Ingenere
29 09 2015
Le donne? Sono brillanti negli studi e produttive sul mercato, ma ancora non ricoprono la stessa quantità di posti di potere occupati dai colleghi uomini. A confermare l'esistenza di questo tetto di cristallo stavolta è un rapporto diffuso dal Center for american progress e intitolato proprio The women leadership's gap.
L'analisi, firmata dalla giornalista Judith Warner, esperta in questioni di genere, si riferisce al territorio degli Stati Uniti. Qui, spiega Warner, le donne costituiscono la maggior parte della popolazione: il 50,8 per cento. Sono le donne che sono iscritte a quasi il 60 per cento dei corsi di laurea e di master, che si aggiudicano il 47 per cento delle lauree in legge, il 48 per cento di quelle in medicina, e oltre il 38 per cento dei master in business e management. Sono sempre queste a rappresentare il 47 per cento della forza lavoro statunitense e il 49 di quella nel settore dell'istruzione universitaria e a ricoprire più della metà dei posti di lavoro di livello professionale. Eppure, quando si tratta di occupare posizioni di potere e posti di comando gli uomini hanno ancora la meglio. Per fare un esempio, nel mondo accademico le donne sono solo il 30 per cento dei professori ordinari e il 26 per cento dei presidenti di college. Le stime sono decisamente più scoraggianti se si considerano le afroamericane.
Mentre alla fine del ventesimo secolo si è assistito a consistenti miglioramenti nell'avanzamento di carriera delle donne, negli ultimi anni la situazione si è stabilizzata, spiega il rapporto. Inoltre, l'immagine della donna sullo schermo è ancora creata, nella stragrande maggioranza, da uomini, perché le donne in posizione di registe, sceneggiatrici, editrici, direttrici e produttrici di film e fiction televisivi sono solo il 17 per cento, e le ideatrici dei programmi televisivi sono solo il 27 per cento.
Anche in politica, dopo i successi degli anni '80 e '90 si è assistito a uno stallo di donne elette al Congresso e in alcuni casi a una regressione del numero di donne elette nelle legislature statali. Se si considerano i vari settori nella loro varietà, si può dire che la posizione dirigenziale delle donne rimane bloccata tra un 10 e un 20 per cento. Inoltre, il loro potere di rappresentanza in politica e nei media è fermo a un 18 per cento. A questi ritmi, azzarda il rapporto, la stima è che bisognerà aspettare il 2085 per avere il raggiungimento della parità nei ruoli chiave di leadership tra uomini e donne negli Stati Uniti.
Ingenere.it
28 09 2015
Il decreto legislativo così detto delle “Semplificazioni”, che rende operativa una parte del Jobs Act, contiene una norma chiara ed efficace contro le dimissioni in bianco. Finalmente, dopo 8 anni, viene ripristinato un principio di civiltà e viene eliminato un ricatto che pende sulla testa delle persone durante tutta la vita lavorativa. Capita spesso infatti che, insieme al contratto di assunzione, proprio nel momento di maggior fragilità, venga fatta firmare una lettera di dimissioni in bianco, in bianco perché senza data, come condizione per l’assunzione; che spesso viene perfino spacciata per una consueta procedura amministrativa.
Quella lettera verrà compilata con la data dall’impresa, successivamente, quando quella persona, quasi sempre una giovane donna (ma non solo), non è più desiderabile per l’azienda, magari perché incinta, perché ha deciso di sposarsi, o a causa di una lunga malattia o in virtù di opinioni non gradite.
Che questo succeda è testimoniato da dati raccolti, tutti per difetto da Istat e uffici sindacali, e nell’esperienza di tanti e ha ispirato film recenti (Calopresti, Cortellesi). Ma fino ad oggi, nonostante iniziative legislative e movimenti di opinione, non esisteva una procedura efficace.
Da oggi nessuno potrà più compiere questo abuso: le dimissioni volontarie dovranno essere dichiarate compilando un modulo con numerazione progressiva e scadenza (reperibile sul sito del Ministero del Lavoro o presso le direzioni territoriali del lavoro), che quindi non potrà essere retrodatato e fatto firmare al momento dell’assunzione.
La battaglia contro le dimissioni in bianco parte da lontano: nel 2007 l'allora governo Prodi approva la norma (L.188/2007) contenuta oggi nel decreto attuativo del Jobs Act, che però ha vita breve. Nel giugno del 2008 il ministro del lavoro Sacconi, come primo atto del governo Berlusconi appena eletto, la cancella. Durante il governo Monti la ministra Fornero - dopo mesi di iniziativa politica di donne diverse dentro e fuori il Parlamento (Comitato per la 188) - introduce un’apposita disciplina per eliminare la pratica delle dimissioni in bianco.
Inefficace, però, perché ex post e non preventiva come quella approvata: la procedura, peraltro molto complicata, prevedeva infatti un controllo a posteriori della veridicità della volontà delle dimissioni con tutte le complicazioni ovvie insite nell’accertamento a posteriori della volontà estorta, e solo nel caso di denuncia, apertura di vertenza o di maternità. La nuova norma prevede l’utilizzo di un modulo, con codice alfanumerico e numerazione progressiva, con l’obiettivo di prevenire l’abuso in modo semplice e privo di costi. Ed è una tutela a vantaggio dei lavoratori e delle lavoratrici, ma anche delle aziende oneste e corrette che soffrono la concorrenza sleale di chi non rispetta le regole.
Qualcuno nella foga polemica contro il Jobs Act ne ha sminuito il senso: si è detto che nel nuovo contesto normativo, cioè con l’utilizzo del contratto a tutele crescenti che non prevede il reintegro nei casi di licenziamenti economici senza giusta causa, la nuova norma contro le dimissioni in bianco non serve a nulla. In realtà, l’abuso delle dimissioni in bianco è praticato, quasi totalmente, in imprese sotto i 15 dipendenti dove non si è mai applicato l’articolo 18.
La legge contro le dimissioni in bianco si colloca lungo una strada, forse imperfetta ma chiara nella sua direzione: un'assunzione di responsabilità verso un paese per donne e uomini, in cui la maternità sia libera scelta. Una strada in cui si inseriscono: la legge elettorale con doppia preferenza e norma antidiscriminatoria nella definizione dei 100 capilista, la riforma costituzionale che prevede l'applicazione dell'articolo 51 della Costituzione nelle leggi elettorali e regionali, la "buona scuola” che contiene norme per educare al rispetto delle differenze e contro le discriminazioni, il Jobs Act con il decreto attuativo sulla conciliazione tra tempi di vita e di lavoro, l'estensione della indennità di maternità e la sua erogazione anche in assenza del versamento dei contributi da parte dei datori di lavoro, l'uso del part time in alternativa ai congedi parentali, la destinazione del 10 per cento del Fondo di sostegno alla contrattazione aziendale per misure di conciliazione, i 100 milioni per gli asili nido.
Molto c’è ancora da fare ma la strada è quella giusta