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21 09 2015
Il popolo dei piedi scalzi torna a mobilitarsi
L’11 settembre più di 250mila persone hanno manifestato a piedi scalzi in 71città italiane chiedendo diritti e accoglienza per i migranti e profughi, senza sé e senza ma (GALLERIA FOTOGRAFICA). È stata prova di partecipazione e di mobilitazione straordinaria che ci consegna la domanda di come far vivere nei prossimi mesi un’azione di denuncia politica e di solidarietà concreta con i migranti. «La marcia delle donne e degli uomini scalzi non si fermerà. Continuerà anche dopo l’11 settembre».
Questo è stato detto nell’appello finale letto alla conclusione della manifestazione a Venezia: «È una marcia per la dignità, per la vita, per la libertà: per tutti quei valori per cui abbiamo voluto costruire un’Europa aperta al mondo e fondata sulla pace. Una speranza che vogliamo continuare a difendere e per cui vogliamo lottare».
I motivi ci sono tutti. Infatti, dopo qualche sussulto europeo, tra Berlino e Bruxelles, sull’onda dell’emozione della fuga dei profughi siriani, la Merkel ha annunciato che ora le frontiere si chiudono, i paesi dell’est europeo hanno ribadito che non accetteranno nessuna quota per l’accoglienza dei migranti, l’Ungheria finisce di costruire il muro, spara lacrimogeni e usa cannoni d’acqua contro i migranti, e la Francia minaccia nuovi raid aerei in Siria.
Invece sono altre le strade che andrebbero seguite per cercare di affrontare un flusso di profughi – che ormai avrà caratteristiche di permanenza – verso l’Europa. Sempre nell’appello conclusivo è stato affermato: «Molte sono le cose da fare e molti i rischi all’orizzonte. Bisogna creare un vero e proprio corridoio umanitario per chi scappa dalla guerra e bisogna istituire un diritto di asilo europeo che superi l’anacronistico regolamento di Dublino».
E proprio nella manifestazione conclusiva di Venezia, una delegazione della manifestazione di migranti e richiedenti asilo sono simbolicamente saliti sul red carpet della Mostra del cinema aprendo uno striscione davanti a fotografi e pubblico in attesa delle star: humanitarian corridors, now. È questa la priorità oggi. Questo il punto che non può essere più eluso. Non si tratta solo di accogliere chi – dopo interminabili sofferenze – arriva ai confini della nostra Europa, ma farsi carico anche chi non può, non riesce a fuggire e rischia la morte e la violazione dei diritti umani nelle zone di guerra. E alle nostre frontiere non arriverà mai.
Oggi i corridoi umanitari sono ineludibili. Ne servono almeno due: uno dalla Siria e l’altro dal Mediterraneo, assicurando in questo caso passaggi in mare sicuri. Ma su questa strada l’Europa e l’Italia per il momento non ci sentono e si barcamenano tra quote per la ripartizione dei profughi – quote molto modeste e non accettate – nuovi hot spot da istituire e che rischiano di produrre non maggiori tutele ma altre discriminazioni e nessuna resipiscenza sulla convenzione di Dublino.
Al governo Renzi dobbiamo chiedere di prendere una iniziativa che vada in questa direzione non solo in Europa, ma anche in Italia: chiudendo i centri di detenzione, introducendo il diritto di voto alle amministrative per i migranti, istituendo unilateralmente un corridoio umanitario dalle coste meridionali del Mediterraneo. Si tratta, dunque, di rilanciare una mobilitazione.
La marcia delle donne e degli uomini scalzi – con tutto il suo carico simbolico e di concretezza nella forma della partecipazione – ha dimostrato che c’è una grande disponibilità, che non va dispersa, ma rafforzata e sviluppata. Una grande alleanza delle donne e degli uomini scalzi che faccia argine alla xenofobia e al razzismo e che sia da ariete contro tutti quei fili spinati e muri che si cercano di alzare in Europa ancora una volta.
C’è un primo appuntamento: lunedì 21 settembre manifesteremo alle 18 davanti all’ambasciata d’Ungheria a Roma (via dei Villini 12) e davanti ai consolati ungheresi in Italia (come a Milano, Venezia, Palermo, Trieste e altre città che si stanno aggiungendo) per dire basta ai muri e ai fili spinati, basta alla criminalizzazione dei profughi, basta all ipocrisie europee (qui info). Se c’è qualcuno che deve andare fuori dall’Europa non sono i migranti, ma Viktor Orban (fonte il manifesto).
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21 09 2015
Nei giorni del delirio contro i fantasmi del Gender e mentre Roma (19 e 20 settembre) ospita il più grande incontro annuale nazionale dedicato all’educazione alle differenze e all’affettività (di cui Comune è media partner), offriamo questo saggio di Lea Melandri: spiega come e perché possiamo portare l’educazione alle radici dell’umano, cioè in prossimità della vita di ogni giorno, nella sua interezza e fragilità, consapevoli che le tradizionali separazioni tra corpo e pensiero, natura e cultura, reale e virtuale sono venute meno. Qualsiasi esperienza di cambiamento, cioè la costruzione di una società senza relazioni di dominio, deve allora fare prima luce su un terreno che resta per lo più confinato in una “naturalità”: la nascita, l’infanzia, i ruoli sessuali, l’amore, l’invecchiamento, la malattia, la morte. Ma per muoversi in questo terreno occorre che insegnanti ed educatori abbiano acquisito capacità di cura e conoscenza di sé e sperimentato una dimensione collettiva. Siamo pronti per questo cambiamento antropologico epocale?
di Lea Melandri*
L”educazione di genere”, di cui oggi si parla molto, anche dietro la spinta dei dati allarmanti sulla violenza maschile contro le donne, specie in ambito domestico, se non vuole restare nell’ambito di una generico invito al rispetto reciproco – il “politicamente corretto” – deve avere il coraggio di andare alla radice di un dominio del tutto particolare, quale è quello di un sesso sull’altro, intrecciato e confuso con le relazioni più intime. Nel momento in cui si scopre che la vita personale, il corpo, la sessualità, gli affetti, l’immaginario, sono sempre stati dentro la storia e la cultura, e che è importante cominciare a sottrarli alla “naturalizzazione” che hanno subìto, cambia inevitabilmente anche l’idea di educazione e trasmissione del sapere. Si trasmette innanzitutto “quello che si è”, nell’interezza del proprio essere, e non solo “quello che si dice o si sa”. Ma, soprattutto, la cultura deve diventare cultura della vita: dare voce al vissuto, all’esperienza di ognuno e, partendo da lì, interrogare i saperi disciplinari a partire da ciò che non dicono, che hanno cancellato o deformato.
Quella che in più occasioni ho definito “scrittura di esperienza” interroga innanzi tutto il pensiero, il suo radicamento nella memoria del corpo, nelle sedimentazioni profonde che hanno dato forma inconsapevolmente al nostro sentire. In quelle zone remote e “innominabili” , la storia particolarissima di ogni individuo incontra comportamenti umani che sembrano eterni, immodificabili, uguali sotto ogni cielo: passioni elementari, sogni, costruzioni immaginarie, rappresentazioni del mondo, riconoscibili in ogni spazio e tempo. Tra queste, vanno a collocarsi le figure del maschile e del femminile, che il corso della storia ha modificato, ma non tanto da cancellare i tratti della vicenda originaria che ha dato loro volti innegabilmente duraturi.
A differenza dell’autobiografia, che lavora sui ricordi, sulla loro messa in forma all’interno di una narrazione, di un senso compiuto, la scrittura che vuole spingersi “ai confini del corpo”, in prossimità delle zone più nascoste alla coscienza, si affida a frammenti, schegge di pensiero, emozioni, che compaiono proprio quando si opera una dispersione del senso. Si tratta di far luce su un terreno di esperienza che resta generalmente confinato in una “naturalità” astorica: la nascita, l’infanzia, i ruoli sessuali, l’amore, l’invecchiamento, la malattia, la morte.
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Ci sono domande, emozioni, vissuti che si affacciano nell’infanzia e che, per non aver trovato risposte o parole per essere detti, sembrano aver fatto naufragio.
“Nella mia breve infanzia non ricordo alcun momento lieve né vera spensieratezza. Tutto pesava gravemente (…). Prendere tutto tra le braccia. Controllare tutto. Reprimere tutto. Dire a chi? Rimettersi a chi? Con chi condividere l’aria troppo dolce, l’odore funebre delle margherite, l’eco dei treni che già collegavo all’idea di allentamento, di separazione (…). Non è la stessa cosa dire che un treno passa o appoggiare i gomiti per ascoltare quel rumore che mi stringe il cuore da sempre. È per questa ragione forse che i cattivi maestri mi dicevano che ero disordinata. Avrebbero dovuto chiedermi perché quel rumore del treno evocava in me un tale strazio. Era il loro compito. Avrebbero dovuto farlo. Avrebbero dovuto farmi le vere domande. Questa parte segreta della mia infanzia rimane come un campo di solitudine. Così sciolta. Non avrò tregua finché questo campo non sarà seminato di tutte quelle parole censurate nella mia infanzia”.
(Francoise Lefèvre, Il Piccolo Principe Cannibale, Franco Muzzio Editore, Padova 1993)
I corpi, la sessualità, gli stereotipi di genere, i sentimenti, la relazione con l’altro, il diverso, hanno nella scuola il loro teatro primo – insieme alla famiglia -, ma anche il loro inquadramento secondo norme di ordine e disciplina. Restano perciò il “sottobanco”, anche se segnalano vistosamente la loro presenza, i loro interrogativi, la loro vitalità.
Oggi la scuola incontra una forte concorrenza nei media: lì il corpo, la vita intima, le “viscere”, sono, al contrario, sovraesposte, benché collocate in una posizione regressiva – esibizionismo e voyeurismo – che non le sprivatizza né le fa oggetto di riflessione. Come tornare a fare esperienza di vissuti, pensieri, passioni così squadernati all’esterno, così ridotti a chiacchiera? Come far sì che il “narrare di sé” diventi nella scuola un momento formativo? È indispensabile, per questo, che l’insegnante abbia acquisito egli stesso famigliarità col mondo interno, l’abitudine all’autocoscienza – cura e conoscenza di sé -, così come è importante la dimensione collettiva.
Siamo qui su un terreno che non è la “lezione” dalla cattedra, parlo di laboratori, che potrebbero utilmente accompagnarla: sperimentazione di nuovi processi formativi, oggi resi necessari dal fatto che sono venute meno le tradizionali separazioni tra corpo e pensiero, natura e cultura, reale e virtuale. Tocca alla scuola dare risposta a questo cambiamento antropologico, portando l’educazione alle radici dell’umano, cioè in prossimità della vita compresa nella sua interezza. Se non lo farà, saranno le nuove tecnologie informative, i social network, il mercato, la pubblicità a prenderne il posto. Quello che già in parte, purtroppo avviene.
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16 09 2015
Venerdì 11 settembre, si è svolta a Roma l’assemblea della Conferenza dei presidenti dei Consigli regionali in cui si è affrontato il tema delle trivellazioni: le regioni hanno convenuto all’unanimità sulla necessità di deliberare per i referendum abrogativi dell’articolo 35 del Decreto Sviluppo del 2012 e degli articoli 37 e 38 della legge Sblocca Italia. In questo modo si bloccherebbero tutte le concessioni date, a partire dal 2010, entro le 12 miglia marine (art. 35) e si annullerebbero gli effetti dirompenti delle concessioni per la ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi e del gas naturale e delle opere ad esse connesse. Di certo, la richiesta di deliberare inviata dal Coordinamento No Triv Nazionale – sottoscritta da più di 200 tra associazioni e movimenti territoriali e cento personalità di rilievo -, è stata una spinta per raggiungere quel traguardo.
Si seguito, l’appello per la manifestazione (confermata) dei No Triv di venerdì 18 settembre a Bari (ore 10, Fire del Levante). Qui l’evento facebook.
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Con il decreto “Sblocca Italia” e le nuove concessioni per le ricerche di idrocarburi, il governo Renzi sta lanciando un’offensiva terrificante contro i nostri territori: li sta trasformando in un terreno di conquista privo di qualsiasi regola per le multinazionali del petrolio, pronte a distruggere l’ambiente, rovinare la nostra salute e calpestare i nostri diritti in nome dei propri profitti.
La Puglia ad oggi è una delle regioni nel mirino dei petrolieri. Ben 9, infatti, dei 12 permessi di ricerca iscritti in Gazzetta Ufficiale e rilasciati dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare riguardano le nostre coste, dell’Adriatico e dello Ionio.
La retorica, ormai stantia, è sempre la stessa: il petrolio porta ricchezza. Eppure, la distruzione della Basilicata, un territorio ricco di natura e storia, ad opera dei petrolieri, dovrebbe dimostrare più di tante chiacchiere quali siano i veri effetti delle trivellazioni.
Non vogliamo però affatto essere un movimento No Triv “non nel mio giardino”. È la ragione per cui, come Coordinamento No Triv – Terra di Bari, convochiamo una manifestazione interregionale il 18 settembre 2015, giorno in cui, presso la Fiera del Levante, si terrà un incontro tra i Presidenti di Regione proprio sul tema delle trivellazioni.
Chiediamo un impegno da parte dei consigli regionali – ne sono sufficienti cinque – nell’adozione di una delibera volta a indire un referendum popolare per:
– l’abolizione dell’art. 35 del Decreto Sviluppo, che riguarda i procedimenti in mare entro le 12 miglia, potrebbe bloccare ben 50 nuove concessioni, tra cui le più recenti pugliesi;
– l’abolizione degli artt. 37 e 38 dello Sblocca Italia, che oggi consentono di applicare le procedure semplificate e accelerate sulle infrastrutture strategiche ad una intera categoria di interventi, senza che vengano individuate le priorità e che venga chiarito il “piano delle aree”, come previsto dalle leggi vigenti, e senza che si applichi la Valutazione Ambientale Strategica. L’abolizione dei suddetti articoli, inoltre, restituirebbe alle Regioni la competenza sulla Valutazione di Impatto Ambientale, mettendo fine ad un ignobile commissariamento da parte del Ministero dell’Ambiente, volto a facilitare le multinazionali del petrolio.
Vogliamo che sia una manifestazione aperta, partecipata e costruita dal basso, che non cerchi sterili tavoli, ma ribadisca alle istituzioni regionali che è necessario agire velocemente. Le dichiarazioni cui non seguono azioni concrete resteranno per noi inutili chiacchiere da campagna elettorale.
Ribadiamo con profonda convinzione che le nostre vite valgono più dei loro profitti.
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14 09 2015
di Alex Corlazzoli*
Expo sì, Expo no. Alla fine ci sono andato (a moderare un dibattito) e mi sono convinto che non porterei mai una classe di ragazzi all’Esposizione mondiale, la Gardaland di Milano. Chi fa il maestro ha il dovere di chiedersi: cosa voglio insegnare ai ragazzi? Come voglio parlare loro del cibo, della terra, dell’aria? Vogliamo dire la verità ai futuri cittadini o mostrare loro una cartolina patinata del mondo? Ecco, se quest’ultima è la vostra intenzione, allora potete andare a visitare Expo 2015. Troverete un grande gioco: potrete timbrare il vostro “falso” passaporto (5 euro a documento) ad ogni Paese che visitate; divertirvi a fare l’henné sulle mani grazie alle donne ugandesi o della Mauritania; saltare sulle reti elastiche del padiglione del Brasile; fare fotografie seduti in una finta tenda berbera; realizzare il vostro menù greco preferito; scrivere il vostro nome con i chicchi di caffè o comprare braccialetti ricordo fatti con i semi. Ma non chiedetevi chi lavora quel caffè; non domandatevi quanti pozzi sono stati distrutti nei terreni dei territori occupati della Palestina; non azzardatevi a capire chi lavora nei campi del Mozambico o del Burundi; non iniziate a farvi domande sui landgrabbing, i ladri di terra. Expo non è il posto dove farvi questi interrogativi e nemmeno dove trovare risposte.
Girando tra i padiglioni dell’esposizione ho avuto la sensazione di aver fatto qualche errore: forse ho sbagliato, durante le lezioni di scienze, a raccontare ai miei ragazzi che il consumo giornaliero di acqua in Africa è di 30 litri rispetto ai 237 in Italia. Probabilmente ho raccontato una frottola quando ho parlato loro dei conflitti per l’oro blu. Devo aver letto male i dati sul Kenya dove il benessere di pochi (2%), è pagato con la miseria di molti (circa il 50% della popolazione vive sotto il livello di povertà). Devo aver visto un altro film finora perché ad Expo non ho trovato una sola riga, una sola informazione che raccontasse alle migliaia di persone che passano in quei padiglioni, il dramma che vivono le popolazioni africane.
Sono partito dalla Palestina: non un’immagine, una riga, una fotografia dell’occupazione. Ho chiesto come mai e mi è stato risposto che “non era opportuno”. Ho pensato che la scarsità di informazioni riguardasse solo quel Paese. Ho provato ad entrare negli spazi dell’Eritrea, della Giordania, della Mauritania: nulla di più che una sorta di mercatino dei prodotti locali, qualche bandiera, poche fotografie. Zero informazioni. Ho pensato che fosse impossibile ma nemmeno in Algeria ho trovato qualche spiegazione se non una bella esposizione di vasellame e di abiti tradizionali. Mai un solo cenno ai problemi di un Paese. A Expo il mondo è tutto bello: l’importante è non sapere.
Non ho imparato nulla visitando il padiglione del Burundi, del Ruanda, dell’Uganda. Nello Yemen hanno persino tentato, come in ogni mercato, di vendermi tre braccialetti con la tecnica dei venditori di strada: “Provali. Quale ti piace? Ti facciamo uno sconto”. Eppure i bambini e i ragazzi che lavorano nelle piantagioni di cacao africane sarebbero, secondo alcune stime, più di 200mila di età compresa tra i cinque e i quindici anni, vittime di una vera e propria “tratta”. L’ Unicef ricorda che 150 milioni di bambini tra i 5 e i 14 anni nei Paesi in via di sviluppo, circa il 16% di tutti i bambini e i ragazzi in quella fascia di età, sono coinvolti nel lavoro minorile.
A citare i problemi della terra ci ha pensato il Vaticano, presente ad Expo: 330 metri quadrati per dire ai cittadini attraverso una mostra fotografica e un tavolo interattivo che esiste il problema della sete, dell’ingiustizia, della fame. Tutto per slogan, nulla di più. E’ a quel punto che mi è venuta una curiosità, alla fine della rapida spiegazione dell’addetto della Santa Sede: “Scusi, quanto è costata la realizzazione?”. Risposta: “Mi dispiace non lo so”. Cerco la risposta via Twitter all’account del Vaticano (@ExpoSantaSede) che mi rimanda ad un articolo che parla della “sobrietà del padiglione”, secondo le parole del cardinale Gianfranco Ravasi. Viene da fare due conti: un’organizzazione italiana mi ha riferito di aver speso per partecipare a Expo (per organizzare eventi, padiglione, personale) circa 700 mila euro. E il Vaticano quanto avrà sborsato per dire che c’è la fame, la sete e l’ingiustizia? 3 milioni di euro equamente ripartiti tra Santa Sede, Cei, Diocesi di Milano e Cattolica Assicurazioni che ha offerto il suo contributo per l’allestimento delle opere d’arte.
Alle 21, stop. Ho deciso: meglio non portare i bambini a Expo. Che capirebbero del cibo, dello spreco, delle risorse?
Un solo consiglio: se proprio ci andate, vale la pena visitare il padiglione zero e quelli della Svizzera e dei Brunei. Naturalmente non li ho visti tutti, potrebbero essercene altri all’altezza di quest’ultimi. E non ho nemmeno timbrato il passaporto.
Un’ultima osservazione: non cercate un’edicola o una libreria (magari dedicata al cibo) a Expo. In una giornata non le ho trovate. Se le avete viste avvisatemi.
Infine due curiosità. La prima: andata e ritorno Treviglio – Milano Expo con Trenitalia è gratis, nessuno è passato a controllarmi il biglietto. La seconda: arrivato ai tornelli mi sono trovato di fronte delle file chilometriche. Avendo un appuntamento alle 10,30 ho tentato di passare attraverso il passaggio dei media pur non avendo l’accredito ma solo un regolare biglietto. Nessun problema: nessuno ha badato al fatto che avessi o meno il pass. Un abito elegante e una borsa d’ufficio ed è fatta. Fila evitata.
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* Giornalista, ma prima di tutto maestro, è autore di alcuni libri, tra cui Ragazzi di Paolo (Ega 2002), Riprendiamoci la scuola (Altreconomia) e Gita in pianura (Laterza). Da diversi anni promuove NonSoloACrema: un programma di appuntamenti con gli autori per portare la cultura anche in campagna, nei più paesi più piccoli. L’articolo di questa pagina è apparso anche su un blog de ilfattoquotidiano.it e qui con il consenso dell’autore.
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09 09 2015
di Luciana Bertinato*
Settembre è alle porte, si riparte. Non sarà un anno scolastico facile: a giugno ci siamo lasciati alle spalle le accese discussioni sulla riforma, la rabbia di tanti colleghi precari, i cortei nelle piazze e uno sciopero del mondo della scuola come mai si era visto in precedenza.
Buon inizio alle insegnanti neo assunte in ruolo dopo lunghe stagioni di attesa, a chi sarà costretto a prendere la valigia per spostarsi in lungo e in largo nella penisola, a coloro che accompagnano da tempo i bambini e le bambine nella loro unica e originale crescita. Senza dimenticare un pensiero solidale per i colleghi esclusi dalla scuola dopo anni di prezioso lavoro.
Proviamo a ripartire, con passi leggeri, mettendo in cartella qualche suggerimento attinto dall’esperienza di alcuni buoni maestri.
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Dialoghi, ritmo lento, relazioni
Prestiamo ascolto ai bambini e ritroviamo insieme la cura della parola: il dialogo è una buona occasione per conoscerci e costruire la piccola comunità-classe basata su regole condivise, le sole che possono educare alla libertà responsabile. Mettiamo ordine nella conversazione che diventerà, giorno dopo giorno, un esercizio di democrazia e fantasia. Scopriremo con gioia che “I pensieri infantili sono sottili. A volte così affilati da penetrare nei territori più imprevisti arrivando a cogliere, in un istante, l’essenza di cose e relazioni… ma anche fragili e volatili”, come racconta Franco Lorenzoni nel suo bellissimo libro I bambini pensano grande.
Impariamo dalla natura, dall’incedere lento delle lumache – penso a quelle tracciate dalle matite colorate di Gianfranco Zavalloni – e proviamo a rallentare recuperando un tempo giusto per fare le cose. Non facciamoci prendere dall’ansia di svolgere a tutti i costi “il programma”, dall’assillo delle incombenze burocratiche, dalle incalzanti richieste dei genitori sulle prestazioni dei figli. Ieri in biblioteca, dentro un libro di narrativa restituito da una ragazzina, ho trovato un post colorato sul quale c’è scritto:
“Oggi la scuola procede a ritmi molto sostenuti, tra noi i più ‘bravi e veloci’ riescono a stare al passo e vanno avanti senza difficoltà, gli altri (anche metà classe) vengono lasciati indietro perché le insegnanti non hanno il tempo di aspettarli. Tutta una corsa, ma la scuola non dovrebbe funzionare così!”.
Penso con tristezza alla Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani, lezione non ancora appresa da molti di noi.
Costruiamo relazioni aperte ai vari colori, agli sguardi diversi sul mondo, alle lingue e alle culture differenti. Se lasceremo entrare tra i banchi la vita dei bambini, la nostra scuola sarà “grande come il mondo, con i maestri, i genitori, le biblioteche, il quartiere, la televisione…”. Torneremo a ridere, come suggeriva Gianni Rodari, e a promuovere un’interdipendenza positiva che ci farà stare bene anche nelle situazioni più difficili. “Ci vogliono maestri nuovi che sappiano ritrovare il bambino vero, intero e felice – scriveva Mario Lodi – insegnanti capaci di possedere un cuore, che è un motore potente. E poi attaccarsi al bambino, seguirlo con dedizione, riuscire a scrutarne i talenti nascosti. Senza mai dimenticare che il compito della scuola è trasformare un gregge passivo in un popolo di cittadini pensanti”.
Attività per cominciare
Iniziamo con gioia, soprattutto con i piccoli che entrano alla primaria e con i nuovi arrivati, utilizzando i linguaggi più amati: il gioco, la lettura dell’insegnante, la narrazione, il disegno. Alcuni consigli qui di seguito.
La lettura espressiva di un racconto o una filastrocca scelti con cura.
Una presentazione animata da una parola, un gesto, una canzone.
La conversazione, i pensieri scritti e i disegni di un momento delle vacanze raccolti in un cartellone collettivo.
L’autoritratto allo specchio per raccontare e scoprire come si è cambiati.
Alcuni giochi cooperativi che favoriscono la socializzazione e l’apprendimento di abilità cognitive. Ai bambini piace molto quello che disegna le strade per conoscersi. Si fa rotolare un gomitolo di lana, da un compagno all’altro, su un grande foglio bianco steso sul pavimento. Si fissano con il nastro adesivo i fili tracciati, infine ciascun bambino scrive qualcosa di sé nella sua postazione d’arrivo.
Accattivante anche la scrittura a catena: data una frase aperta su un argomento, si costruisce una catena di frasi, ognuna delle quali contiene la parola finale scritta dal compagno. Al termine ogni gruppo di lavoro legge la propria sequenza.
Nella mia scuola il primo giorno è una festa: ogni anno i grandi delle classi quinte accolgono i primini. A ciascun piccolo è affidato un compagno di quinta con cui potrà dialogare e cantare, giocare, conoscere gli spazi dell’edificio e completare un librino personale attraverso il reciproco scambio di ritratti, curiosità e notizie. Ogni incontro diventa un momento intenso di scoperte ed emozioni.
Inizi di pace
In classe quarta, io riprenderò l’attività sulle relazioni e le soluzioni dei conflitti, iniziata lo scorso anno con il progetto dei Pacifici ideato dal giocattolaio Roberto Papetti. Il punto di partenza è stato il confronto con i pensieri e le riflessioni dei bambini, la conclusione l’esposizione delle loro piccole sagome nei luoghi più significativi del paese. Ora siamo in cammino, insieme a moltissime altre sagome bambine che stanno arrivando da ogni parte d’Italia, per far sì che la riflessione sulla Pace cresca e si diffonda, con semplicità e mitezza, attraverso un percorso comune.
Il 24 e 25 ottobre, in occasione del V convegno nazionale della Rete di Cooperazione Educativa “C’è speranza se accade @” (ci sarà anche la redazione di Comune, ndr), i Pacifici giungeranno nella piazzetta del Monastero delle monache benedettine di Bastia Umbra (Perugia). La Pace si può coltivare nei pensieri degli alunni delle nostre scuole, nel mondo. Non vogliamo più vedere bambini che fuggono dalle guerre con la paura nei volti, corpicini senza vita soffocati dentro i camion sulle nostre strade o inghiottiti dal mare nella quotidiana tragedia della migrazione. I valori dell’accoglienza e della solidarietà siano la nostra bussola nell’anno che ci aspetta.
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Fonte: La Vita Scolastica, magazine online dedicato a chi insegna nella scuola primaria. La pubblicazione su Comune-info è stata autorizzata dall’autrice.
* Luciana Bertinato ogni giorno in bicicletta raggiunge ventidue bambini e bambine in una classe alla primaria “I. Nievo” di Soave (Verona), ma spesso le lezioni non si svolgono tra i banchi. Dal 1995 fa parte della Casa delle Arti e del Gioco, fondata da Mario Lodi a Drizzona (Cremona), che promuove corsi di formazione per insegnanti e laboratori creativi per bambini. Altri suoi articoli sono qui.
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09 09 2015
Una delle modalità di riprodurre la diseguaglianza sociale nelle città è quella di cancellarne una parte. Non a caso, ovviamente, ma colpendo i poveri e le loro case, anche attraverso la cartografia. Le villas miserias di Buenos Aires sono escluse dalle mappe ufficiali della città. Una invisibilità cartografica che rinforza la strutturale segregazione dei quartieri più poveri e, se rilevata, evidenzia la narrativa del potere. La tendenza è generale, ma Villa 31 – la più antica baraccopoli della capitale creata dallo Stato in una zona centrale molto prima che l’urbanizzazione informale fosse “confinata” nelle periferie – ne è il miglior esempio
Di fronte alla stazione “Retiro”, attraversando la strada, c’è un hotel Sheraton. La baraccopoli non si vede dall’entrata, ma i turisti delle camere più in alto possono sicuramente apprezzare l’intera estensione della “Villa 31”. La più antica baraccopoli di Buenos Aires fu creata dallo Stato in una zona centrale della città, molto prima che l’urbanizzazione informale fosse “confinata” nelle periferie.
Nascosto da tre grandi stazioni ferroviarie e un terminal di autobus, questo quartiere di 20.000 residenti si è sviluppato lungo i binari del treno, tra il porto e i quartieri più ricchi della città. Nel 1996 la costruzione dell’autostrada “Ilia” sopra la baraccopoli ne ha originato una nuova parte, la “Villa 31 bis”, nella quale le case più alte si affacciano direttamente sulla carreggiata. L’area culmine della gentrificazione della capitale, “Puerto Madero”, non è lontana. Annunci di una prossima apertura di due stazioni della metropolitana, assieme al ciclico tentativo di inserire la baraccopoli nel mercato abitativo tramite la fornitura di certificati di proprietà ai suoi abitanti, fa di Villa 31 la soglia della frontiera della gentrificazione.
Una delle modalità di riprodurre la diseguaglianza sociale nelle città è quella di cancellarne una parte. Non a caso, ovviamente, ma colpendo i poveri e le loro case, anche attraverso la cartografia. Le baraccopoli di Buenos Aires, le tristemente note “villas miserias”, sono infatti escluse dalle mappe ufficiali della città, determinando una “invisibilità cartografica” che rinforza la strutturale segregazione dei quartieri più poveri’. La tendenza è generale, ma Villa 31 ne è il miglior esempio.
Che cos’è l’informalità?
Le baraccopoli di Buenos Aires sono, ovviamente, “informali”. Ma cos’è l’informalità? Gli studiosi “Global South” Ananya Roy e AlSayyad (2004) considerano l’informalità come qualcosa in più che un settore economico non regolato, descrivendola come una forma di produzione dello spazio che rientra negli obiettivi dello Stato ed è sotto il suo controllo. Oltre la sua apparentemente natura non regolata infatti, l’informalità è una condizione sanzionata in ultima istanza dallo Stato, attraverso la concessione dello status di formalità o informalità. Non a caso le istituzioni sono gli unici attori in grado di operare in maniera informale senza incorrere in conseguenze legali. Esercitando quel potere “extra-legale” che Agamben (1998) ha associato con la sovranità e lo “stato di eccezione”, lo Stato sospenderebbe le norme consuete e userebbe l’informalità per mantenere una iniqua distribuzione del valore dello spazio, promuovendo lo sfruttamento capitalista dell’“ambiente costruito”, suddiviso in aree valorizzate e svalutate: “Lo Stato ha il potere di determinare il momento in cui attuare la sospensione, che cosa è informale e cosa no, e determinare quali forme di informalità prospereranno e quali spariranno.” (Roy 2005, page 149).
Questa forma di accumulazione del capitale, favorita dalla nuova impronta neoliberale sulla produzione dello spazio, può assumere forme differenti, dai processi di gentrificazione e rigenerazione a sgomberi e demolizione di baraccopoli, seguendo la logica della “distruzione creativa”. Mentre nel “Global North” l’urbanizzazione informale rimane l’eccezione, nelle città del “Global South” viene considerata da Roy (2009 page 826) “spesso il modo primario di produzione dello spazio metropolitano nel XXI secolo.”
La teoria dell’informalità nasce nel contesto latino-americano, anche se si è dimostrata rilevante nell’analisi dell’urbanizzazione africana, asiatica e medio-orientale. Nella sua “madrepatria” l’informalità è stata spesso collegata alla teoria della dipendenza, presentando la diffusa urbanizzazione informale delle città latino-americane come un altro effetto del sottosviluppo causato dalla posizione periferica occupata dal continente nell’economia mondiale.
Tuttavia l’attenzione è stata dedicata principalmente allo studio della segregazione urbana (come in Caldeira, “City of walls”, 2000) e alla marginalità, bollata da Janice Perlman (1979) come un “mito” che rappresenta i poveri come soggetti indifesi per poterli meglio sfruttare in qualità di forza lavoro “usa e getta”. All’interno dell’analisi sulla segregazione urbana nelle città latino-americane uno degli aspetti che maggiormente risaltano è “la prossimità tra ricchi e poveri, ma in spazi rigidamente chiusi, che creano una relazione asimmetrica tra le due parti” (Schapira 2001). La Villa 31 e 31 bis aggiornano il concetto classico di muro, sostituito da autostrade e grattacieli, un “assedio dorato” alle vite informali di migliaia di persone.
Un aspetto scarsamente ricercato dell’informalità è la sua rappresentazione cartografica. Anche se molti accademici hanno analizzato l’uso delle mappe come uno “strumento di potere” atto a esercitare il controllo sociale sulle persone, per supportare il colonialismo e le guerre, poca attenzione è stata dedicata al suo collegamento con la riproduzione dell’informalità. Sembra quindi necessario iniziare ad affrontare la questione dell’impatto della cartografia ufficiale sull’informalità, il suo utilizzo da parte dello Stato e la possibilità di un suo “sequestro politico” per obiettivi militanti.
Come molti progetti politici hanno mostrato, infatti, in particolare quelli che si occupano di proteggere comunità indigene, rimane aperto un grande spazio di manovra per un utilizzo delle mappe che contrasti la classica cartografia “alto-basso” e la sua rappresentazione conservatrice dello spazio. In Argentina il più famoso esempio è forse l’attività del collettivo “Iconoclasistas” e le sue “mappe del conflitto”, nelle quali la narrativa del potere è sostituita da quella dei movimenti popolari e degli attivisti, reclamando centralità per le lotte sociali ed ambientali.
Con questi pensieri nella mente e gli occhi fissi sulle tante (troppe) macchie grigie nella mappa di Buenos Aires, alcune questioni ci sorgono spontanee:
Può la cartografia essere una maniera particolare di riprodurre l’informalità attraverso l’invisibilizzazione? Viene usata esclusivamente dallo Stato? Che genere di narrativa simbolica sulle baraccopoli supporta? Ha delle conseguenze pratiche per i suoi residenti? Può essere “rovesciata” al fine di rappresentare le rivendicazioni e le lotte dei suoi abitanti?
Qualcuno laggiù sta cercando di mappare l’informalità
La conformazione particolarmente “murata dentro” di Villa 31 ben si addice ad una definizione di segregazione urbana di Peter Marcuse (1995): “i muri definiscono spazi (…), definiscono la loro natura e la posizione dei suoi residenti nella gerarchia tra di loro, la gerarchia delle città dentro la città”. C’è un collettivo, però, che sta provando a contribuire alla demolizione di quei muri. Si chiama “Talleres de Urbanismo BArrial” (laboratori di urbanismo di quartiere), e sta svolgendo un’attività di “mappatura popolare” di Villa 31 e 31 bis da cinque anni, con l’obiettivo di realizzare una mappa della baraccopoli prodotta dai suoi abitanti. L’idea originale era quella di fare una finta mappa turistica della città in cui includere le villas, e distribuirla, ma presto il progetto si è evoluto in un impegno nel quartiere a lungo termine, basato su metodi partecipativi.
Dopo una fase iniziale di mappatura attraverso differenti tecniche cartografiche, il gruppo, integrato da adolescenti della baraccopoli, sta attualmente attraversando l’ultimo passaggio del processo di mappatura, quello della “socializzazione” della mappa realizzata. Questo step è chiamato “Mapa abierto” (mappa aperta) e consiste nell’incontrare il più alto numero possibile di organizzazioni del “barrio” per mostrare loro la mappa e discutere correzioni e differenti interpretazioni, con l’obiettivo di aumentare la natura collettiva della produzione cartografica. Il risultato finale del progetto sarà una mappa collettiva da distribuire ai residenti della baraccopoli, con la possibilità di coinvolgere i rappresentanti di altre villas ed espandere il progetto nella città. Pur volendo primariamente affrontare il problema della invisibilizzazione cartografica della baraccopoli, con l’obiettivo di “generare alterazioni nella rappresentazione dello spazio urbano, il suo uso e chi è qualificato ad attraversarlo” (Vitale 2013, page 19), Turba fa la sua parte nella vita politica del barrio. Il processo di mappatura è infatti considerato dal gruppo come la costruzione di uno “strumento” che può essere usato per sostenere diverse campagne degli abitanti di Villa 31, come la lotta per l’urbanizzazione promessa, e mai realizzata, dallo Stato. Il motto è “Urbanizzazione con radicamento”, in contrasto con i numerosi tentativi di sgombero di massa intrapresi in passato.
L’adesione a questo orizzonte politico risponde alla nostra domanda rispetto alla possibilità di “invertire” l’uso della cartografia: si, nonostante l’assenza di Villa 31 dalle mappe ufficiali, o magari grazie a questo, un processo collettivo di mappatura può aiutare a costruire una differente visione della città, in cui le rivendicazioni degli abitanti delle villas occupino una posizione centrale. Cosa ne è però delle altre domande? Questa ulteriore invisibilizzazione delle baraccopoli favorisce la riproduzione dell’informalità? Ha degli effetti pratici o simbolici? L’insieme dell’esperienza di Turba nella Villa 31 dà una risposta positiva alle nostre domande.
Oltre alle motivazioni sociali, politiche ed economiche che hanno storicamente determinato lo sviluppo dell’informalità abitativa, “l’invisibilità cartografica” è infatti riconosciuta come un ulteriore e specifico livello di oppressione e di “trattamento differenziato” tra i diversi quartieri della città, corrispondenti a differenti classi sociali. Le baraccopoli soffrono di una scarsa fornitura di servizi, ritardi nella realizzazione dei programmi di urbanizzazione e un generale disinvestimento economico da parte dello Stato, sostituito da versamenti verso attori del terzo settore. In questo quadro di generale abbandono, la mancanza di un riconoscimento cartografico della struttura interna delle villas produce ulteriori difficoltà, come il concretissimo problema di non avere un indirizzo, fondamentale per ottenere un lavoro. Inoltre, nella percezione dei suoi residenti, l’invisibilizzazione delle baraccopoli ha una conseguenza simbolica, cancellando dalla mappa le case dei lavoratori, pur continuando pero a sfruttarli per svolgere i lavori più umili, necessari alla economia della città. Una negazione dell’esistenza delle comunità umane e politiche dei villeros, che va di pari passo con la loro stigmatizzazione sociale in quanto “undeserving citizens”, cittadini non meritevoli della loro stessa casa.
La cartografia come arma per il diritto alla città
Ci sono grandi consonanze tra la situazione di Villa 31 e la teoria del controllo statale dell’informalità. Lo Stato è in grado di determinare lo status di informalità di un insediamento abitativo da un punto di vista legale, legiferando in maniera da istituzionalizzarlo o mantenerlo così com’è, rallentando i programmi di urbanizzazione. Detiene inoltre la capacità esclusiva di applicare a suo piacimento l’informalità: mentre Villa 31 si trova sotto continua minaccia di sgombero a causa della sua natura informale, lo Stato opera spesso all’interno delle baraccopoli utilizzando strutture comunitarie costruite dagli abitanti e mai “formalizzate”. Alcune volte, tuttavia, si mostra benevolo, promettendo ai residenti una istituzionalizzazione attraverso il conferimento di certificati di proprietà delle loro case, ad esempio. Anche in questo caso lo Stato si rivelerebbe tutt’altro che disinteressato, poiché’ dare la possibilità agli abitanti di vendere le proprie case nel mercato immobiliare causerebbe una rapida gentrificazione del quartiere, magari aiutata dalla sua “inesistenza” cartografica. In questi tempi di neoliberismo il monopolio statale sull’informalità può spaziare dal controllo della vita quotidiana delle persone, fornendo o meno l’allacciamento all’acqua, infrastrutture o domicilio, al potere di sfollare intere comunità, direttamente o attraverso l’azione del mercato.
Se le mappe possono aiutare a mantenere il controllo dello Stato sulla riproduzione dell’informalità, esse possono però anche essere utilizzate contro questo monopolio, come dimostra l’esperienza di Turba. Qui la mappa diventa infatti uno strumento per sostenere la campagna di “urbanizzazione con radicamento”, iniziando con l’avere un indirizzo, il “diritto di domicilio”.
In questo senso le rivendicazioni dei villeros possono forse essere intese come una lotta per il “diritto alla città”, dove il “diritto a rimanere” (David Harvey, 2012) si incontra con l’istanza di un trattamento egualitario dei cittadini, sia esso l’urbanizzazione delle loro case, o la loro rappresentazione su di una mappa. In una virtuale “agenda cittadina” dei movimenti sociali la cartografia meriterebbe quindi un posto importante, data la sua natura di, contemporaneamente, mezzo per riprodurre la diseguaglianza e per combatterla. In particolare il suo utilizzo sarebbe sicuramente utile per coloro che operano in insediamenti informali, per analizzare l’ambiente in cui si svolge la loro militanza. Ma non si tratta solo di vantaggi pratici. Oltre al fatto di fornire un mappa della baraccopoli con cui poter pianificare attività o esigere specifici interventi di urbanizzazione, altre potenzialità risiedono sotto la superficie della mera rappresentazione cartografica. Espandendo il concetto di cartografia oltre il suo significato letterale, infatti, essa potrebbe essere usato per “mappare” i confini tra la città formale e quella informale, i collegamenti sociali, economici e culturali tra le baraccopoli e i quartieri. L’interdipendenza economica tra le villas e il resto della città potrebbe essere verificata mostrando i percorsi quotidiani di consumo e lavoro dei sui abitanti, mentre lo studio della loro composizione sociale potrebbe sicuramente aiutare nel gettare una luce sulla relazione tra la classe, i flussi migratori e la riproduzione dell’informalità.
Il carattere partecipativo della mappatura popolare sarebbe quindi portato oltre la carta, aggiungendo ad una rappresentazione condivisa della baraccopoli una ricostruzione della sua identità culturale capace di contrastare lo stigma sociale dominante che vede i villeros come cittadini “non meritevoli” (ed invisibili).
di Dario Clemente*
Bibliografia
Agamben, G. (1998). Homo sacer: Sovereign power and bare life. Palo Alto, CA: Stanford University Press (original in Italian, 1995)
AlSayyad, Roy, 2004, Urban informality: Crossing borders, Urban informality: transnational perspectives from the Middle East, Latin America, and South Asia, Lexington Books, Lanham.
Caldeira do Rio, T. P., 2000, City of walls: crime, segregation, and citizenship in São Paulo. University of California Press.
Harvey, D. (2012). Rebel cities: from the right to the city to the urban revolution. Verso Books.
Marcuse, P. (1995). Not chaos, but walls: postmodernism and the partitioned city. Postmodern cities and spaces, 49, 245-246.
Perlman, J. E., 1979, The myth of marginality: Urban poverty and politics in Rio de Janeiro. Univ of California Press.
Roy, A., 2005, Urban informality: toward an epistemology of planning. Journal of the American Planning Association, 71(2), 147-158
Roy, A. (2009). The 21st-century metropolis: new geographies of theory.Regional Studies, 43(6), 819-830.
Schapira, Marie France (2001): “Fragmentación espacial y social: conceptos y realidades”, en Perfiles Latinoamericanos , año 10, nº 19, México
Vitale Pablo, 2013, Mapas villeros. Acción colectiva y políticas estatales en asentamientos populares de Buenos Aires, Congress of the Latin American Studies Association, May 29 – June 1, 2013,Washington, DC .
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* Dario Clemente, cura un blog interessante dove ha pubblicato anche questo articolo con il titolo “Siamo persone come quelli lì di fronte”. Il blog, invece, lo ha chiamato Tanamericana, perche’ gli Italiani in Argentina saranno per sempre “tanos” (napoletani, come tutti gli spagnoli sono gallegos). Tanamericana poi, spiega Dario, come la strada, panamericana, “che parte dietro casa mia e unisce tutto il continente, scenario privilegiato di quel blog, assieme a tutto il resto del mondo”.
Dario conosce bene Comune-info e gli fa piacere che il suo articolo ci sia piaciuto. Si è laureato in Relazioni Internazionali alla Statale di Milano, master graduate in “Activism and social change” alla University of Leeds (Uk), iscritto al master in Relazioni Internazionali della Facolta’ Latinoamericana di Scienze Sociali (FLACSO-Argentina) di Buenos Aires, vive in Argentina, dove lavora ad un progetto di ricerca dottorale sul ruolo del Brasile all’interno dell’integrazione regionale sudamericana.
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01 09 2015
Ricordate la sorprendente protesta all’Aquila che qualche giorno fa ha messo in fuga il presidente del consiglio? Questo articolo, scritto dal responsabile Pastorale Sociale Arcidiocesi di Lanciano-Ortona, don Carmine Miccoli*, in occasione della Giornata internazionale per la salvaguardia del creato (1 settembre), dimostra quanto siano diffuse e articolate le ragioni del movimento che in Abruzzo rifiuta le trivellazioni nell’Adriatico. Si tratta di un pezzo di un movimento globale contro l’estrattivismo. È il tempo della resistenza, è il momento di “non arrendersi, di camminare insieme – scrive don Carmine – … per contrastare non solo un’economia che uccide la vita e il futuro, ma anche di una politica che ha smarrito il suo interesse per il bene comune”.
Ho appreso con dolore e indignazione la recente firma al decreto che autorizza “Ombrina Mare” 2, l’immenso progetto di estrazione petrolifera al largo della nostra “Costa dei Trabocchi”. In questi anni, ripetutamente e a vari livelli, a nome della Chiesa locale ho espresso profonda preoccupazione per questi progetti di sfruttamento petrolifero, raccogliendo l’accorato appello di tante persone che hanno a cuore la salvaguardia del Creato e invitando con forza coloro che hanno il dovere della difesa del bene comune a custodire l’ambiente di vita dell’Abruzzo.
In questi mesi segnali d’invito alla tutela del Creato, nostra “casa comune” da coltivare e custodire, senza mai lasciarsi guidare dalla ricerca del profitto e da logiche di sfruttamento a danno delle presenti e delle future generazioni, sono giunte anche dalla Chiesa universale. Il prossimo 1° settembre 2015 la “Giornata per la salvaguardia del Creato”, celebrata in Italia da tutte le Chiese cristiane da ormai dieci anni, avrà carattere internazionale, evidenziando sempre più l’importanza di questa sfida crescente per la stessa sopravvivenza del pianeta e dell’umanità.
Nella recente enciclica “Laudato Si’” (qui una lettura critica ambientalista e libertaria della nuova enciclica Il Cantico che non c’era, di Paolo Cacciari ndr), papa Francesco ha lanciato un’appello perché sia accolta “la sfida urgente di proteggere la nostra casa comune comprende la preoccupazione di unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale […] È diventato urgente e impellente lo sviluppo di politiche affinché nei prossimi anni l’emissione di anidride carbonica e di altri gas altamente inquinanti si riduca drasticamente, ad esempio, sostituendo i combustibili fossili e sviluppando fonti di energia rinnovabile” (cf. nn. 13; 26); lo stesso papa, rivolgendosi a chi esercita il potere politico, scrive che “è sempre necessario acquisire consenso tra i vari attori sociali, che possono apportare diverse prospettive, soluzioni e alternative. Ma nel dibattito devono avere un posto privilegiato gli abitanti del luogo, I quali si interrogano su ciò che vogliono per sé e per i propri figli, e possono tenere in considerazione le finalità che trascendono l’interesse economico immediato” (cf. n. 183). Parole in continuità con il Magistero perenne della Chiesa in ambito sociale e allo stesso tempo profetiche, perché sembrano descrivere perfettamente la situazione della nostra terra e dell’opposizione ai progetti petroliferi come Ombrina Mare 2 (qui le 10 ragioni del No a Ombrina, di Maria Rita D’Orsogna) e, più in generale, al modello di sviluppo economico dominante.
Torno ad auspicare che la politica tutta, a partire dal parlamento e dal governo, realizzi la svolta necessaria per rimettere la difesa della vita umana e dell’ambiente naturale al centro del proprio agire, perché coloro che hanno a cuore il bene comune s’impegnino a difendere questa meravigliosa terra, nostra casa comune. Siete ancora in tempo! Fermate questa devastante deriva, tornate indietro sul “si” a progetti come “Ombrina Mare” di queste settimane! In particolare, mi rivolgo ai politici di estrazione cattolica, coloro che rendono pubblica la loro fede cristiana e l’appartenenza alla Chiesa: essere cristiani non è una bandiera da sventolare, ma uno stile di vita impegnativo, un compito permanente e gravoso, per cui la fede non può essere ridotta ad una sorta di appartenenza di comodo, ma deve esprimere l’orientamento e la forza che deve informare tutta la propria azione politica, rivolta alla ricerca del bene comune, in cui trovano spazio i più alti ideali e valori umani.
A coloro che si stanno impegnando per il bene comune e per la salvaguardia del Creato, del presente e del futuro dell’Abruzzo, dell’Adriatico e di tutte le nostre terre, torno ad esprimere, tramite il mio ufficio, la vicinanza della Chiesa e dei suoi Pastori e li invito a non arrendersi, a “camminare insieme” sempre! Continuiamo ad essere espressione di democrazia reale e di amore responsabile per i luoghi di cui siamo custodi, augurandoci di essere esempio vivo di come contrastare non solo un’economia che uccide la vita e il futuro, ma anche di una politica che ha smarrito il suo interesse per il bene comune e per la costruzione di un ordine sociale fondato sulla giustizia e la pace.
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* don Carmine Miccoli, responsabile Pastorale Sociale Arcidiocesi di Lanciano-Ortona. L’articolo è stato segnalato da Alessio Di Florio
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01 09 2015
di Janet Biehl*
In seguito all’esplosione della guerra civile in Siria e al ritiro delle forze governative siriane dal Kurdistan occidentale, ai curdi di quella regione si offrì l’occasione unica di asserire la propria autonomia. Sebbene minacciato dall’espansione dello Stato Islamico che arrivava dall’Iraq, e dall’eccedenza di combattimenti dalla Siria, il movimento rivoluzionario curdo quasi immediatamente dichiarò la supremazia delle nuove istituzioni autonome, un modello politico noto con il nome di ‘confederalismo democratico’, che mira ha ad assicurare l’autogestione democratica di una società senza lo stato.
Una volta stabilite le istituzioni autonome, la necessità di un nuovo tipo di istruzione era primaria. Non che le persone del Kurdistan occidentale non fossero istruite – le percentuali di licenze di scuola superiore erano e sono molto alte, come io e il resto di una delegazione accademica abbiamo appreso durante la nostra visita. L’istruzione era però fondamentale per creare la cultura rivoluzionaria in cui potevano prosperare. Non riguarda soltanto i bambini e i giovani, ma anche gli adulti, perfino gli anziani.
Come ci spiegò Aldar Xelîl, membro del consiglio Tev-Dem, cioè la coalizione politica che governava la regione autonoma di Rojava, il progetto politico di Rojava ‘non riguarda soltanto il cambiamento di regime, ma la creazione di una mentalità che porti la rivoluzione per la società’. Dorîn Akîf, che insegna in due università in Rojava, era d’accordo: “Si deve cambiare la percezione – ci ha detto – perché adesso la mentalità molto importante per la rivoluzione. L’istruzione è determinante per noi”.
Il primo problema che la rivoluzione ha dovuto affrontare è stato quello della lingua da usare per l’istruzione. Per 40 anni, sotto il regime di Assad, i bambini curdi dovevano imparare l’arabo e studiare in arabo. La lingua curda era bandita dalla vita pubblica; il suo insegnamento era illegale e poteva essere punito con la detenzione e perfino con la tortura. E così, quando i curdi siriani presero le comunità nelle loro mani, immediatamente programmarono l’istruzione in lingua curda. La prima di queste scuole che fu aperta, è stata la Scuola Sehîd di Fewzî nel cantone di Efrîn, seguita da una a Kobanê e una a Cizîrê. Nell’agosto 2014 la sola Cizîrê aveva 670 scuole con 3.000 insegnanti che tenevano corsi di lingua curda per 49.000 studenti.
L’università mesopotamica a Qamislo
All’inizio di dicembre la nostra delegazione ha visitato la prima e unica istituzione di istruzione superiore, l’Università mesopotamica di scienze sociali a Qamislo. Il regime di Assad non aveva permesso istituzioni di questo genere nelle zone curde; questa ha aperto nel settembre 2014 ed è ancora in gran parte in costruzione. L’insegnamento e le discussioni si svolgono per lo più in curdo, sebbene le fonti siano spesso in arabo, dato che molti testi essenziali non sono stati ancora tradotti.
Una sfida che affronta l’università, ci hanno detto vari membri dell’amministrazione e della facoltà, è che la gente nella Siria nord-orientale pensa che deve andare all’estero per avere una buona istruzione. “Vogliamo cambiare questa idea – ha detto uno dei docenti – Non vogliamo che le persone si sentano inferiori a causa del luogo dove vivono. In Medio Oriente c’è tantissimo sapere e saggezza, e stiamo cercando di scoprirlo. Molto cose che sono accadute nella storia sono successe qui”.
L’anno scolastico consiste di tre periodi e ognuno dura tre o quattro mesi, e va dalla visione di insieme delle materie, alla specializzazione e ai progetti finali. Il curriculum comprende principalmente storia e sociologia.
Perché quelle materie? Sono essenziali, ci hanno detto. Durante il regime “la nostra esistenza [in quanto curdi] veniva contestata. Stiamo cercando di dimostrare che esistiamo e che lungo il nostro percorso abbiamo fatto molti sacrifici… Ci consideriamo parte della storia, soggetti della storia”. L’istruzione cerca di “rivelare storie di popoli che sono state negate… di creare una nuova vita per superare gli anni e i secoli di schiavitù del pensiero che sono stati imposti alla gente”. Fondamentalmente, il suo scopo è di “scrivere una nuova storia”.
Il curriculum della sociologia assume una posizione critica nei riguardi del positivismo del 20° secolo e cerca invece di sviluppare una nuova scienza sociale alternativa per il 21° secolo, quella che Abdullah Öcalan, il capo del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), ora in prigione, chiama la “sociologia della libertà’. Per il loro progetto finale, gli studenti scelgono un particolare problema sociale, poi fanno ricerche al riguardo, e scrivono una tesi sul modo in cui risolverlo. Quindi l’apprendimento è pratico e anche teorico ed è mirato a servire un bene sociale.
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In effetti, l’istruzione in Rojava non riguarda “costruirsi una carriera e diventare ricchi”. Analogamente, l’accademia cerca di non sviluppare la professionalità, ma di coltivare la persona nella sua completezza. “Crediamo che gli esseri umani siano degli organismi, ma non possono essere tagliati a pezzi, separati in scienze diverse”, ci ha detto un docente. “Una persona può essere scrittore o poeta e interessarsi anche di economia, perché gli esseri umani fanno parte di tutta la vita”.
Al contrario dei convenzionali approcci occidentali, la pedagogia dell’accademia rifiuta la trasmissione dei fatti che vada in una sola direzione. Di fatto, non separa rigidamente gli inseganti e gli studenti. Gli insegnanti imparano dagli studenti e viceversa; idealmente, tramite un discorso intersoggettivo, arrivano a conclusioni condivise.
I docenti non sono necessariamente insegnanti specializzati; sono persone la cui esperienza di vita ha dato loro idee che possono impartire. Un insegnante, per esempio, racconta favole popolari una volta a settimana. Ci hanno detto: “Vogliamo che gli insegnanti ci aiutino a comprendere il significato della vita”. “Ci concentriamo sul dare un significato alle cose, sull’essere in grado di interpretarle e commentarle e anche di analizzarle”.
Gli studenti fanno gli esami che però non misurano la conoscenza e sono più dei ripassi, dei dialoghi. E i docenti stessi sono soggetti alla valutazione da parte degli studenti. Un allievo può dire: “Non ha spiegato questo molto bene”. Un insegnante che viene criticato deve sviscerare l’argomento con lo studente fino a quando entrambi sentono che si sono capiti.
L’Università delle donne a Rimelan
L’Università delle donne Yekitiya Star (nome di un’organizzazione femminile) spinge più avanti l’approccio all’istruzione rispetto all’Università Mesopotamica. La nostra delegazione ha visitato anche questa all’inizio di dicembre.
Fondata nel 2012, il suo scopo è di educare i quadri rivoluzionari femminili, e quindi naturalmente l’enfasi sull’ideologia è più pronunciata. Negli scorsi trent’anni, ci ha detto la docente Dorîn Akîf, le donne partecipavano al movimento curdo per la libertà, prima come combattenti, poi nelle istituzioni femminili. Tre anni fa le donne curde crearono la jineolojî, o ‘scienza delle donne’, che considerano il culmine di quella esperienza pluridecennale.
All’Università di Rimelan agli studenti si offre prima una panoramica generale della jineolojî, “il tipo di sapere che era stato rubato alle donne” e che le donne ora possono recuperare. “Stiamo cercando di superare la non-esistenza delle donne nella storia. Tentiamo di comprendere in che modo si producano i concetti e si riproducano all’interno delle relazioni sociali esistenti, poi mettiamo insieme la nostra propria idea. Vogliamo stabilire una reale interpretazione della storia guardando il ruolo delle donne e rendendo le donne visibili nella storia”.
La jineolojî, ci ha detto Dorîn Akîf, considera che le donne siano “le protagoniste principali nell’economia, e l’economia la principale attività delle donne… La modernità capitalista definisce l’economia come responsabilità primaria dell’uomo. Noi però diciamo che non è vero, che sempre e dovunque le donne sono le protagoniste principali dell’economia”. A causa di questa fondamentale contraddizione, Dorîn sostiene, la modernità capitalista alla fine sarà vinta.
Il modo in cui le persone interpretano la storia influenza il modo in cui esse agiscono, e quindi “parliamo dell’organizzazione sociale pre-sumera. Esaminiamo anche in che modo lo stato è apparso storicamente e come il concetto è stato costruito”, ha aggiunto Akîf. Però il potere e lo stato non sono la stessa cosa. “Il potere è ovunque, ma lo stato non è ovunque. Il potere può operare in modi diversi”. Il potere, per esempio, è presente nella democrazia della gente comune, che non ha a che fare con lo stato.
La jineolojî considera che la quintessenza delle donne sia democratica. La Star Academy istruisce gli studenti (sono essenzialmente donne) nell’educazione civica di Rojava. “Consideriamo i meccanismi politici, parlamenti delle donne, comuni delle donne, e i parlamenti generali [misti], le comuni miste, i parlamenti di quartiere. Qui in Rojava abbiamo sempre avuto sia quelli misti che quelli esclusivamente femminili. In quelli misti, la rappresentanza delle donne è il 40 per cento, e inoltre c’è sempre una co-presidenza per assicurare la parità.’
Come all’Università Mesopotamica, agli studenti della Star Universty si insegna a considerarsi cittadini, con ‘il potere di discutere e costruire… Non esistono l’insegnante e lo studente. La sessione è costruita sulla condivisione delle esperienze”. “Gli studenti vanno dagli adolescenti alle nonne. Alcuni sono laureati dell’università, e alcuni sono analfabeti. Ognuno ha del sapere, ha la verità nella propria vita, e ogni conoscenza è fondamentale per noi… La donna più vecchia ha esperienza. Una donna di 18 anni è spirito, è la nuova generazione che rappresenta il futuro.’
Ogni programma si conclude con una sessione finale che si chiama la piattaforma dove ogni studentessa si pone e dice in che modo parteciperà alla democrazia di Rojava. Entrerà in un’organizzazione o nelle Unità di Protezione delle Donne (YPJ), o parteciperà a un consiglio di donne? Che tipo di responsabilità assumerà?
Abbiamo fatto delle domande a Dorîn circa gli insegnamenti dell’Università riguardo al genere (una parola che in curdo non esiste). “Il nostro sogno – ha detto – è che la partecipazione delle donne e la costruzione della società a opera loro, cambierà gli uomini e che emergerà un nuovo genere di maschilità. I concetti di uomini e donne non hanno una base biologica – siamo contrari a questa idea. Definiamo il genere come maschile e la maschilità in connessione con il potere e l’egemonia. Naturalmente crediamo che il genere sia fabbricato dalla società”. Inoltre ha spiegato. “Il problema femminile non riguarda unicamente le donne: è inserito nella società, e così l’esclusione delle donne è un problema della società. Quindi dobbiamo ridefinire le donne e la società insieme e contemporaneamente. Il problema della libertà delle donne è il problema della libertà della società“.
Ha continuato citando una frase di Öcalan, “Uccidere l’uomo”, che è diventata uno slogan che significa che “l’uomo maschio deve cambiare. Analogamente, ha detto Dorin, la soggettività colonizzata delle donne, o femminilità, deve essere eliminata. L’ambizione sociale impersonata dall’Università è di superare il dominio e il potere egemonico e di “creare una vita uguale insieme”.
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Janet Biehl è una scrittrice indipendente, artista e traduttrice. È autrice di Ecology or Catastrophe: The Life of Murray Bookchin, [Ecologia o catastrophe:la vita di Murray Bookchin], in corso di pubblicazione a cura della Oxford University Press. Questo articolo – originariamente apparso su redpepper.org e in forma più lunga sul sito: biehlonbookchin.com – è stato scelto e tradotto per Z Net Italia da Maria Chiara Starace (che ringraziamo).
Traduzione © 2015 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY NC-SA 3.0
La Mesopotamian Academy ha lanciato un appello per avere libri, allo scopo di creare una biblioteca multilingue. Per ulteriori informazioni visitate la pagina di Facebook ‘Donate a book to Mesopotamia Academy’ [Regalate un libro all’Accademia Mesopotamica].
Fancesco Gesualdi, Comune.info
29 agosto 2015
Ci sono due modi di fare politica a sinistra: facendo cambiare le cose con l'obiettivo di fare avanzare un progetto alternativo o cercando di correggere solo gli aspetti più odiosi, accettando il sistema com'è.
Comune - info
26 08 2015
Il crollo delle Borse cinesi ha contagiato i principali mercati finanziari ma l’incendio è una finanza ipertrofica, autoreferenziale e intrinsecamente instabile. Se non si parte dall’ammettere questa evidenza, la bolla cinese sarà solo l’ennesimo – non certo l’ultimo – episodio di una lunghissima serie. Colpisce vedere come molti attribuiscano la responsabilità del panico che s’è diffuso all’incapacità del governo cinese di porre un freno al crollo delle Borse. Chi invoca l’efficienza del libero mercato finché le cose vanno bene, si trova spesso in prima fila a implorare il sostegno pubblico quando il giocattolo si rompe.
Una crisi che nasce da una guerra monetaria, in cui ogni Paese svaluta nel tentativo di aumentare l’export per migliorare il proprio bilancio pubblico; una conseguente guerra commerciale e una concorrenza esasperata tra nazioni per esportare più del vicino; un inevitabile rallentamento del gigante asiatico, dopo anni di crescita in doppia cifra. Sono diverse le spiegazioni che si leggono negli ultimi giorni, dopo il crollo delle Borse cinesi e il conseguente contagio ai principali mercati finanziari. Diverse spiegazioni che contengono sicuramente elementi di verità, ma che trascurano probabilmente l’aspetto determinante. Le Borse cinesi venivano da tre anni consecutivi di rialzi praticamente senza interruzione. Più che rialzi, anni di esplosione irrefrenabile. Per quella di Shenzen parliamo di circa + 150% in 12 mesi, poco meno per quella di Shanghai.
Era davvero così imprevedibile pensare che un tale aumento fosse insostenibile, che si trattasse di una bolla? E’ davvero possibile oggi sorprendersi per un repentino crollo di fronte all’ennesima, evidente manifestazione del (mal)funzionamento della finanza? E’ possibile imputare tale scoppio a una crescita che potrebbe fermarsi al 6 o 7% del PIL invece dell’8% previsto? Il problema è in un 1% in meno di PIL o nel 150% in più di valore degli attivi finanziari?
Per capire cosa stia succedendo in Cina, si può tornare indietro di qualche anno. Il Paese ha intrapreso una profonda trasformazione della propria economia, cercando di passare dall’essere la “fabbrica del mondo” con una produzione prevalentemente orientata all’export, a un sistema maggiormente rivolto ai consumi e alla domanda interna. Una trasformazione che ha subito una forte accelerazione dopo lo scoppio della bolla dei subprime nel 2007, quando le esportazioni hanno subito un brusco rallentamento a seguito della crisi delle principali potenze occidentali.
epa00181839 Chinese workers assemble televisions at a factory of leading electronics producer Hisense, in Guiyang, southwest China's Guizhou Province, Thursday, 29 April 2004. This month the U.S. Department of Commerce slapped hefty anti-dumping duties against several Chinese color-television producers such as Hisense. The duties will not be finalized until late May when the US rules on whether their tv industry has really been hurt by the imports. Hisense has reacted by increasing production of digital tv products. Several Chinese tv producers have said they will file a court case with the US Court of International Trade if the duties are finalized. EPA/MICHAEL REYNOLDS
Per rilanciare la domanda interna il governo ha messo in piedi enormi investimenti in infrastrutture, mentre in parallelo si assiste a un aumento degli stipendi e quindi del potere d’acquisto. Prima ancora, però, è stato chiuso un occhio – se non incentivato – il ricorso all’indebitamento da parte dei privati. Sia quello bancario, sia soprattutto tramite canali informali e paralleli, una sorta di sistema finanziario ombra fatto di prestiti personali, di società più o meno autorizzate dai trust ai fondi strutturati ai più diversi canali. La speranza era di sostenere la crescita tramite una domanda interna fondata sull’indebitamento.
Il problema di fondo è però che sempre più persone sono ricorse a tali strumenti non per finanziare i propri consumi o l’acquisto della casa, ma per acquistare azioni e titoli finanziari, attratte dagli aumenti degli indici di Borsa. L’arrivo massiccio di capitali spingeva al rialzo i titoli, il che attirava nuovi investitori, spingendo ulteriormente al rialzo i titoli, in una spirale che si auto-alimenta. Un numero incredibile di persone si sono lanciate in questa apparente corsa all’oro. Secondo un articolo di luglio del New York Times, c’erano 112 milioni di conti aperti alla Borsa di Shanghai e 142 a quella di Shenzen. Circa 20 milioni di nuove posizioni sono state aperte nella sola primavera del 2015. In massima parte, parliamo di piccoli risparmiatori totalmente a digiuno di finanza, e che si sono lanciati non solo impiegando i propri risparmi, ma spesso indebitandosi.
Capitali a cui si sono sommati quelli in arrivo dall’Europa, dagli USA e dagli investitori di tutto il mondo, attratti dall’Eldorado delle Borse cinesi a fronte di un ristagno dell’economia in patria. In altre parole, l‘ennesima bolla che testimonia l’intrinseca instabilità della finanza. Alla base della teoria dei mercati efficienti che domina l’attuale visione economica, c’è il fatto che domanda e offerta formano il prezzo, e il libero mercato ha quindi un meccanismo per l’appunto incredibilmente efficiente di auto-regolamentazione: se aumenta la domanda di un prodotto tende ad aumentare il prezzo, ma questo porta a una diminuzione della domanda, e quindi a un nuovo equilibrio. Peccato che il mercato più centrale e importante del capitalismo moderno, il mercato dei soldi, ovvero la finanza, funzioni in maniera diametralmente opposta: la domanda di un titolo ne fa salire il prezzo, e questo, all’opposto della teoria dei mercati efficienti, porta a un ulteriore aumento della domanda, il che spinge al rialzo il prezzo, e così via, fino all’inevitabile formazione di una bolla.
All’inizio dell’estate gran parte delle quotazioni azionarie era al di fuori di qualsiasi fondamentale economico. Uno dei principali indicatori del valore di un’azione è il rapporto P/E (Price / Earnings). Semplificando, il rapporto tra la quotazione di un titolo e gli utili che genera. Si stima solitamente che un valore “corretto” del P/E sia intorno a 15 (chiaramente il dato dipende da diversi fattori). A fine giugno il valore medio a Wall Street era 21,2, quello sulle Borse cinesi un incredibile 85. Eppure sempre più persone continuavano a comprare, fino a che la bolla, come sempre avviene, non è scoppiata.
Ci si può adesso interrogare sui motivi, ma probabilmente poco importa sapere quale sia stato il classico battito d’ali di farfalla che ha scatenato la tempesta, se una mossa sbagliata di una banca centrale, una stima leggermente rivista al ribasso di crescita del PIL o altro. Semmai nel dibattito attuale colpisce vedere come molti riescano a dare le responsabilità del panico che ha colpito i mercati di tutto il mondo all’incapacità del governo cinese di porre un freno al crollo delle Borse. Spesso gli stessi che invocano l’efficienza del libero mercato finché le cose vanno bene sono poi in prima fila per implorare il sostegno pubblico quando il giocattolo si rompe.
Difficile invocare l’aiuto del pubblico solo per raccogliere i cocci. Difficile imputare la situazione attuale a questioni monetarie o commerciali, che sono al più la scintilla che ha scatenato l’incendio. L’incendio, per l’ennesima volta, è una finanza ipertrofica, autoreferenziale e intrinsecamente instabile. Ma se non si parte da questa evidenza, la bolla cinese sarà unicamente l’ennesimo – ma non l’ultimo – episodio di una lunghissima serie.