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20 04 2015
di Rosaria Gasparro
ORIA (BRINDISI), DOMENICA 19 APRILE – «Ci sono posti dove bisogna esserci, perché se non ci siamo cosa racconteremo ai nostri figli» dice Florenza Mongelli alla fine del suo “Parole e suoni dalla natura” sotto uno degli ulivi segnati di rosso. Per questo domenica siamo ad Oria, dove hanno abbattuto gli alberi. Per questo qui c’è un presidio permanente di giovani che non ci tengono che si racconti di loro. Non ci tengono a parlare. L’importante per loro è esserci. Sono quelli che sono saliti sugli alberi, sulle ruspe. Che lo rifaranno. È da qui che vogliono ripartire. È da qui che vogliono costruire consapevolezza ecologica su come abitare la terra, su come prendersi cura.
Mattia Pantaleoni mostra praticamente come autoprodurre biofertilizzanti. Una chimica amica per una terra libera dai veleni, un laboratorio di agricoltura organica e rigenerativa (leggi anche Manuale di tecniche naturali per curare un uliveto).
Con “Verde brillante”, alle radici del problema, inizia una dichiarazione d’amore per gli alberi. Un elettrodo nelle radici e uno sulle foglie e si diffonde il suono dell’ulivo, le vibrazioni della sua linfa catturate dal sintetizzatore e trasformate in musica dal pianoforte. È un suono malinconico, l’albero non sta bene, ma è vivo. Quando qualcuno lo tocca il suono si arresta, continua se a farlo è un bambino. Perché gli alberi sono sensibili, ci dicono Antonella Cavallo (autrice della “Musica delle piante”) e Fiorenza, «possiedono tutti e cinque i sensi dei quali è dotato l’uomo: vista, udito, tatto, gusto e olfatto. Ognuno sviluppato in modo «vegetale», s’intende, ma non per questo meno affidabile. È dunque lecito pensare che da questo punto di vista siano simili a noi? Tutt’altro: esse sono estremamente più sensibili e, oltre ai nostri cinque sensi, ne possiedono almeno un’altra quindicina. Per esempio, sentono e calcolano la gravità, i campi elettromagnetici, l’umidità e sono in grado di analizzare numerosi gradienti chimici».
Luigi D’elia racconta in modo struggente “La Grande Foresta” davanti ad uno degli alberi secolari abbattuti. La foresta che una volta copriva il Salento e sentiamo il brivido pensando alla foresta di oggi. Che qui ha gli occhi che ti guardano. «Sette volte bosco, sette volte prato e tutto tornerà com’era stato» dice il bambino della storia ed è la foresta che continua a crescere.
Settecento in fondo al mare. Siamo qui per gli ulivi ma siamo anche lì. C’è un collegamento sentimentale, dice Jean Claude. Con chi soccombe per l’indifferenza, una specie tutta umana di xylella.
* Maestra di una scuola primaria pubblica, vive a San Michele Salentino (Brindisi). Altri suoi articoli sono qui. L’adesione di Rosaria alla campagna di Comune-info “Ribellarsi facendo”
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20 04 2015
Via Campesina
La Via Campesina Internazionale ha definito il 17 aprile ‘Giornata Internazionale delle Lotte Contadine’, per rendere visibile e denunciare la criminalizzazione delle proteste, le persecuzioni e la violenza che i contadini devono affrontare quotidianamente a causa dell’instaurazione del modello neoliberista e dell’agrobusiness nelle campagne. Per il Movimento Contadino internazionale è urgente facilitare l’approvazione della Dichiarazione dell’Onu sui Diritti dei Contadini e delle altre persone che lavorano in zone rurali, come strumento di lotta per garantire una vita dignitosa nelle campagne.
Questo 17 aprile 2015, la Via Campesina Internazionale centrerà la sua mobilitazione sugli impatti delle Imprese Transnazionali e dei Trattati di Libero Commercio rispetto all’Agricoltura Contadina e alla Sovranità Nazionale. Per questo, nella Giornata di Azione Globale vi invitiamo a rafforzare la lotta sociale e l’organizzazione dei popoli in tutto il mondo per rivendicare la terra e la riforma agraria, così come il diritto ancestrale alla terra e ai territori, come condizioni indispensabili per l’Agricoltura Contadina e la Sovranità Alimentare dei Popoli.
Dal 1996 – in memoria del massacro di 19 contadini senza terra del Brasile – nel movimento contadino internazionale cresce e si consolida la giornata di azione e mobilitazione globale, rafforzando solidarietà e resistenza, così come approfondendo l’alleanza tra campo e città a favore di un progetto di società basata sulla giustizia sociale e la dignità dei popoli.
Noi contadine e contadini, indigeni, afrodiscendenti, senza terra lottiamo per un modello di Agricoltura Contadina e sovrana per la quale i Trattati di Libero Commercio (T-tip) costituiscono in realtà trattati di libera spoliazione, espulsione e scomparsa dei contadini, poiché si basano su un’agricoltura capitalista, industriale, sussidiata e altamente tossica che si negozia sotto l’influenza e gli interessi di poche transnazionali.
Per la Via Campesina le politiche di apertura e i processi di deregolamentazione favoriscono solo le transnazionali, visto che i Trattati e Accordi Commerciali che siano multilaterali o bilaterali tendono fondamentalmente a proteggere le imprese straniere stabilendo un insieme di condizioni, misure e regole per assicurare la piena protezione degli investimenti delle imprese straniere, mentre questa liberalizzazione del mercato produce gravi impatti economici e sociali sui contadini tanto del nord come del sud. Con i TLC i diritti commerciali sovrastano tutti gli altri diritti.
Per esemplificare, attualmente, si discutono gli Accordi di Libero Commercio e Liberalizzazione degli Investimenti tra Ue, Usa e Canada, che sarebbero i più importanti accordi mai firmati. Questi avranno un impatto globale e determineranno nuove norme in favore delle transnazionali. E queste forniranno gli strumenti per manipolare tutti i regolamenti, le norme e le politiche pubbliche per accrescere i propri benefici: il meccanismo di Risoluzione dei Conflitti tra Investitori e Stati (RCIE/ISDR) e il Consiglio di Cooperazione Regolativo. Pertanto, gli Stati, le regioni e le comunità perderanno il loro potere di proteggere i cittadini e il loro ambiente.
In questo contesto, denunciamo l’ “arbitrato”, meccanismo che usano queste imprese transnazionali, che è costituito da una sorte di globalizzazione, transnazionalizzazione e privatizzazione del sistema giuridico, nel quale le imprese private dettano le norme, come strategia per rendere più deboli gli stati e la sovranità nazionale. Nel caso della tristemente celebre Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC/WTO) che tenta di reinventarsi per non perdere di significato, quest’anno porta avanti una nuova offensiva contro i sistemi nazionali di produzione, distribuzione e stoccaggio degli alimenti, cercando di indebolire i sistemi pubblici di protezione nei confronti del popolo.
In questa Giornata di Azione Globale, la Via Campesina invita le proprie organizzazioni, alleati e amici a realizzare una serie di azioni nei vari paesi e territori con il fine di rafforzare questa lotta globale. Queste attività possono essere mobilitazioni, occupazioni di terre, scambio di semi, mercati della sovranità alimentare, dibattiti, eventi culturali, ecc.
Vi chiediamo di registrare queste azioni inviando informazioni perché possiamo renderle visibile questa grande giornata mondiale di lotta (mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. ) Pubblicheremo una mappa delle azioni in tutto il mondo www.viacampesina.org Per condividere foto, video ecc il sito è www.tv.viacampesina.org
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15 04 2015
di Rete attitudine No Expo
Il Primo Maggio non sarà la giornata di inaugurazione di un Grande Evento.
Il Primo Maggio va in scena il teatrino, che presenta come eccezionale un paradigma, che in realtà si sta già affermando sul territorio lombardo e su quello nazionale.
Expo non è limitato a un periodo di tempo, non è circoscritto ad una determinata regione, Expo è l’emblema di un sistema di gestione dei territori che travalica la territorialità del qui ed ora, che sfrutta la logica del grande evento, dello stato di eccezione, per mettere i suoi tentacoli in ogni angolo della metropoli e della società: dall’alimentazione al lavoro, passando agli umilianti discorsi rispetto al ruolo della donna (leggi anche Note critiche a margine dell’Expo di Gea Piccardi, ndr), alla consegna della città alla speculazione edilizia e alla corruzione. Expo non inventa nulla, raccoglie e istituzionalizza percorsi d’attacco ai diritti, alla vita, al futuro che da anni subiamo. Expo è un modello di governance, uno strumento del capitale, quindi è un acceleratore di processi neoliberali che vanno dal superamento dello stato nazione e delle sue rappresentazioni sotto forma di democrazia rappresentativa, alla speculazione e all’esproprio di ricchezza dal territorio e di sfruttamento delle vite, passando per l’imposizione della logica del “privato”. Expo, assieme a “grandi eventi” (Mondiali di calcio ed Olimpiadi), Grandi Opere e gestione dei grandi disastri ambientali ha, quindi, un ruolo centrale in questa fase del capitalismo.
Partendo dalla speculazione sui terreni agricoli, il “governo Expo” accelera i processi di svendita del patrimonio pubblico e di “privatizzazione all’italiana”: si costituiscono aziende di diritto privato che in realtà sono costituite da enti pubblici (vedi Expo spa); vengono drenate risorse a settori di supporto sociale, come l’abitare, la mobilità accessibile, la cultura; si attivano ingenti processi di cementificazione di aree urbane ed extraurbane (centinaia di km du asfalto tra Teem, Brebemi, Pedemontana e la distruzione dei parchi a sud-ovest di Milano per realizzare la via d’acqua) che stravolgono l’assetto urbanistico e la vivibilità dei quartieri.
Negli oltre sette anni di re-esistenza, come rete NoExpo abbiamo più volte descritto e semplificato questi processi, ascrivibili al modello Expo, secondo lo schema debito, cemento, precarietà, mafie, spartizione, poteri speciali, nocività, mercificazione di acqua e cibo e anche corruzione culturale, sociale, politica, ideologica. A queste parole hanno corrisposto vicende, fatti e inchieste che Expo ha generato e che hanno confermato quanto affermiamo da tempo: Expo non è un’opportunità ma un problema e una minaccia non solo per Milano ma per l’intero Paese. Con l’apertura dei cancelli di Expo, queste parole d’ordine saranno il filo conduttore delle analisi e delle mobilitazioni che porteremo avanti nei prossimi mesi.
Attraverso la mistificazione delle idee di ecologia e di sostenibilità e dell’importanza di un’alimentazione sana, Expo si tinge di verde, con la green economy e il greenwashing, per mascherare l’ipocrisia di un approccio al tema tutto interno al modello economico neoliberista, in continuità con esso nel promuovere le politiche legate agli investimenti di multinazionali dell’alimentazione, del biologico a spot e dell’agricoltura intensiva ed industriale. Un evento, a sentire la propaganda, così dedito alla natura e all’ecologia che dovrebbe favorire i piccoli contadini ed un rapporto diretto con la terra, che si basi sull’acquisto solidale, la vendita diretta, il chilometro zero, la diffusione del biologico all’intera popolazione, in definitiva l’accesso per tutti al cibo.
Tuttavia, basta un’occhiata a sponsor e aziende partner di Expo per comprendere l’ipocrisia dei discorsi ufficiali. La partecipazione delle principali multinazionali dell’industria alimentare (basti pensare a McDonald’s) e della grande distribuzione; l’investimento sull’evento da parte di colossi dell’agroindustria che detengono il monopolio sulla mercificazione delle sementi e sulla gestione di quelle geneticamente modificate (e che moltiplicano in questo modo rapporti di dipendenza dei paesi economicamente più indigenti verso quelli più ricchi); il supporto alle politiche di sfruttamento intensivo dei terreni e il sostegno ad un’agricoltura di tipo industriale, che segue le regole del mercato schiacciando l’attività agricola rurale, sono tutti elementi che raccontano un modello che nulla ha a che fare con il “ritorno alla terra”. Un concetto, sia chiaro, emerso in funzione della cattura, all’interno della ragnatela di Expo, dei soggetti socialmente attivi sul tema, attirati da un immaginario, frutto di una semplificazione e d’un appiattimento, utile più a vendere un prodotto che a risolvere problemi o presentare alternative.
Coca-Cola, McDonald’s, Nestlè, Eni, Enel, Pioneer, Dupont, Selex, e altre aziende sponsor dei padiglioni nazionali, rappresentano alcune delle aziende responsabili dell’inquinamento di terre e mari, di deforestazioni, di nocività e morti sul lavoro, di allevamenti come campi di concentramento, di armi da guerra e di nuove tecnologie di controllo utilizzate sia in ambito militare che civile, non certo modelli da imitare. Così come la presenza di stati come Israele o di altri regimi dittatoriali, per quanto occultata dietro la retorica del cibo strappato al deserto o altre amenità, non può far scordare le politiche genocide o autoritarie di certi Paesi. Ricordiamo che Israele coltiva si nel deserto, ma grazie all’acqua rubata al popolo palestinese.
E la propaganda di Expo non può nascondere le reali conseguenze di questo grande evento: cemento su campi agricoli nei pressi delle aree espositive col contentino di semina di qualche mq in città, decine di chilometri di nuovi percorsi autostradali su aree agricole o parchi, con il taglio di migliaia di piante e la distruzione di habitat, opere tanto edonistiche quanto nocive per l’ambiente e inutili per la società.
CIBO
L’alimentazione è il tema principale di Expo, ma il modo in cui è affrontata distorce volontariamente alcuni concetti chiave in materia agroalimentare. Expo è un evento-ponte per modellare il vestito nuovo del neo-capitalismo, la green economy che usa concetti come “benessere animale” o “sovranità alimentare” per darsi credibilità.
È evidente quanto il modello Expo sia lontano dal concetto di sovranità alimentare, visto il supermarket del futuro proposto da Coop e M.I.T. e basato sul “consumatore integrato”, cioè un individuo con un conto corrente e la disponibilità di tecnologia di ultima generazione per poter scegliere il cibo, informarsi sull’intera filiera produttiva e riceverlo a casa con i droni. Da buon magnate democratico Expo ha pensato anche a chi non potrà permettersi questo prospero futuro e ha aperto i suoi spazi a McDonald’s, probabilmente il colosso alimentare più cancerogeno e schiavista al mondo.
La formula “benessere animale”, recuperata della propaganda Expo e ripetuta come un mantra dai suoi partners alimentari, è un mal simulato tentativo linguistico di edulcorare i drammatici processi dell’allevamento. Sappiamo bene che è un concetto inventato per rendere più accettabile la catena di smontaggio da individui a cibo, in modo da confortare i consumatori, oggi apparentemente consapevoli e attenti all’intero processo dell’alimentazione. Riteniamo che non è importante quanto gli animali da reddito vivano bene, come crede di insegnare Slow Food, ma è importante che ognuno di loro possa autodeterminare la propria esistenza e il proprio habitat e lo si sganci dal considerarlo come merce produttiva all’interno di un modello alimentare antropocentrico.
FREE JOBS
“Nutrire il Pianeta, Energia per la vita” quindi, uno slogan che in superficie tratta, nella maniera appena descritta, il tema dell’alimentazione, e nel profondo funge da alibi dietro cui si nascondono il cemento dei piani di gestione del territorio nazionale e in cui si sostanzia una precarietà lavorativa, che oltrepassa la dimensione della crisi e diventa dispositivo strutturale per giustificare le politiche di austerity che sottendono al sistema capitalista e alla sua sopravvivenza.
Expo si fa quindi laboratorio di sperimentazione di nuove politiche sul lavoro che hanno, da una parte lo scopo di anticipare le legislazioni che riguarderanno tutto il paese, e che in gran parte il Jobs Act ha già realizzato, dall’altra quello di garantire un evento in cui la redistribuzione della ricchezza è assente o riservata solo a chi sta in cima alla piramide. Attraverso deroghe al patto di stabilità e accordi con i sindacati confederali, viene sancito, con Expo, lo stravolgimento del lavoro a tempo determinato. Permettendone la somministrazione incontrollata e il rinnovo del 100 per cento del personale utilizzabile tra un contratto e l’altro, si abbassa la percentuale di assunzione dopo il periodo di apprendistato, si determinano condizioni di stage che poco hanno a che fare con l’ambito formativo e invece che riguardano direttamente lo sfruttamento lavorativo.
Ciliegina sulla torta di Expo è l’esercito di volontari ottenuto grazie ai suddetti accordi che permettono ad aziende e datori di lavoro di servirsi del lavoro gratuito. All’inizio 18.500 persone solo sul sito, poi fermi a 7.000 per carenza di candidature, poi cifre di cui diventa difficile comprendere il fondamento. Quel che è certo è che i volontari saranno la tipologia prevalente di manodopera per Expo. È la ramificazione nella ramificazione: per Expo si cercano lavoratori disoccupati da inserire nei processi di perenne occupabilità, per Expo lavoreranno gratuitamente i Neet e gli studenti medi e universitari, cui vengono imposti progetti e lavori con il ricatto del voto finale, della maturità, della promozione o del “fare curriculum”.
Con Expo viene quindi esplicitato l’obiettivo delle politiche lavorative delle ultime due decadi: da lavoratori a tempo indeterminato si è costretti ad accettare qualsiasi forma di tempo determinato; politiche che hanno portato a una crescente precarietà culminante, ora, nello sfruttamento tout court. Con Expo continua l’economia della speranza rivolta al lavoro, per cui la condizione di sognare un futuro prima o poi stabile parte già dal mondo della formazione e si materializza nel tempo sempre più come un miraggio irraggiungibile, mentre si alimenta il sistema di liberalizzazione del mercato del lavoro attraverso l’impiego di agenzie interinali come Manpower, macchine di precarizzazione che agiscono sui territori da tempo. Una speranza che, in fondo al percorso, diviene ricatto e minaccia d’esclusione sociale, agito per rimpolpare un esercito di riserva mai così numeroso.
SOCIAL?
Expo è al contempo, quindi, l’emblema di una fabbrica di sogni e di immaginari e una farsa. Le promesse di un futuro migliore, la “pulizia” e l’eticità attraverso la categoria del “biologico&tradizionale”, “buono, sano e giusto” dice Expo dopo aver fagocitato Slow Food e con esso l’operazione “Expo dei Popoli”. Questo contenitore di oltre 40 ONG, associazioni e reti contadine vuole cavalcare “l’occasione” del grande evento, ma attraverso le sue rappresentanze non esprime una critica alla squallida speculazione sul vivente messa in campo dal grande evento, giustificando e legittimando così tutte le logiche di cui Expo si fa vetrina. Non ci si può dire contro, dichiararsi per la sostenibilità ed essere complici di Expo 2015.
Non contento di aver fagocitato senza particolari resistenze questa fetta di mondo associativo e di società civile, che si dice attenta alle “compatibilità”, Expo rilancia con il tentativo di creare una piattaforma sensibile alle questioni di genere. In un primo momento il carattere “gay friendly” di Expo, con la volontà di creare una gay street in via Sammartini e di presentare uno scenario attento al mondo della diversità di genere, ha fatto ben sperare tutto quel giro di locali e affini che speculano sulle identità, e tutti i sinceri democratici che han creduto in un’apertura sociale del grande evento. Ma le carte in tavola si sono scoperte velocemente: la denuncia del processo di ghettizzazione alla base della creazione di luoghi “per gay” e il patrocinio di Expo ad un evento omofobo nel gennaio 2015, hanno svelato la vera natura di Expo rispetto alle questioni di genere e l’uso strumentale delle stesse. Tale natura viene confermata anche dalla creazione di un portale “Women for Expo” che diffonde una rappresentazione della donna come nutrice, cuoca e madre, parametri funzionali alla conferma di immaginari che vedono la donna relegata ad un unico ruolo e subalterna ai meccanismi di governo della società e dei territori.
Come si chiama la mascotte d Expo? Sfruttolo? Foody? Chissà
IL PARADIGMA
Milano è diventata il laboratorio di un paradigma che vuole imporre un modello di sviluppo e governance che trasforma irreversibilmente e in modo lesivo la società e i territori. Vediamo la nostra città trasformata, modellata per farla diventare una bomboniera da vetrina, facendo tabula rasa della memoria dei quartieri popolari e del verde cittadino. Un modello che prevede l’accumulo di ricchezza a favore di quei pochi che regolano il gioco del settore edilizio o che gestiscono in generale le eccedenze di profitto; ci sottraggono territorio, beni comuni, servizi, reddito per darli in pasto ai grandi squali dell’edilizia o della finanza, mentre le aziende appaltanti intascano mazzette. Lo scenario dell’Expo era allestito per far da copertura a queste operazioni e mettere in moto un nuovo dispositivo predatorio.
Questa è la crescita tanto decantata dalla Troika. Questo il tipo di progresso che si sta promuovendo: un avanzare effimero che serve a rigenerare la finanziarizzazione di beni e servizi e la sottomissione di regole e priorità alle esigenze del mercato, applicate in tutti i settori, perfino nell’immaginario, per darsi autogiustificazione. Il paradigma Expo vorrebbe continuare a costruire un mondo che si è già dimostrato superato, protagonista della crisi iniziata nel 2007, e che cerca di rialzarsi calpestando le sue stesse macerie.
L’ATTITUDINE NOEXPO
Il rifiuto di questo modello e il suo superamento nella propulsione di altre logiche sta alla base dei nostri ragionamenti e porta la rete dell’Attitudine NoExpo a individuare le seguenti priorità:
• Fermare l’estrazione di risorse e lo smantellamento dei servizi e dello stato sociale per promuovere la tutela del bene comune e del bene pubblico
• Riaffermare la sostenibilità della vita attraverso l’abbattimento della precarietà, l’attenzione all’utilità del lavoro ed alla sua retribuzione. Combattere la precarietà come dato acquisito e destinare, ad esempio, le risorse finanziarie dedicate a questi eventi ai settori lavorativi messi in ginocchio dalle nuove legislazioni
• Trovare nella lotta ad Expo la possibilità di un fronte sociale comune, bloccando immediatamente la logica del lavoro gratuito in favore di quella del reddito garantito
• Promuovere la cura dell’educazione e della formazione che devono tornare a focalizzarsi sullo scambio di saperi e non sulla compravendita di energie da impiegare nel mercato seguendo bisogni determinati unicamente da logiche di consumo. Ripartire dalla scuola, contestando con forza tutte le forme di aziendalizzazione della formazione pubblica e i meccanismi di falsa meritocrazia che sviliscono la qualità dell’insegnamento trasformato in una competizione senza fine
• Ripartire dal sostegno ai piccoli agricoltori e al biologico per tutti e non solo per la ricca élite che si può permettere Eataly
• Ripensare ad un rapporto equiparato tra le specie che popolano terre, acque, cielo, in prospettiva del superamento della prevaricazione di una popolazione sull’altra e della specie umana su tutte le altre
• Affermare immaginari che ribaltino quelli di una società machista, maschilista e patriarcale, che svelino la ricchezza e la pluralità dei generi oltre il binarismo della categorizzazione imposta
• Tutelare il diritto alla città, salvaguardando per esempio i parchi di Trenno e delle Cave che potrebbero subire, causa Expo, trasformazioni strutturali che porterebbero alla parziale distruzione di uno dei polmoni più importanti di Milano e metterebbero a repentaglio la vivibilità della zona
• Riappropriarsi della città, della memoria dei sui luoghi, della ricchezza dei suoi parchi, della possibilità di vivere liberamente il territorio urbano
• Il carattere estemporaneo di Expo rivela la necessità di una battaglia che non si esaurisce né inizia con il primo maggio, il primo maggio viene assunto come momento centrale di un percorso che si è articolato prima e si articolerà dopo la chiusura del megaevento.
Questa è l’Attitudine No Expo: un approccio a questo modello che sappia rispondere tentacolo per tentacolo e crei iniziativa e azione, (ri)creazione oltre alla mera contrapposizione.
COSA VOGLIAMO
Il Primo Maggio deve essere una giornata in cui le vertenze sollevate all’interno del territorio milanese e in tutto il Paese trovino spazio di elaborazione, espressione ed azione condivisa. Dalle politiche dell’abitare alla tutela dei beni comuni; le lotte popolari territoriali e i blocchi sociali metropolitani che resistono ai processi di saccheggio e precarizzazione; dall’analisi sul debito e sullo SbloccaItalia al dibattito sul lavoro, lavoro gratuito, Neet e Garanzia giovani; dalle politiche sull’alimentazione al ragionamento sulle metropoli e i processi di gentrification, dalla questione di genere a quella animale
In questo periodo contraddistinto da una liquidità sociale senza precedenti, Expo è emblema “del nemico”, di tutte le lotte che ci accomunano. La nostra forza sta nella capacità di riconoscerci soggettività, inseribili in una globalità che modelleremo solo se sapremo metterci in discussione per tessere nuove reti di espressione, di crescita e sviluppo di lotte, saperi, percorsi e pratiche.
Il superamento di Expo è una scommessa, e in questi sei mesi vogliamo creare un’agenda politica che ci permetta di intrecciare le lotte territoriali, nazionali e internazionali e sviluppare quelle connessioni tangibili, che non si esauriranno in una manciata d’ore nei giorni della “grande” inaugurazione, e che sono condizione necessaria per dare gambe e respiro a una lunga stagione di lotta.
La sfida lanciata da Renzi, quella di non rovinare la festa alla vetrina di Expo, è una scommessa che raccogliamo e rilanciamo, e che ci chiama all’azione il Primo Maggio. Ci andremo, ma con lo sguardo volto oltre la data.
LE CINQUE GIORNATE DI MILANO (29 APRILE-3 MAGGIO)
Contro l’inaugurazione di Expo2015 lanciamo una catena di appuntamenti, che per noi inizia il giorno prima, 30 aprile, con l’attraversamento della città da parte di un corteo studentesco di respiro nazionale che parlerà di lavoro gratuito, di riappropriazione degli spazi giovanili, di apertura di nuovi fronti di dibattito metropolitano a livello studentesco.
Seguirà il Primo Maggio, erigendosi a simbolo di un modello di sviluppo lontano dal regime dell’austerity e attento al benessere sociale della popolazione. Una giornata di iniziativa ed azione, un Primo Maggio in grado di raccogliere la radicalità festosa della Mayday milanese e di farne patrimonio per caratterizzare una protesta determinata e incisiva, legittimata dal consenso di coloro che subiscono giorno per giorno lo smantellamento dello stato sociale, capace di comunicare ad ampi strati della popolazione. Il Primo Maggio deve essere lo scenario della capacità di mobilitazione e della convinzione che senza conflitto non c’è cambiamento, ma che non c’è conflitto senza consenso. Una giornata in cui il conflitto si traduce anche in campeggio per garantire l’ospitalità a chi viene da fuori. Il campeggio si aprirà il 30 aprile. Un tempo e un luogo in cui riappropriarsi del verde della nostra città, perché l’alternativa ad Expo per vivere i nostri parchi è possibile e non per forza passa per lo sfruttamento e lo stravolgimento del territorio (vedi vie d’acqua). Un campeggio che sarà animato da dibattiti, workshop e assemblee, proprio sui temi che Expo ha deciso di usare come copertina per nascondere la sua vera natura attraverso operazioni di green-washing e pink-washing.
Il due maggio, abbiamo scelto di continuare la mobilitazione, non abbassando il livello del conflitto ma diffondendo in tutta la città, su più livelli e su più pratiche e tematiche, l’opposizione diretta all’evento Expo. Nei quartieri e nei territori, dal centro storico alla provincia, attraverso l’hinterland e le periferie, mostreremo, in un’ampia varietà di azioni, quanto siamo contrari al circo Expo.
Il tre maggio, infine, costruiremo una grande assemblea conclusiva, capace di raccogliere il portato delle tre giornate di cortei e azioni e mettere a valore le opinioni, le proposte, le riflessioni e anche le critiche di tutti e in cui presenteremo AlterExpo, non una fiera alternativa, ma sei mesi di azioni, iniziative, alternative, percorsi, oltre il grande evento e contro il modello delle grandi opere e dei megaeventi. Un momento che sappia rilanciare lo spirito, l’attitudine dell’opposizione a Expo nei sei mesi che seguiranno, ma anche e soprattutto oltre i sei mesi dell’esposizione.
Expo è un modello di gestione del territorio, del lavoro, dell’istruzione, dei rapporti sociali, del cibo e dell’acqua, che presto o tardi ci verrà imposto senza più alcuna grande opera o grande evento a fare da paravento e giustificazione.
Noi ci opponiamo a questo modello ora, il Primo Maggio, nei sei mesi di Expo e oltre.
Expo fa male, facciamo male a Expo. Il Primo Maggio comincia la nostra festa.
See you at the party!
LE COMPAGNE E I COMPAGNI DELLA RETE ATTITUDINE NO EXPO
Fonte: Milano in movimento
Foto: tratte dalla pagina facebook del Comitato No Expo
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14 04 2015
Il fatto che sia necessaria una condanna della Corte europea a 14 anni dal G8 per riaprire la discussione su Genova 2001 dice parecchie cose. Tra le principali c’è la conferma della portata storica di quella protesta ma c’è pure l’evidenza di una condizione “inquinata” in misura profonda di apparati importanti dello Stato italiano. Gli elementi forniti dall’assessore della capitale comportano conseguenze difficili da accantonare: servizi dello Stato che cancellano tabulati telefonici per vendetta, giudici che archiviano quel che non va archiviato, lo stesso Sabella che spera che “qualcuno” lo denunci e dichiara candidamente di essersi sentito “uno schifo” per quello che hanno fatto “i suoi uomini” ma non se ne assume affatto la responsabilità politica. E infine, ma forse soprattutto, una regia politica che cerca il morto per scopi politici assai lontani a quelli di un’avanzata democrazia. Il profilo di un disegno eversivo si affaccia con evidenza, accompagnato da pronunciamenti politici improvvisati quanto ridicoli come quello del sindaco di Roma che accusa di complicità con la mafia chi osa criticare un “suo” assessore e lo invita ad espatriare. Non abbiamo compreso bene se si trattasse di Fiorello o di Ceasescu
intervista di Gianluca Carmosino a Gianluca Peciola
La gravissima condanna da parte della Corte Europea (a Genova nel 2001 c’è stata “tortura”). La sorprendente intervista dell’assessore del Comune di Roma Alfonso Sabella – responsabile del carcere di Bolzaneto durante il G8 (noto soprattutto come ex sostituto procuratore del pool antimafia di Palermo). Le domande a Sabella di Massimiliano Smeriglio (Sel, Vicepresidente delle Regione Lazio). E ancora: il sindaco che reagisce in modo assurdo e plateale per difendere Sabella e far fuori, secondo il Corriere della Sera, il vicesindaco e il suo partito. C’è infine un autorevole avvocato, Fabio Anselmo, esperto nei casi di abuso dei propri poteri da parte di apparati dello Stato (ha seguito i casi Cucchi e Aldrovandi, tra gli altri), il quale ritiene che per Genova 2001 si potrebbe configurare nientemeno che il reato di eversione (leggi la scheda in coda all’articolo). Su questo terremoto abbiamo rivolto qualche domanda a Gianluca Peciola, capogruppo di Sel in Campidoglio che ha chiesto il pronunciamento dell’avvocato Anselmo.
Hai dichiarato che il quadro descritto dall’assessore Alfonso Sabella è inquietante. Perché?
Se un magistrato avesse detto quelle cose in qualsiasi altro paese, tutto sarebbe andato diversamente. Negli Stati uniti forse sarebbe stato convocato un congresso straordinario… Sabella ha avuto il coraggio di dire che pezzi dello Stato nel 2001 a Genova volevano provocare delle vittime. Dopo diversi anni, dunque, questa affermazione apre uno squarcio su cosa davvero è avvenuto a Genova, sulle regie e le coperture politiche. Quella di uno Stato parallelo, solitamente, è una tesi minoritaria diffusa in certi ambiti di sinistra, ma oggi a sostenerla è un uomo dello Stato. Eppure, di fronte ad affermazioni così eccezionali, da noi pare che tutto venga ridotto a dei futili motivi che servono ad alimentare una crisi della coalizione, insomma alle beghe interne di un’amministrazione comunale. Mi chiedo come mai nessuno si sia alzato per dire: “Grazie Sabella”.
L’avvocato Fabio Anselmo, al quale avete chiesto di pronunciarsi, sostiene che c’è perfino la possibilità che si configuri una finalità eversiva. È un’ipotesi che pensate di sostenere?
Credo che la lettura di Sabella purtroppo sia molto coerente con la ricostruzione di fatti politici e criminali che fanno parte della storia italiana. Le vicende di omicidi e stragi che hanno coinvolto pezzi di Stato sono purtroppo un lugubre leit motiv della biografia italiana, dove restano sconosciuti la fonte degli ordini e la catena di comando, così come le strategie di fondo. Credo insomma che ci siano stati uomini dello Stato con mandati di controllo che in alcuni momenti hanno avuto a che fare con ambiti eversivi, hanno giocato su questo filo del rasoio “controllo/eversione”. Per questo abbiamo bisogno di inchieste e di memoria: abbiamo bisogno di comprendere quanto accaduto in passato per costruire un presente diverso.
Però ridurre Genova solo alle vicende giudiziarie significa dimenticare la ricchezza di quel movimento e di quelle giornate…
Non c’è dubbio. Il livello di maturazione di quel movimento, che ho avuto la fortuna di vivere dall’interno, è stato altissimo. C’è stata una strarodinaria capacità di tessere legami tra questioni di autogoverno, di democrazia locale e di democrazia internazionale. Quel movimento, con le sue variegate anime, aveva cominciato a mettere al centro dell’attenzione i temi che oggi chiamiamo del buen vivir, del cambiamento qui e ora, della vita di ogni giorno, ma anche l’urgenza della riforma delle istituzioni internazionali e il grido contro il neoliberismo. Le analisi, i linguaggi, le pratiche di quel movimento che anche la sinistra faceva fatica ad accettare. Il movimento di Genova è stato aggredito con tanta violenza proprio perché cominciava a produrre egemonia e faceva informazione indipendente.
Può ancora illuminare qualcosa del presente?
La lezione di Genova è molto utile in questo momento di involuzione autoritaria dello Stato e delle istituzioni internazionali: contro piani sempre più autoritari e calati dall’alto serve prima di tutto la capacità di tessere relazioni sociali in modo diverso, così come era stato fatto a Genova. Loro, quelli che stanno in alto, hanno un piano, hanno il comando diretto e il consenso. In questo scenario sappiamo che non sarà la difesa o la riforma delle province, del senato o di altre istituzioni a rallentare i loro progetti, però è vero che esiste un problema di alternativa della democrazia. Loro tenteranno sempre di più di stroncare i corpi sociali intermedi, e lo faranno, diciamo così per capirci, da destra. Noi dobbiamo sperimentare alternative ai corpi sociali tradizionali partendo dal nostro punto di vista, quello in basso e a sinistra.
Eversione
Le dichiarazioni di Alfonso Sabella, secondo l’avvocato Fabio Anselmo, fanno emergere fatti nuovi che dovrebbero essere valutati dalla magistratura inquirente: l’esistenza di un piano che sarebbe consistito in arresti preventivi e il fatto che questo piano sia poi mutato e si sia tradotto in condotte lesive dei diritti dei manifestanti. Si tratta di fatti che potrebbero, a seguito di approfondimenti e analisi, costituire una nuova e autonoma notizia di reato.
L’articolo 280 del codice penale afferma infatti che:
“Chiunque, per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico attenta alla vita od alla incolumità di una persona, è punito, se dall’attentato deriva una lesione gravissima, con la pena della reclusione non inferiore ad anni diciotto o della reclusione non inferiore ad anni venti se deriva la morte”.
In questo caso l’”attentato” non si è solo verificato ma è sfociato in “fatti materiali lesivi dei diritti umani”. “Purtroppo occorre affermare che, a seguito delle dichiarazioni del dottor Sabella – spiega Anselmo -, c’è la possibilità concreta che si configuri la finalità eversiva. La scelta preordinata, programmata, comunicata di arrestare ‘preventivamente’ dei soggetti, in assenza dei presupposti della restrizione, poi mutata nella scelta di contenere violentemente la folla, allo scopo di accendere il conflitto, potrebbe rappresentare una volontà precisa dei vertici amministrativi e politici: quella di sovvertire, o quantomeno sospendere, l’ordine democratico, se per ordine democratico s’intende l’esistenza di uno Stato e dei suoi rappresentanti che garantiscano, senza arbitrarie eccezioni, la tutela dei diritti umani fondamentali come vita, integrità e libertà personale”.
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14 04 2015
Nelle campagne di Oria, comune della provincia di Brindisi, sono cominciati i primi abbattimenti degli ulivi infettati. La notizia si è diffusa domenica pomeriggio tra cittadini, contadini e associazioni che da settimane protestano contro la scelta del governo e del commissario Giuseppe Silletti. Altri abbattimenti sarebbero in programma martedì 14 a Veglie, provincia di Lecce. “Il governo avrebbe potuto approfittare dell’apertura della Commissione europea e di Efsa, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare - spiega Antonia Battaglia di Peacelink – creata da Peacelink per approfondire la ricerca e studiare la cura che viene messa in atto con successo. Ma così non è stato… Mentre continuiamo a lavorare, attendiamo il nuovo parere Efsa del 17 aprile. Abbiamo convinto l’Europa ma l’Italia deve ascoltarci!”.
Di certo, ovunque la protesta contro gli abbattimenti sarà essere enorme, creativa quanto determinata. “Non si torna indietro da ulivi abbattuti e da un terreno avvelenato. Dal basso li faremo tremare”, si legge in molti post dedicati alla straordinaria prosta.
Alla resistenza del “popolo degli ulivi” è dedicata questa pagina in continuo aggiornamento.
Ore 14.30 Hanno cominciato a tagliare… Ecco cosa resta di un ulivo centenario… (video fonte Lo Strillone)
Ore 13.55 Bloccato il passaggio dei mezzi. Intanto secondo alcuni media il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica dovrebbe mandare nei campi agenti
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Ore 13. I manifestanti si attrezzano per l’ora di pranzo con pane e olio di oliva locale e bio, formaggio e vino. La giornata non è terminata.
Ore 12, 20 Disposta l’identificazione di tutti i manifestanti. Sarà un’operazione piuttosto lunga… (fonte Oria.info).
ORE 11.50 Queste le prime foto diffuse sulla protesta in corso lunedì mattina a Oria. Al momento grazie all’azione di un centinaio di cittadini e contadini sono state bloccate le ruspe. Sul posto sono presenti uomini della forestale e dell’Arif (Agenzia Regionale per le attività Irrigue e Forestali) e numerosi carabinieri.
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30 03 2015
Aldilà della retorica istituzionale, Expo 2015 rappresenta la più chiara manifestazione di un modello di sviluppo insostenibile. Nonostante l’obiettivo di voler nutrire il pianeta, la filosofia che ha ispirato e ha dato gambe a tutta la kermesse riprende e rilancia un sistema agroalimentare incapace di rispondere alle esigenze di sovranità alimentare, di equo accesso ad un’alimentazione di qualità, di sostenibilità ambientale davanti alle grandi crisi ecologiche del nostro tempo.
Proprio per questo, come organizzazioni e reti della società civile delle più diverse provenienze, denunciamo questo tentativo di manipolazione chi attraverso il quale, istituzioni come imprese private, cercano di rinnovare l’immagine di un sistema strutturalmente insostenibile. I cantieri verso Expo 2015 sono stati un insulto ai diritti del lavoro e alla sostenibilità ambientale. Turni inaccettabili, paghe orarie da miseria, e un pesante impatto sul territorio, in termini di cementificazione e quindi consumo di suolo[1], infrastrutture inutili e emissione di gas climalteranti, sono già l’evidente espressione dell’incoerenza dell’iniziativa: con buona pace del rilancio e della rivalorizzazione dei nostri terreni agricoli e di una vera lotta al cambiamento climatico. Expo, che vuole nutrire il pianeta, si basa su una kermesse che consuma territorio ed emette gas climalteranti. Il tutto con ingenti investimenti pubblici[2], alcuni dei quali finiti sotto la lente della procura perché in odor di mafia.
Al di là della questione legalità attorno ai cantieri dell’area fieristica Expo e delle infrastrutture ad esso collegate o con esso giustificate, è ancora una volta la filosofia delle “grandi opere” ad essere validata come unica strada percorribile per rilanciare l’economia nei territori, dove urbanizzazione, cementificazione e infrastrutturazione stradale ed energetica giocano un ruolo di traino. Questo modello di sviluppo contraddice una visione eco-compatibile di gestione delle risorse agricole, naturali e territoriali, una visione in cui le “piccole opere” e l’iniziativa economica delle comunità locali hanno un ruolo centrale.
Contemporaneamente, l’evento Expo 2015 sarà una grande vetrina di marketing per le multinazionali dove non verranno affrontati i veri nodi dell’agroalimentare, come la sovranità alimentare, la giusta remunerazione per i produttori, la necessità di ripensare standard di qualità e trasparenza delle filiere creati a tutto vantaggio di chi il cibo lo trasforma e lo distribuisce, il diritto della società civile di partecipare alle decisioni in materia di cibo: su tutti questi temi le decisioni che contano verranno prese al di fuori di Expo nelle solite sedi extraistituzionali ‘segrete’, come sta avvenendo per gli accordi T-tip.
La nostra esperienza quotidiana, il lavoro di costruzione dal basso di filiere solidali e sostenibili così come di campagne di sensibilizzazione e di advocacy su un’economia giusta, ci hanno insegnato che non esiste un sistema agroalimentare sostenibile senza sovranità alimentare, senza cioè che siano le comunità e non i mercati a determinare le produzioni. Che non è possibile nutrire il mondo attraverso un modello di produzione industriale e produttivista, che prevede un ampio utilizzo della chimica, che consuma i suoli e distrugge la biodiversità, e che lascia in mano di pochi il controllo delle filiere agroalimentari globali. Che è miope guardare all’agricoltura di qualità senza mettere in discussione la finanziarizzazione del comparto agricolo, e l’intero sistema che ne condiziona i caratteri (le politiche, la ricerca, il controllo da parte delle imprese a monte e a valle delle attività produttive).
Crediamo che opporsi a Expo significhi insieme opporsi a tutto questo: un’iniziativa che calpesta la terra e i diritti del lavoro, un modello agricolo basato sui mercati e controllato dalle grandi imprese dell’agroalimentare, un sistema che porta a una sempre minor trasparenza sull’origine delle produzioni e ad un abbassamento della qualità nutrizionale, sociale e ambientale dei prodotti, una manipolazione della cultura alimentare a misura dei modelli di consumo imposti da industria e distribuzione.
Siamo convinti che non sia possibile nutrire il pianeta senza cambiare radicalmente modello di produzione e di distribuzione[3]. Per questo, fuori da schieramenti precostituiti ma forti della nostra esperienza e azione quotidiana, abbiamo scelto di unire le forze per promuovere e sostenere qualcosa di diverso, capace di dare spazio ai territori, ai produttori che li animano, alle tante esperienze di economia diversa nate a partire da una critica radicale all’attuale processo di sviluppo. Sarà uno spazio fatto di proposta e di conflitto, di alternative e di radicali opposizioni. Un arcipelago di pensieri e di esperienze a cui daremo spazio, da oggi ai prossimi mesi, in tutti gli eventi, le iniziative, le riflessioni che in modo articolato e complementare saremo in grado di mettere in campo.
Note
[1] Un milione di mq ancora agricoli sono diventati con il sito Expo edificabili.
[2] E’ la prima Expo che si tiene su terreni acquistati da privati.
[3] Non si può parlare di ‘Nutrire il pianeta’ senza occuparsi di come nutrire diversamente, con metodi di coltivazione eco-compatibili, le popolazioni dei territori, Milano e Rho in primis, collocati nel più grande Parco agricolo d’Europa, dove ora si produce, con metodi industriali, quasi solo riso e mais per alimentazione animale.
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25 03 2015
di Alessandro Pertosa*
Il potere getta la maschera luciferina, e dallo svelamento appare il volto di un mostro infernale. Non che ci aspettassimo una fata o evanescenti dolcezze, ma la realtà supera di gran lunga ogni nostro incubo più fosco. Si aggira per il mondo un dominio osceno, abominevole, disumano, pronto a coartare le libertà personali in nome della crescita continua, del fare comunque, della produzione senza requie, della competizione onnivora.
Il capitalismo è alla frutta, lo sappiamo, ma non è ancora morto; e così in attesa dell’Armageddon, i politici di mezza tacca dichiarano guerra alla libertà in nome del lavorismo. Il potere ritiene che per far ripartire questa fantomatica crescita, per consentire all’economia di mettersi di nuovo in moto (anche se non si sa bene dove si voglia andare), non sia sufficiente allungare i termini per il pensionamento, o costringere le persone a lavorare sempre di più con contratti meno sicuri, estendere la prodigiosa flessibilità, ridurre i diritti di chi si schianta dalla fatica, et similia; no, oltre a frantumare la pazienza e la speranza agli adulti è venuto il momento di prendersela coi più giovani, con quei ragazzi considerati fannulloni che d’inverno bamboccionano a scuola e d’estate trascorrono colpevolmente tre mesi di vacanza. Figuriamoci se una società come la nostra può tollerare che un ragazzo di quindici, sedici o diciassette anni possa starsene tranquillo e beato a fissare il tramonto all’orizzonte, magari disteso su una sdraio, con un bicchiere di succo fresco in mano. Eh no, signori miei, il signor Giuliano Poletti, ministro del lavoro, ha tuonato contro questo scandalo. Un mese di riposo, passi pure, ma tre sono davvero un’indecenza.
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Foto di Alessandro Di Ciommo per Comune
Ora, se l’affermazione si limitasse a un giudizio morale di un singolo politico non avremmo nulla da obiettare: ognuno è libero di pensare ciò che crede rispetto al modo di condurre la propria vita. Se Poletti ritiene che riposarsi tre mesi sia un’indecenza, bene, pazienza, ci spiace per lui, che se arriva a queste conclusioni deve condurre una ben misera vita. Il problema però sorge nel momento in cui il Poletti se ne esce con una proposta che vorrebbe tramutare in legge. Il riposo viene così finalmente normato da questo strabiliante potere che stabilisce persino quanti giorni di ozio estivo spettano a uno studente. Secondo il ministro è assurdo consentire agli alunni di vivere da nullafacenti per tre mesi, ma dopo un po’ di riposo è bene che i ragazzi vengano impiegati a lavoro, con l’intento di istaurare un rapporto sempre più stretto tra la scuola e il mondo della produzione. E tutto ciò, chiaramente, avrebbe una funzione educativa. Il giovane deve capire sin da subito che si sta al mondo per lavorare, che la produzione è lo scopo ultimo dell’agire umano e che chi ozia è bene spingerlo ai margini della società. Perché è chiaro che se non lavori, allora mi sei nemico e non devi nemmeno mangiare.
«Non troverei niente di strano – dice Poletti – se un ragazzo lavorasse tre o quattro ore al giorno per un periodo preciso durante l’estate, anziché stare solo in giro per le strade». Ma, lo ribadiamo, che Poletti non ci trovi nulla di strano nel far lavorare d’estate gli studenti, interessa davvero poco. Il problema è che egli, dall’alto (io direi, meglio, dal basso) della sua posizione pretende che un’opinione personale diventi legge. E che succede se un ragazzo, che magari è stato persino bocciato, non volesse andare a lavorare? Gli mandiamo i carabinieri a casa? E se un altro, invece, dopo la media dell’otto non avesse alcuna intenzione di prestarsi a una metodica schiavista, chiamata stage, cosa gli facciamo? Lo rimandiamo a settembre in tutte le materie? No perché si paventa anche la possibilità che questo lavoro estivo possa tramutarsi in crediti formativi: quindi il lavoro (schiavista e mal pagato: anzi forse per nulla pagato) diviene a tutti gli effetti un momento scolastico. Un momento scolastico che serve al potere per avere manovalanza pressoché gratis.
Questa è un’autentica follia! Ci auguriamo che Poletti venga folgorato da un barlume di lucidità e che ci ripensi. Altrimenti non resta che la rivoluzione passiva: i ragazzi non dovranno far altro che rifiutarsi di sottostare a un sopruso indegno di un paese civile. Sottrarsi al dominio, fuggire dall’impegno gravoso, lasciar cadere nel vuoto l’affronto alla libertà personale: sono queste le azioni da compiere. È questa la rivoluzione che ci attende. Se Poletti ci tiene proprio, andasse lui a fare gli stage d’estate: noi, dalla terrazza vista mare, lo osserveremo sudare con grande interesse.
Abbasso il lavoro. Evviva l’ozio creativo. Evviva la felicità, per cui siamo stati fatti.
* Ricercatore in filosofia, Alessandro Pertosa scrive irregolarmente di filosofia, economia, teologia, bioetica, decrescita.
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24 03 2015
di Martina Pignatti Morano*
La traccia di sangue che un piccolo manipolo di terroristi ha lasciato su Tunisi, e su tante famiglie di turisti da tutto il mondo, non ha scosso la determinazione dei movimenti sociali internazionali. Saremo oltre 50.000 questa settimana (24-28 marzo) nel Campus Universitario di al-Manar a Tunisi per il Forum sociale mondiale del 2015. Lo dobbiamo ai compagni tunisini che ci hanno chiesto una presenza massiccia come segnale dimostrativo a chi vuole seminare terrore in nome del fondamentalismo e di malcelati interessi di controllo sui gasdotti che arrivano in Europa. Lo dobbiamo alla memoria delle vittime del Bardo che piangeremo a Tunisi, come piangeremo le vittime delle guerre che devastano la regione, e i morti che le mafie dei trafficanti e le politiche europee in tema di immigrazione fanno ogni mese nel nostro mare. Ce lo chiedono anche i nostri amici iracheni che nel 2013 ci avevano invitati al loro primo Forum sociale a Baghdad e che non sono mai arretrati di fronte alla minaccia di attentati.
Il Forum sociale mondiale nasce a Porto Alegre (Brasile) nel 2001 come alternativa al Forum economico mondiale di Davos, e ha radunato ogni due anni in diversi continenti gli organizzatori di campagne sul clima, attivisti dei popoli indigeni, critici del sistema finanziario internazionale, operatori del commercio equo e solidale, pacifisti e movimenti per il disarmo. Due anni fa gli attivisti brasiliani – lacerati da polemiche interne tra sostenitori, tolleranti e oppositori ai governi di Lula e Dilma – hanno consegnato il testimone del Forum sociale mondiale e la sua segreteria ai protagonisti delle primavere arabe. Il Maghreb-Mashreq social forum si è rafforzato come coordinamento regionale, anche se rimane molto centrato su Tunisia e Marocco e stenta a coinvolgere realmente le organizzazioni del Medio Oriente. Nel 2013 ha convocato il primo Forum sociale mondiale svoltosi nel mondo arabo, è il successo è stato travolgente (qui il dossier sul Forum 2013, ndr): oltre 30 mila persone da 127 paesi impegnati a confrontarsi e costruire campagne comuni, nel protagonismo dei giovani tunisini e con lo spirito della rivoluzione ancora vibrante nell’aria, nonostante fosse stato appena ucciso dai salafiti il leader politico comunista Chokri Belaid.
La scorsa settimana il responsabile dell’omicidio di Belaid è stato ucciso dalle forze armate tunisine, e probabilmente per vendicare questa offensiva un gruppo di miliziani takfiri (il ramo ultra estremista dell’Islam salafita) ha sferrato l’attacco al parlamento e poi ai turisti del Museo Bardo. Quel giorno l’esitazione dei movimenti sociali è durata pochissimo: nel pomeriggio, dopo un breve incontro al ministero degli Interni, sindacati e associazioni tunisine hanno diffuso un comunicato che conferma il forum e chiede ancor più partecipazione alla società civile internazionale, alzando i toni dell scontro culturale e politico con la galassia salafita. La marcia di apertura del forum avrà come slogan “Popoli del mondo uniti contro il terrorismo” e terminerà proprio al Bardo. Un comitato del consiglio internazionale del forum stenderà una Carta internazionale del Bardo, sulla lotta al terrorismo da parte dei movimenti per un’altra globalizzazione. Ad oggi nessuna delle 4.343 organizzazioni registrate ha ritirato la sua delegazione, nessuna delle circa 1.100 attività e assemblee previste è stata cancellata.
Noi di Un ponte per… arriviamo al forum con una nutrita delegazione di italiani ma soprattutto con i nostri partner da Iraq, Marocco, Libano, persino Bahrein. Due gli assi che ci vedranno impegnati: da un lato le campagne per la lbertà di espressione e di stampa, dall’altro il sostegno alla società civile irachena e al Forum sociale iracheno. Questo Forum segna il compimento di un processo di due anni che ci ha visti lavorare per facilitare scambio, formazione, ricerca, divulgazione e advocacy presso le istituzioni tra giornalisti e mediattivisti di tutto il Maghreb e Mashreq sulla libertà d’espressione. È stata la nostra scelta strategica di sostegno a quel che resta delle primavere arabe, per difendere lo spazio in cui quelle rivendicazioni possono continuare ad essere espresse e articolate. I nostri partner porteranno le loro conclusioni al forum, decideranno assieme come proseguire il lavoro di pressione sulle loro istituzioni, e come dare voce ai media indipendenti che dal basso continuano a nascere e crescere nel mondo arabo. Per questo, con loro e con partner italiani come Ya Basta ed Esc, parteciperemo anche al Forum dei Media Liberi, uno dei forum tematici che precedono e si accavallano con il forum generale.
Molte sono poi le attività che gestiamo con l’Iraqi Civil Society Solidarity Initiative, la coalizione internazionale che abbiamo lanciato nel 2009 a sostegno degli attivisti iracheni e che ha co-organizzato il Forum sociale iracheno (Fsi). Quest’anno oltre 25 iracheni si sono coordinati per venire a Tunisi tramite la segreteria del Fsi che ha sede a Baghdad, presso l’Iraqi Network for Social Media. In varie attività del forum discuteremo assieme di transizione democratica in Iraq comparata a quella di altri paesi della regione, di fragilità delle politica e della società di fronte alla minaccia di Daesh, delle azioni e strategie per promuovere la coesistenza e costruire la pace tra le comunità dell’Iraq, e delle tante campagne per i diritti umani e ambientali su cui stiamo lavorando. Tra le altre: la campagna Save the Tigris per salvare l’ecosistema del Tigri e il diritto all’acqua, in un paese in cui l’acqua e le dighe vengono usate oggi come arma di ricatto politico o di distruzione di massa; la campagna Shahrazad per i diritti delle donne e la loro resistenza al fondamentalismo, alle molestie sessuali e ai matrimoni precoci; la campagna Sports Against Violence costruita con l’omonima associazione italiana, che punta all’organizzazione di una maratona internazionale a Baghdad come evento di pace.
Vogliamo che i giovani reclutati dai salafiti vedano l’energia prodotta dai movimenti sociali, siano tentati dal sogno di una società più giusta ed egualitaria, vengano trascinati nei balli dei giovani tunisini rivoluzionari. Solo un cambiamento culturale e l’ipotesi di una strada di sviluppo alternativa potrà togliere braccia e cuori al fondamentalismo, non certo i bombardamenti di una coalizione internazionale. Ci armiamo quindi di contenuti e proposte, bandiere e volantini, e partiamo.
*presidente, Un ponte per…
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23 03 2015
Siamo colpevoli di molti errori e mancanze, ma il nostro peggior delitto è abbandonare i bambini, trascurare la fonte della vita. Per molte delle cose di cui abbiamo bisogno noi possiamo aspettare. Il bambino no. È adesso che le sue ossa crescono, il suo sangue si forma, i suoi sensi si sviluppano. A lui non possiamo rispondere ‘Domani’. Il suo nome è ‘Oggi’.
Gabriela Mistral
di Laura Fano
Questa poesia è affissa al nido di mia figlia, luogo magico dove entrambe le mie figlie sono state così fortunate da poter passare i loro primi anni di vita. Hanno ricevuto amore, attenzione, stimoli da educatrici incredibili che si dedicano anima e corpo ai ‘loro’ bambini. Peccato però che qualche settimana fa sia caduto un boiler (scaldabagno), per fortuna in un momento in cui non c’era nessuno. La cosa è stata giudicata ‘molto grave’ dalle autorità municipali preposte all’edilizia scolastica, però ancora non si è fatto vivo nessuno.
Peccato che queste stesse autorità abbiano fatto vari sopralluoghi e promesso interventi urgenti per riparare le grondaie e soprattutto le infiltrazioni di umidità nelle stanze del sonno che possono essere causa di gravi allergie. Ma anche per tutto ciò non si è ancora fatto vivo nessuno. Per grandi problemi strutturali, quali crepe che attraversano muri interi, invece ci è stato detto chiaramente che i soldi non ci sono e che bisognerà aspettare fino a quando ci saranno fondi per la manutenzione straordinaria: settimane, mesi, anni? Chi può dirlo?
Ma il problema non è solo l’edilizia. Si fa un gran parlare della ‘Buona Scuola’ di Renzi- giustamente! Ma si parla molto poco di quello che potrebbe succedere, e probabilmente succederà, ai nidi e alle scuole d’infanzia comunali di Roma. L’atto unilaterale della giunta Marino, con cui si modificano i contratti dei dipendenti comunali, comprese le educatrici, è stato sospeso il 6 febbraio grazie alla protesta del personale, dei sindacati e anche di noi genitori. Con questa modifica le educatrici saranno costrette a lavorare più ore e guadagnare meno, saranno demotivate, non riusciranno a svolgere l’attività didattica, poiché si troveranno a dover gestire classi con un numero spropositato di bambini.
Al nido il rapporto educatrice/bambino e di uno a sei. Con il nuovo contratto, questo rapporto salta, con grave danno per la sicurezza dei bambini. Prima che la protesta riuscisse a bloccare temporaneamente questo atto scellerato, tutto ciò è stato applicato e ci sono stati nidi in cui le educatrici si sono trovate a dover gestire da sole venti bambini, di cui molti lattanti. Bambini con gravi disabilità si sono trovati senza insegnanti di sostegno, completamente abbandonati a sé stessi. Tutto ciò per tagliare le spese ovviamente, perché le supplenti costano troppo.
Ma davvero possiamo permetterci di risparmiare sulla scuola, o ancora più sulla prima infanzia, mettendo a rischio bambini così piccoli? Davvero i nostri bambini contano meno dei conti del bilancio? Davvero vogliamo continuare a distruggere quel poco di eccellenza che ci è rimasto e che gli altri paesi prendevano a modello? Ebbene sì, per chi non lo sapesse, gli asili nido italiani sono stati all’avanguardia nel mondo, così come la nostra tradizione pedagogica.
Ma al linguaggio e al pensiero aziendale questo davvero non interessa. Anche qui, come nella ‘Buona Scuola’ di Renzi, gli asili diventano delle aziende dove le educatrici vengono giudicate in base alla flessibilità e alla produttività! Scusate lo sfogo, ma trovo davvero perverso pensare di poter applicare la parola produttività ad una cosa così delicata e inquantificabile come il rapporto educatrice-bambino. Mi immagino un grigio burocrate che, per fare i conti, classifica da 1 a 10 quanto produttivo è il rapporto tra mia figlia e la sua maestra, e in base a questo decide se la maestra è brava. Ma che ne sa lui di quanto loro si vogliono bene, quante piccole cose invisibili mia figlia ha imparato quel giorno, quanto un sorriso e un abbraccio oggi significheranno per lei domani?
La riforma è per ora bloccata fino a giugno, ma la nostra paura – di educatrici e genitori – è che come al solito si approfitti dell’estate e della scarsa attenzione per farla passare in silenzio. Quindi, mi raccomando, non abbassiamo la guardia.
* Laura Fano è antropologa sociale, attivista e mamma. Ha lavorato per quindici anni nel settore della cooperazione internazionale. In libreria il suo libro “Invisibili? Donne latinoamericane contro il neoliberismo” (Ediesse, 2014).