi come ieri, vuol dire scegliere da che parte stare, in qualunque parte del mondo, combattendo per la libertà, la giustizia e l’umanità contro ogni forma di fascismo. La resistenza continua.

Restare umani, invertire la rotta

Dinamo Press
21 04 2015

Un'altra strage, centinaia di morti si vanno ad aggiungere alle migliaia di corpi distesi sul fondo del Mediterraneo. Il mare nostrum trasformato nel cementerium
nostrum, in una ritualità che normalizza un'ecatombe di portata storica.

Leggi anche Restiamo umani! In piazza contro la strage dei migranti

Ancora una volta assistiamo con rabbia alle dichiarazioni di finto cordoglio degli stessi politici che in questi anni, in Italia e in Europa, hanno contribuito a
creare un sistema che uccide migliaia di vite. Politica e istituzioni si affrettano ogni volta ad auto-assolversi, a declinare le proprie responsabilità, addebitando
tutta la colpa agli "scafisti senza scrupoli". Ma chi permette agli scafisti di fare affari d'oro se non quelle stesse leggi che impediscono ai rifugiati, in fuga da
guerre o povertà, di raggiungere in sicurezza lo spazio Schengen?

Ancora una volta denunciamo la complicità tra politici e scafisti, perché condividono interessi e responsabilità di questa strage continua: sono le misure che rendono
impossibile alle persone di arrivare legalmente in Europa che definiscono il mercato della disperazione, di chi deve pagare migliaia di euro per un barcone su cui
rischia la vita.

Allo stesso modo rifiutiamo con forza la proposta che a reti unificate viene da Renzi e da Salvini (due facce della stessa medaglia!), dai politici italiani e dalle
istituzioni europee: quella di spostare il blocco delle migrazioni al di là del mare, in Libia o ancora oltre. Questa strategia è già stata perseguita attraverso i
trattati bilaterali e gli accordi con i dittatori nordafricani, fino alle primavere arabe e alla guerra contro Gheddafi. Ma a quale prezzo? Al prezzo di altre migliaia
di morti, uccisi nel silenzio del deserto, rinchiusi e torturati nei centri di detenzione libici costruiti con i soldi italiani e comunitari, lontano dall'opinione
pubblica europea. Rifiutiamo con disprezzo le posizioni di chi è interessato soltanto a nascondere gli omicidi, di chi li vuole spostare dove nessuno possa
denunciarli, di chi vuole esclusivamente evitare di essere riconosciuto responsabile di queste morti.

Il punto non è far morire le persone al di là del mare, ma far loro raggiungere l'Europa in maniera sicura. Il punto è fare in modo che chi entra nello spazio Schengen
abbia la possibilità di essere inserito nelle società di destinazione, attraverso un'accoglienza degna e politiche sociali e abitative efficaci. Quelli che piangono
lacrime di coccodrillo mentre i cadaveri sono ancora caldi, sono gli stessi che condannano le persone che sopravvivono alla traversata del Mediterraneo all'esclusione
sociale e allo sfruttamento. Sono gli stessi che appaltano l'accoglienza a speculatori e criminali. Sono gli stessi che mantengono in vigore il regolamento Dublino,
che relega i paesi in crisi del Sud Europa a filtro dei flussi migratori spesso diretti altrove, negando il diritto di scelta a rifugiati e richiedenti asilo e
contribuendo ad alimentare tensioni sociali e guerre tra poveri.

E infatti, solo poche ore dopo il naufragio, il piano presentato dal Vertice congiunto di ministri degli Esteri e dell'Interno dell'Unione europea dopo le lacrime di
coccodrillo di questi giorni testimonia la scelta di non invertire affatto la rotta, nemmeno di fronte a più di 900 morti. Fa rabbia leggere come tra i 10 punti
presentati non ce ne sia nemmeno uno che abbia come obiettivo il soccorso o l'apertura di accesso di canali legali. La preoccupazione dei ministri europei è quella di
militarizzare ulteriormente il Mediterraneo, di creare meccanismi di espulsione più veloci, di “prendere le impronte a tutti i migranti”, di contrastare i flussi
migratori al di là del mare, con la collaborazione dei Paesi confinanti con la Libia (specialmente il Niger).

Questo pomeriggio saremo in piazza Montecitorio per dire che politici e scafisti sono sulla stessa barca. Per richiedere l'apertura immediata di un corridoio
umanitario e di canali di accesso legali e sicuri allo spazio Schengen. Per affermare che non basta piangere i morti, ma è necessario trasformare radicalmente le
politiche migratorie imposte negli ultimi anni, regolarizzando tutti i migranti presenti sul territorio, assicurando loro la libertà di scelta e di movimento
all'interno dell'Europa "senza frontiere", garantendo un'accoglienza dignitosa, che permetta l'inserimento sociale e lavorativo nelle società di destinazione.

Di fronte a una società che si imbarbarisce dietro le campagne di chi semina odio, diciamo che mai come ora è il momento di restare umani, di lottare insieme contro
chi ci condanna all'esclusione, allo sfruttamento, alla precarietà.

Basta ipocrisie!

Corridoio umanitario, accoglienza dignitosa e regolarizzazione generalizzata subito!

Martedì 21 aprile, h 17, piazza Montecitorio.

 

facebook