Flash news

Melting pot
30 09 2015


Appello per una mobilitazione internazionale per fermare le stragi di migranti in mare, per l’apertura di canali umanitari, per il riconoscimento del diritto d’asilo europeo, per un’accoglienza degna e per la libertà di circolazione in Europa
In occasione della tre giorni contro l’Euro Summit dei primi ministri della zona Euro che si terrà dal 15 al 17 ottobre a Bruxelles, riceviamo e pubblichiamo un appello per la costruzione di una mobilitazione europea sulla questione dell’immigrazione, denunciando l’ipocrisia della Fortezza Europa.
Se da una parte gli ultimi vertici straordinari dei ministri degli interni e dei capi di stato e di governo dei paesi dell’Unione hanno confermato un impianto repressivo, incentrato sul rafforzamento delle frontiere esterne e del rimpatrio dei cosiddetti migranti economici, non discutendo nemmeno su possibili aperture di canali umanitari sicuri, dall’altra vi sono ancora delle risposte insufficienti per quanto riguarda la politica di accoglienza. Per questo realtà sociali italiane ed europee stanno diffondendo un appello di mobilitazione durante le giornate dell’Euro Summit a Bruxelles.
Ancora vittime, quelle di oggi si sommano a quelle di ieri, per non parlare di quelle morti risalenti ai mesi scorsi e a qualche anno fa. I numeri sono così alti che parlare di “tragedie” non basta più: si deve parlare di orrore. Orrore prodotto da chi, incapace di immaginarsi un futuro differente, si chiude nella paura di perdere ciò che possiede, riuscendo solo a creare sempre più profonde disuguaglianze.

Il fenomeno delle migrazioni non può essere fermato: non serve rinforzare le frontiere, aumentare i controlli, installare telecamere, erigere muri o attivare qualsiasi altro dispositivo di chiusura.

Ventimiglia in Italia, Kos in Grecia, Calais in Francia, Gevgelija in Macedonia, Subotica in Serbia, i muri dell’Ungheria ed i treni bloccati a Budapest, ci fanno vedere una realtà complessa dove c’è chi lotta per il riconoscimento dei propri diritti, ormai stanco di credere alla favola dell’Europa accogliente, e di chi cerca instancabilmente di ottenere il permesso di restare. Dall’inizio del 2015 è aumentato in modo consistente il numero dei migranti che arrivano in quei Paesi che, per la loro posizione geografica, rappresentano le principali porte di ingresso nell’Unione Europea. Troppe le persone che hanno perso la vita o sono state vittime di soprusi: le immagini di donne, uomini e bambini in movimento colpiti dai pericoli del loro transito verso l’Europa non possono creare indifferenza. E’ un peso che diventa sempre più insopportabile sostenere.

E’ dagli inizi degli anni Novanta che si parla di flussi migratori in Europa, i quali però non possono essere fermati e, come è stato fatto per troppo tempo, non si può risolvere la questione applicando leggi restrittive che alimentano la clandestinità. Le operazioni millantate dai Premier europei di punire direttamente i trafficanti non sono che frutto di commenti ipocriti atti solo a lavarsi la coscienza, quando invece la soluzione da intraprendere adesso sarebbe quella di istituire dei corridoi umanitari per agevolare l’arrivo in sicurezza di chi decide di scappare dalla sua terra e stabilire la possibilità di ottenere il diritto di asilo in luoghi attrezzati vicini alle zone di fuga. Il razzismo dilagante che viene propagandato dalle destre serve solo a coprire le colpe di un sistema economico che fatica a uscire dalla crisi: l’austerity non è colpa dei migranti ma del neoliberalismo.

Il nostro è un appello per costruire insieme a tutti i movimenti, alle associazioni antirazziste e a tutti quelli che trovano indegna un’Europa che tratta in maniera inumana chi arriva da fuori la fortezza, una giornata europea di mobilitazione a Bruxelles per chiedere l’apertura di canali umanitari che permettano viaggi sicuri dalla Libia, dall’Egitto, dal Marocco, dalla Siria e dall’Afghanistan e da tutte quelle zone di confine che rappresentano delle vie di fuga. Inoltre, dovremmo stabilire che il diritto all’accoglienza sia un diritto fondamentale dei popoli, soprattutto in un periodo storico come quello attuale, segnato da cambiamenti globali e climatici che investono e condizionano quelle persone che, fuggendo da guerre e persecuzioni o per motivi economici, si muovono alla ricerca di un futuro migliore in altri Paesi. Non possiamo cadere nell’errore di distinguere i profughi di guerra dai migranti economici, nel momento in cui l’ambiente sociale, economico e naturale in cui questi ultimi vivono mette in pericolo la possibilità di un’esistenza piena. Un pericolo che spesso è conseguenza del passato coloniale e del presente dell’Europa. D’altronde, fuggire da un paese in guerra è poi così diverso da dover lasciare un luogo dove la povertà è tale che si rischia di morire di fame?

L’accoglienza dovrebbe essere dignitosa e di pari valore in tutti i paesi europei, parificando agli standard più elevati sia la possibilità di accesso all’asilo, sia la forma di accoglienza. L’Europa dovrebbe dare una risposta unica e non delegare ai singoli paesi la gestione della politica dell’accoglienza, poiché spesso si traduce in trattamenti inumani e degradanti.

Viviamo in un’Europa ricca in crisi di solidarietà e di umanità che non ha coraggio di guardare negli occhi le proprie vittime, un’Europa che è in parte corresponsabile delle ragioni che determinano le fughe dai paesi di origine.

Oltre agli accordi commerciali con paesi terzi dal Nord Africa ai confini con l’Asia, l’Europa dovrebbe stipulare accordi umanitari per la creazione di percorsi garantiti verso il continente stesso, e non di barattare risorse economiche comunitarie in cambio di un servizio poliziesco di controllo delle frontiere.

La politica Europea dovrebbe mettere al centro dei propri interessi i diritti e non l’austerità, dovrebbe promuovere libertà e non pattugliamenti dei confini. Oggi più che mai servono:

- L’apertura di canali umanitari per arrivi sicuri in modo da mettere fine alle stragi in mare e in terra;

- Un diritto di asilo europeo, capace di superare il regolamento Dublino che obbliga i migranti a richiedere asilo nel primo paese comunitario che incontrano nel loro cammino. Un migrante dovrebbe avere il diritto di avere riconosciuto l’asilo in qualsiasi Paese, per poi essere libero di circolare all’interno dell’Europa;

- La regolarizzazione di tutti i migranti ancora senza documenti presenti in Europa;

- Un’accoglienza dignitosa, dunque la chiusura di tutti i centri di detenzione per migranti sparsi in Europa;

Non c’è altra soluzione: o prendiamo atto del fatto che il futuro di chi scappa da guerre e miseria è tutt’uno col futuro dell’Europa, oppure l’Unione si trasformerà in una terra di guerre e conflitti crudeli. Il destino dei migranti è il nostro destino.

Uniti per la globalizzazione dei diritti e la libertà di movimento.

Per aderire all’appello:
Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

News Town
30 09 2015

Su disposizione della Procura della Repubblica dell'Aquila, la squadra mobile della Polizia sta eseguendo la notifica della misura cautelare interdittiva della sospensione dal pubblico ufficio, emessa dal gip Guendalina Buccella, nei confronti di Patrizia Del Principe, funzionaria del comune dell'Aquila, per induzione indebita "a dare o promettere utilità".

Del Principe, ex direttrice pro tempore dell'Istituzione Csa (Centro servizio anziani), ex Onpi e attuale coordinatrice della struttura, organo strumentale del Comune dell'Aquila, è indagata per aver indebitamente indotto Bruno Galgani, titolare della ditta di facchinaggio e traslochi Logistica & Servizi, a darle mille euro, con la promessa estorta di farsene dare altri 100 o 200, palesandogli, in caso contrario, l'interruzione dei rapporti lavorativi tra il Comune dell'Aquila e l'azienda.

L'imprenditore, anch'egli indagato, ha aderito alla richiesta consegnando in contanti i soldi richiesti e promettendo di consegnare a breve altri 100 o 200 euro. Secondo gli inquirenti, i "gravi indizi di colpevolezza" sono stati desunti dall'esame della documentazione acquisita presso il Comune dell'Aquila che evidenzia una richiesta di preventivo alla ditta Logistica & Servizi del luglio 2014, che consegnava l'offerta per il trasporto e rimontaggio del mobilio pari ad 13.500 euro + iva; con determina sempre di luglio 2014, la direttrice affidava alla ditta i lavori di trasporto, revisione e rimontaggio del mobilio di 36 camere del corpo D, per un importo di 13.500,00 + iva; con determina del novembre 2014 veniva liquidata la fattura emessa dalla ditta per un importo di euro 16.470,00 iva inclusa; nel marzo 2015 la direttrice inviava alla ditta una nuova richiesta di preventivo per i lavori di revisione e montaggio di una porzione di arredi depositatati presso la sede della municipalizzata Asm, all'interno di mini appartamenti ubicati al piano terra dei corpi D e Z dell'immobile ex Onpi, "assegnazione già prospettata al titolare con largo anticipo", secondo la procura, dall'esame della documentazione bancaria sono stati eseguiti anche i necessari riscontri sugli estratti conto del conto corrente dell'imprenditore.

Gli investigatori si sono avvalsi anche di testimonianze tra cui le dichiarazioni spontanee dello stesso imprenditore indagato (rese durante la perquisizione domiciliare da lui subita nel corso delle indagini), oltre che dal contenuto delle intercettazioni telefoniche e ambientali che hanno evidenziato, sempre secondo gli inquirenti, l'esistenza di un rapporto monetario tra i due, in cui il prestatore d'opera doveva consegnare del denaro, peraltro in contanti, alla direttrice; dal tono e dai riferimenti usati, la funzionaria allude anche ai possibili futuri lavori da assegnare all'imprenditore direttamente, ovvero senza gara pubblica o comparazione di prezzi.

A parere della Procura e del gip, non aderire alle richieste economiche del pubblico ufficiale avrebbe comportato per il titolare della ditta, quale conseguenza negativa, la perdita dell'opportunità di essere incaricato per l'esecuzione di lavori futuri: la sua piena adesione alle illecite richieste e il conseguente gradimento che ne derivava, determinava il proseguimento del rapporto lavorativo e il conferimento di nuovi incarichi.L'inadine e' stata enominata "OPerazione Onpi".

L'indagine, denominata "Operazione Onpi", attende a stretto giro ulteriori sviluppi su altri ipotesi di reato commesse.

 

 

 

Euronomade
30 09 2015

1. Da sempre siamo antropofagi, non siamo mai stati moderni
Una delle ragioni che spiega la densità del dialogo tra il tropicalismo antropofagico (brasiliano) e l’antropologia simmetrica (europea) è senza dubbio la convergenza delle critiche che li anima: da sempre siamo antropofagi; non siamo mai stati moderni. L’animismo è un sincretismo che mescola barbari e selvaggi: l’altra modernità con il non moderno.

Affermando che da sempre siamo antropofagi, il tropicalismo ha rifiutato le scorciatoie nazional-popolari delle quali s’impregnava la sinistra socialista e anti-imperialista e più in generale il terzomondismo alla ricerca delle radici dell’identità e dell’autenticità. Affermando che non siamo mai stati moderni, l’antropologia simmetrica ha attaccato alla radice la ragione strumentale occidentale, ovvero i procedimenti di purificazione che impongono innumerevoli asimmetrie tra scienza e vita, mente e mano, anima e corpo, cultura e natura. Il tropicalismo antropofagico ci mostra che le radici del campo nazional-popolare sono in realtà quelle del colonialismo europeo e che quest’ultimo si riproduce come colonizzazione interna, producendo immaginari che si riflettono nella dialettica schiavo/padrone, della pelle e delle maschere.

L’antropologia simmetrica spiega che il contenuto del processo di colonizzazione è la sua ragione (la scienza) e che questa si afferma come biopotere: potere sulla vita dei colonizzati attraverso i meccanismi della sua purificazione strumentale che attribuiscono la potenza pratica e costituente dell’invenzione scientifica ai tribunali costituiti nella strumentalità dei laboratori di sperimentazione e formalizzazione. Come dicevano i giovani operaisti italiani: non ci interessa la scienza ma il principio del suo sviluppo e, perciò, la tecnica non sarà il premio per chi vince la lotta di classe, ma il terreno di questa lotta e allo stesso tempo della sua riqualificazione.
Il campo nazional-popolare (il socialismo) e la tecno-scienza sono, entrambi, intrinseci al capitalismo e organizzano il proprio potere nei laboratori, attraverso l’imposizione della separazione e perfino dell’opposizione tra scienza pura e scienza umana, tra oggetto e soggetto, tra pensiero razionale e pensiero selvaggio, tra il nord razionale e il sud barbaro.

Come meccanismi di purificazione del pensiero, i laboratori sono i dispositivi centrali della riproduzione dell’eurocentrismo, al sud come al nord, una colonizzazione al tempo stesso interna e esterna. Nel “non luogo senza fuori” che definisce lo spazio-tempo della globalizzazione imperialista, l’occidente non è più il laboratorio del mondo, non costituisce più il futuro radioso (capitalista o socialista) di un progresso positivo e lineare. La stessa nozione di futuro è in crisi e con essa quella di progresso, anche quando si presentano come “epistemologie del sud”. Gli orfani dell’anti-imperialismo e dei muri totalitari dicono che la nozione di Impero è eurocentrica, però in realtà non possono accettarla perché non è sufficientemente occidentale e procurano, così, un “fuori” paranoico nella nostalgia per vecchie guerre fredde, nella farsesca opposizione tra, da un lato, il capitalismo “liberale” dell’UE e degli Stati Uniti e, dall’altro, il capitalismo “sociale” della Cina, della Russia e del Brasile (BRICS).

Non ci sono più cavie nei laboratori. Che siano ratti o ragni, stanno tutte esercitando il proprio diritto di fuga dalle alternative binarie che il pensiero post-coloniale produce nel Nord o nel Sud. Se oggi esiste ancora un “fuori” è quello che si costituisce nell’esodo, tra le reti e le piazze.
2. “Los cantes de ida y vuelta”: da maggio a giugno.
Non siamo mai stati moderni, ma i laboratori del potere non smettono di catturare e gerarchizzare la potenza del sapere prodotto dalla cooperazione sociale, dalle relazioni costitutive della democrazia reale. Anche quelli che si dicono preoccupati per il suo “sviluppo”, esattamente perché cercano di costruire i “laboratori” del futuro, finiscono per voler rimettere ragni e topi nelle gabbie di una sapere purificato, impotente e… insensato. Siamo sempre stati antropofagici, ma la sinistra nazional-sviluppista e sovrana continua a falsificare la piattaforma delle “riforme”, sognando il “socialismo in un unico paese” e funzionando, di fatto, come un apripista autoritario che apre il cammino alla destra e alla sua globalizzazione neoliberale: tra mega-dighe e mega-eventi, gli indios sono trasformati in miserabili e i poveri in lavoratori terziarizzati; i migranti non cessano di essere subalterni e la cittadinanza è ridotta a un’operazione d’immunizzazione del corpo dalla nazione produttiva, così come la pensano Dilma e Serra in Brasile, Chevènement e Le Pen in Francia, Renzi e Salvini in Italia, Thilo Sarrazin e Merkel in Germania.

Se l’antropologia simmetrica ci dice che non siamo mai stati moderni e, quindi, che nessun laboratorio ha prodotto scienza come nessun tribunale ha mai fatto giustizia, il prospettivismo amerindio colloca la produzione del sapere nei mille piani tracciati dallo scambio di punti di vista. L’uomo è un nodo di relazioni: la impurezza del meticciato universale, soggetto e oggetto, cultura e natura. Non si tratta quindi di pensare il Nord a partire dal Sud, nemmeno il Sud dal Nord, ma pensare nell’intermezzo, nell’esodo: il concatenamento, il divenire-sud del Nord e il divenire-nord del Sud, i “cantos de ida y vuelta”: la situazione post-coloniale non riguarda solo le ex colonie, ma anche la metropoli. Il pensiero è selvaggio e civilizzato.

Il prospettivismo amerindio, la filosofia della percezione e la schizoanalisi sono i volti molteplici di un unico processo di produzione del sapere: discorsi e atti politici che costituiscono le società, i gruppi, le classi. La giustizia è lotta e non un tribunale e ciò esattamente nella misura in cui la verità non sta in nessun laboratorio, ma nel coraggio di distruggerlo: l’osar sapere ha sempre bisogno di un saper osare. Esercitando il nostro diritto di fuga, ci riuniamo qui per pensare cosa sta succedendo tra il Nord e il Sud, tra la Spagna e il Brasile, ovvero tra le esperienze più dinamiche dell’Europa e dell’America del Sud, anche se queste “dinamiche” hanno significati opposti.
Tra le sollevazioni sorte in seguito all’ondata delle primavere arabe, quella del 15 maggio del 2011 in Spagna (15M) è stata senza dubbio quella che è riuscita più di tutte a generalizzarsi e a mantenersi nel tempo in Europa, mentre quella del giugno del 2013 in Brasile è stata quella che si è più massificata e radicalizzata in America Latina e, malgrado tutto, continua viva. Nei due casi sono entrati in scena nuovi personaggi: le moltitudini del lavoro metropolitano.

Il 15M è nato come una sollevazione contro una rappresentanza sequestrata da un doppio dispositivo di comando: del sistema finanziario e del sistema dei partiti; si è presentato come un movimento emergente e distribuito nelle reti sociali, seguendo l’esempio delle primavere arabe e della Geração à Rasca portoghese, per tradursi rapidamente in un’occupazione generalizzata dello spazio pubblico (las Acampadas). Il 15M è una “criticità auto-organizzata”: non un “movimento unico”, ma un avvenimento ampliato nel quale è apparso un paese dall’altro lato dello specchio: “Now, here, you see, it takes all the running you can do, to keep in the same place”. Stare nello stesso posto significa trovarsi in una situazione aperta all’avvenimento, nella quale l’energia potenziale distribuita trasforma lo status quo in un processo costituente.

L’eccezione qui è la persistenza inedita di questa “criticità auto-organizzata” del sistema delle lotte sociali. Criticità è il fatto di una rivoluzione non lineare con disposizioni che esprimono tensioni etiche, politiche, erotiche, biopolitiche. Il 15M è stato attraversato da almeno 3 sviluppi: la connessione con piattaforme di lotta che provengono dai movimenti e gridano “noi non pagheremo per la vostra crisi”, come la Plataforma de Afectados por la Hipoteca (PAH); l’emergenza del sindacalismo sociale (come le Mareas di educazione e salute); i movimenti di occupazione delle città (i Centri Sociali) e la creazione di un sistema-rete emergente, multilivello, tra le reti e le piazze, tra le persone e i collettivi.

Con questa capacità di durare, il 15M ha iniziato a essere attraversato dalla questione della rappresentanza elettorale in due momenti: immediatamente nel 2011, quando ha rifiutato di scegliere il “meno peggio” e ha lasciato che il PSOE fosse sconfitto dal PP; e, successivamente, nelle elezioni europee del giugno del 2014 quando si sono presentate due nuove formazioni politiche: il Partito X, Partido del futuro, e Podemos. Nonostante il Partito X provenisse dalle reti tecnopolitiche interne al 15 M, è stato Podemos ad avere un chiaro successo, riuscendo a intavolare la discussione sulla trasformazione elettorale e istituzionale prodotta dal 15M e potendo, oggi, pur con numerose difficoltà dovute alla sua ipotesi organizzativa e strategica, diventare il simbolo di un cambiamento politico costituente in Spagna e nell’UE. Podemos non è l’unico progetto di assalto istituzionale, ma quello che fino a oggi ha riscosso più successo, in nitida competizione (un esercizio salutare di democrazia) con processi come Guaynem e Ganemos a Barcellona, Madrid, Saragozza e in misura minore a La Coruña, Malaga, etc.

Il giugno 2013 in Brasile è esploso come uno sciopero metropolitano contro l’aumento delle tariffe dei trasporti (indetto dal Movimento Passe Livre – MPL) per diventare la maggiore sollevazione della storia del Brasile, che si è generalizzata per tutto il paese, toccando tutte le questioni inerenti alla democratizzazione, al di là del regime post-dittatura cristallizzato nella “Costituzione del 1988”: da un lato, ha fatto convergere in una rivolta generale le innumerevoli lotte di resistenza contro il modello di città legata all’ibridizzazione tra il neo-sviluppismo e la costruzione della “città globale”; dall’altro, si è esteso con la moltiplicazione di “acampadas” direttamente dentro i templi della rappresentanza: i tentativi di occupazione del Congresso nazionale a Brasilia si sono poi replicati con le occupazioni di per lo meno 12 sedi di consigli comunali o parlamenti regionali (a Porto Alegre, Belo Horizonte, Campinas, Rio de Janeiro, ecc.).

La forma dello sciopero metropolitano è diventata una referenza per innumerevoli movimenti autonomi di sciopero: a Rio de Janeiro, per i professori che in ottobre dello stesso anno sono tornati a occupare i consigli sfidando la violenza della polizia durante 3 giorni di scontri campali; e per la lotta vittoriosa dei netturbini, in febbraio del 2014, nel mezzo del carnevale. Questi scioperi hanno mostrato il terreno di costituzione delle lotte sociali. Il giugno 2013 è stato però decostruito: la resistenza contro la violenza della polizia, che inizialmente ha massificato la sollevazione, è diventata il terreno di una repressione feroce che ha paralizzato le mobilitazioni dei poveri. Durante le elezioni nazionali di ottobre 2014, il marketing miliardario del governo (in particolare del PT), dopo aver distrutto la possibilità di un lulismo senza Lula (con Marina Silva) e mentendo vergognosamente, è riuscito a polarizzare e a mistificare la campagna elettorale. L’irresponsabilità di una politica totalmente corrotta è stata così grande che ha, alla fine, resuscitato la mobilizzazione di una destra che era rimasta completamente paralizzata e che oggi sta nelle piazze, attraversando la giusta indignazione popolare.

3. Cosa “podemos” tra Spagna e Brasile?
In Spagna il 15M è stato una mobilizzazione generale contro tutta la rappresentanza monopolizzata dal sistema dei partiti che è nato con il regime costituzionale post-franchista del 1978, incapace di bloccare e tanto meno di frenare il processo distruttivo del sistema di protezione sociale. In Brasile, il giugno 2013 è stato una sollevazione metropolitana contro una rappresentanza che è diventata un ostacolo per la costruzione di un vero welfare. Nel Nord il lavoro sta diventando precario e povero, attraversando una “brasilianizzazione” Nel Sud i poveri sono costretti a lavorare di forma precaria, passando per un’“europeizzazione” che è in realtà una “brasilianizzazione”: non più a causa del ritardo e del sottosviluppo, ma della modernizzazione e della globalizzazione.

Nel 15M si è dato il rifiuto dell’austerità neoliberale, ma anche l’affermazione della nuova potenza del divenire-povero del lavoro per la produzione di una nuova generazione di diritti, la produzione di un’altra città. Nel luglio 2013 il lavoro dei poveri ha rivendicato un nuovo tipo di diritti, ha anticipato la crisi dell’avventura neo-sviluppista sul terreno della trasformazione dei valori. Il divenire-povero del lavoro, scambiando il punto di vista del divenire-lavoro dei poveri, indica un divenire-Brasile (un divenire-sud) della moltitudine del lavoro in Spagna e un divenir-Spagna (un divenire-nord) della moltitudine dei poveri in Brasile. Le sollevazioni plebee del 15 maggio 2011 e del giugno 2013 durarono nel farsi delle moltitudini in Spagna come in Brasile.

L’autonomia delle lotte si è affermata inizialmente come base di una critica sistemica della rappresentanza e dell’autonomia del politico che punta a disgregare le dimensioni produttive delle lotte nel terreno della composizione dello Stato, dei partiti e delle corporazioni. Tuttavia, le moltitudini spagnole e brasiliane hanno bisogno di far fronte alla sfida del che fare, perché la loro potenza si affermi come breccia democratica, come “democrazia reale subito”. Come passare per la rappresentanza senza lasciare che l’autonomia costituente del movimento sia ridotta nuovamente all’autonomia del politico e quindi sconfitta?

Una delle specificità di Podemos in Spagna è di fare esplicito riferimento, oltre al 15M, al virtuosismo dei “governi progressisti” dell’America del Sud. Da un lato, si distingue così da esperienze elettorali simili nella combinazione della potenza del ciberattivismo con una hiper-leadership promossa per mezzo dei media tradizionali, come il Movimento 5 Stelle in Italia; dall’altro, è proprio questa ida y vuelta verso il Sud che si può trasformare in una tremenda trappola. Il ciclo dei governi chiamati “progressisti” è finito e, ancora peggio, non lascia trasparire nessun “virtuosismo”, neppur residuale o inerte. Diventando un socialismo del secolo XXI, il chavismo ha già riprodotto in breve tempo tutte le magagne del capitalismo di Stato e oggi sopravvive come un regime fallito, che appena si appoggia sulla capacità repressiva dell’esercito e più in generale dello Stato. Non si tratta solo di un Venezuela agonizzante. Anche l’Argentina arriva estenuata alla fine del kirchnerismo, il regime che deve sostenere un candidato alle prossime elezioni che proviene dal menemismo neoliberale.

Anche in Ecuador ci sono segnali di esaurimento di fronte alle ampie manifestazioni sociali, in particolare quelle indigene. In tutti i casi, e ciò include anche la Bolivia di Evo, gli esperimenti democratici hanno smesso di esistere e ad avere la meglio è una visione statalista e centralizzata: il lutto del socialismo e dell’autoritarismo statale non è ancora avvenuto. La critica del mercato e dei meccanismi della democrazia rappresentativa serve appena per mistificare le pratiche di sfruttamento del lavoro e, ancora peggio, pratiche arcaiche.

Ma è nel caso del Brasile, il paese che è baricentro geo-economico del subcontinente e garante dell’intero ciclo degli anni 2000, che l’esaurimento si presenta in modo radicale e devastante. La crisi brasiliana è scoppiata definitivamente nel momento in cui vari osservatori internazionali pensavano di notare la sua vitalità: nelle elezioni dell’ottobre 2014. Della complessità della situazione brasiliana interessa estrarre tre grandi elementi: 1) in primo luogo la sua dimensione soggettiva, 2) in secondo luogo, le determinazioni oggettive e, infine, 3) le implicazioni politico-teoriche.

1) Sul piano soggettivo dell’evento, contrariamente ad altri paesi dell’America Latina, il movimento del giugno 2013 ha anticipato la crisi oggettiva (economica), aprendo una gigantesca breccia per una svolta verso la radicalizzazione della democrazia. Di fronte a ciò il lulismo (del governo Dilma, passando per il PT e lo stesso Lula) ha mobilitato tutte le risorse che il potere economico e politico gli offriva per chiudere la breccia ad ogni costo, e questo su tre fronti d’intervento: la delegittimazione della sollevazione, squalificata a livello di rigurgito “fascista”; la vertiginosa decisione di trasformare alcune reti di giovani patrocinati dal proprio PT come rappresentanti del “movimento”; la pianificazione e la coordinazione di un fortissimo schema di repressione, applicato a tutti i livelli federali (in particolare in occasione del Mondiale della FIFA). Il governo ha, inoltre, usato la sua potentissima macchina di marketing per produrre l’immagine e la sensazione di una presunta “ondata conservatrice” nella società e di una “campagna d’odio” nelle reti sociali.

Il PT e il lulismo hanno dunque usato tutto il loro potere (statale) per chiudere la breccia democratica, molto semplicemente perché loro non ci potevano entrare, proprio nei termini della profezia: è più difficile che un ricco vada al paradiso che un cammello passi per la cruna dell’ago. Il movimento ha aperto la breccia e allargato la cruna, ma il PT e la sua burocrazia mafiosa erano già diventati troppo ricchi e grassi di prebende e mazzette per poterci passare. Non potendo entrare nella cruna, hanno preferito cercare di distruggere l’ago.

La breccia del giugno 2013 determinava due movimenti virtuosi: il primo era immanente alla propria dinamica della sollevazione come possibilità per i poveri di poter lottare senza essere uccisi, ed è esattamente questo che ha trovato espressione nella vittoriosa campagna per Amarildo – il muratore, torturato, assassinato e fatto scomparire per mano della polizia pacificatrice della favela di Rocinha a Rio de Janeiro. Il secondo riguardava il rifiuto del dispositivo binario che domina tutta la comunicazione del lulismo e che consiste nell’alimentare una lotta ideologica (il PT contro l’elite bianca e il neoliberalismo) tanto violenta quanto vuota e totalmente falsa, dato che nei fatti governa per le grandi imprese edili, le banche e, nel parlare di una riduzione delle diseguaglianze, la pensa, nella migliore delle ipotesi, come l’emergenza di una “nuova classe media”.

Il giugno 2013 era insopportabile per il PT e Lula perché gli impediva di continuare a pianificare cinicamente sul sottosviluppo brasiliano per giustificare la sua corruzione pubblica e morale, ovvero il fatto di governare non solo per e con i ricchi ma anche come ricco (anche se parvenu).
2) La determinazione oggettiva ha due dimensioni che s’inseriscono una dentro dell’altra: la crisi in Brasile non deriva – come in Europa – dal fatto che il governo si è rifiutato di applicare politiche anticicliche, ma perché le ha fatte e ne ha fatte troppe. Successivamente, a differenza di altri paesi dell’America del Sud, una volta rieletto, il governo Lula-Dilma ha invertito di 180 gradi le sue priorità per applicare una dura politica economica di austerità. Indipendentemente da ciò che questo significa dal punto di vista della truffa elettorale, il Brasile oggi si trova immerso in una grave crisi economica, governata da un violentissimo dispositivo di tagli di budget, tagli ai diritti dei lavoratori, aumenti dei tassi d’interesse e, al tempo stesso, di aumento generalizzato delle tariffe amministrative (dei servizi pubblici, in particolare dei trasporti, della benzina e dell’elettricità).

Il governo Dilma è riuscito a fare peggio che la stagflazione, tanto che oggi ci troviamo in piena recessione e inflazione, ossia in una vera e propria depressione. I poveri del Brasile dovranno sopportare un lungo periodo di recessione con alta inflazione. Il governo Dilma sta realizzando una vera confisca dai redditi dei lavoratori e dalle fasce intermedie degli impresari.

Il lungo periodo dei governi Lula–Dilma può essere diviso in due fasi. Tra il 2003 e il 2008, il PT ha seguito alla lettera le ricette neoliberali ma si è anche fatto prendere da alcune innovazioni che hanno costituito piccole fessure. Tutto ciò si riassume in tre momenti: la massificazione di politiche neoliberali di distribuzione del reddito (Bolsa Familia); le politiche di accesso, in particolare all’insegnamento universitario (Prouni, Reuni e le quote razziali nelle università); la valorizzazione del salario minimo che, oltre a migliorare il livello di reddito dei lavoratori poveri, ha permesso un upgrade generale del sistema di protezione sociale. A partire dal 2009, dopo la grande crisi finanziaria, il governo Lula-Dilma ha cominciato a implementare politiche di accelerazione della crescita, teoricamente ispirate al vecchio nazional-sviluppismo e di fatto pianificate e realizzate a partire dalla traduzione, in termini di politica economica, del gioco elettorale, ovvero dalla corruzione sistemica della quale il PT è diventato, più che un attore tra gli altri, il principale articolatore.

Questo mentre la tenue riduzione delle disuguaglianze prodotta nella prima fase veniva trattata come l’emergenza di una “nuova classe media” destinata a essere – sul piano soggettivo – la base del nuovo consenso e allo stesso tempo – sul piano obiettivo – la destinataria di politiche di reindustrializzazione, di grandi opere e di grandi eventi: l’edificazione di un Brasil Maior, come diceva la propaganda. Un vero e proprio festival di sussidi pubblici per i global players: dalle grandi multinazionali automobilistiche alle grandi imprese edili, passando per l’agrobusiness.

L’intero processo si è alimentato con il pieno coinvolgimento della Petrobras nello sfruttamento “nazionale” dei giacimenti di petrolio in acque molto profonde, delle grandi opere (che provengono dai progetti megalomani della dittatura militare) come le mega-dighe idroelettriche in Amazzonia, il sottomarino e le centrali nucleari (francesi), dei mega-eventi (Coppa della FIFA e Olimpiadi come paradigmi). Non c’è stata nessuna reindustrializzazione e mentre gli investimenti nei grandi lavori e nei grandi eventi sportivi hanno saturato le metropoli di tutto il paese, il “conto” è arrivato prima che il Brasile diventasse maggiore. Nel frattempo, la cosiddetta “nuova classe media” si trova tra le file dei disoccupati ai quali il governo ha già tagliato la protezione.

3) La convergenza del Brasile Maggiore neo-sviluppista con le stesse, e persino più violente, politiche di austerità ci fornisce alcuni spunti di riflessione teorica. A caratterizzare i “limiti” dei governi progressisti dell’America Latina non sono gli impegni presi con l’“estrattivismo” e ancora meno il ruolo che avrebbe giocato l’imperialismo. Sia chiaro: l’estrattivismo è una delle caratteristiche fondamentali del capitalismo in tutto il subcontinente ed è con questi “vecchi” interessi che i governi, che erano “nuovi”, hanno dovuto negoziare e allearsi per vincere le elezioni e per governare. Ma non è questo che definisce la particolarità dei tentativi d’innovazione in termini di politiche economiche e industriali.

Al contrario, l’esaurimento dei nuovi governi e la crisi hanno a che fare con il modo in cui hanno tentato uscire dall’estrattivismo, ovvero con il modo in cui hanno tentato di uscirne approfondendolo (nelle foreste) e estendendolo (nelle metropoli). Nel caso brasiliano questo è evidente: invece di scommettere sulla radicalizzazione della democrazia e sui processi di mobilitazione democratica, il PT e Lula credono solamente – come la propria scelta della figura di Dilma mostra – nello Stato e nel Grande Capitale (i global players). Così, non c’è stata nessuna rottura con l’estrattivismo e nessuna accelerazione verso il cambiamento, ma appena un approfondimento dell’inserimento nelle dimensioni mafiose del capitalismo contemporaneo e delle sue forme di controllo del territorio e dello Stato.

I giacimenti dell’accumulazione del capitalismo cognitivo in Brasile si trovano nelle metropoli e riguardano la mobilitazione dei poveri in quanto poveri: il lavoro del povero che non passa più per la sua iniziale inserzione nel rapporto salariale. Invece di riconoscere la potenza produttiva di nuovi valori, che la radicalizzazione democratica offre, il PT di Lula e Dilma si sono uniti alle vecchie e nuove mafie attraverso le quali il capitalismo cognitivo cattura le eccedenze produttive nei territori. La mafia neo-sviluppista (delle grandi imprese esecutrici di lavori pubblici) si è unita alla mafia oligarchica dell’agrobusiness e alle mafie diffuse che controllano i territori produttivi delle metropoli in un’orgia improduttiva che ha fatto solamente esplodere l’inflazione, accentuare le disuguaglianze e la segregazione urbane.

4. Le coalizioni sociali e il municipalismo costituente
La grande vittoria del giugno 2013 sta nelle lotte e nelle pratiche delle coalizioni sociali che oggi in Brasile guardano al Municipalismo Costituente che si è manifestato con i risultati elettorali del 24M in Spagna.
Le coalizioni sociali stanno già in un divenire-municipalista, al modo stesso in cui i giovani governi municipali hanno bisogno di continuare a essere attraversati dai concatenamenti delle coalizioni sociali. I Ganemos sono nati come opportunità di tentare nelle elezioni municipali l’assalto istituzionale proposto da Podemos, ma anche come una significativa inflessione, al di là di Podemos. Il processo di costituzione di Podemos, con l’Assemblea di Vista Alegre (nel novembre 2014), ha avuto un alto costo perché si sono, così, limitati la polifonia e uno stile di fare politica che presuppone una cooperazione distribuita. In città come Barcellona, Madrid e Saragozza, l’“effetto Podemos” si è formato sin dall’inizio per mezzo di iniziative cittadine che funzionano come punti di attrazione e biforcazione del sistema-rete creatosi nel M15.

Il municipalismo, come il caso di Ahora Madrid dimostra, contribuisce più che Podemos: senza la tensione di Municipalia, prima e, subito dopo, di Ganemos Madrid, la vittoria sarebbe stata impossibile, visto che la radicalità democratica – che è il “codice 15M” – sarebbe rimasta dominata da relazioni di forza tra entità chiuse e trincerate.
In Brasile, è il punto di vista della lotta dei netturbini di Rio de Janeiro che ci introduce direttamente all’interno di questo divenire. La lotta degli spazzini è scoppiata nel febbraio del 2014 ed è stata, forse, la maggior vittoria del movimento di giugno. I netturbini si sono ispirati direttamente alle dinamiche autonome e orizzontali di giugno e il loro sciopero si è riflesso con potenza nelle reti sociali e nelle strade. La lotta è stata rapida e vittoriosa (con un aumento salariale del 37%) e ha contato con un ampio appoggio sociale, diventando un riferimento per tutto l’attivismo.

Tuttavia, mentre l’attivismo è andato esaurendosi in una spirale senza fine di azione e repressione, i netturbini non hanno smesso il loro esodo fuori dalla schiavitù delle proprie condizioni di lavoro e nel febbraio 2015 si sono nuovamente fatti presente con una nuova lotta salariale (che è riuscita ad ottenere l’8% di aumento in un momento di politiche di austerità) e presentando una lista indipendente contro il sindacato crumiro e mafioso. La risposta del Comune di Rio de Janeiro (ovvero del PT e del PMDB) avviene oggi lungo due assi complementari: da un lato, una repressione feroce; dall’altro, automazione e subappalti.

Dal lato della repressione, centinaia di licenziamenti, compresi i membri della lista autonoma che concorreva alla direzione del sindacato e più di trenta netturbini sono stati accusati di “organizzazione criminale” e ricevono minacce di ogni tipo. Dal lato dell’automazione, il municipio di Rio ha iniziato a distribuire nelle strade i cassonetti per la raccolta dei rifiuti che permettono ai camion di operare automaticamente e all’impresa municipale di subappaltare il lavoro degli autisti così come la gestione dei camion stessi. In conclusione, la lotta dei netturbini è già riuscita – in meno di un anno – a determinare quel processo d’innovazione che la condizione neo-schiavistica nella quale erano mantenuti permetteva di rimandare. Allo stesso tempo, con tutte le difficoltà che questo può implicare, la pratica dei netturbini di organizzarsi in circoli di cittadinanza, il loro lavoro sociale nelle favelas, le connessioni con gli altri tentativi di costruzione di un “sindacalismo sociale” li pone nella posizione di estendere le loro lotte direttamente nel terreno della conoscenza e in quello metropolitano: non contro l’automazione, ma per decidere chi trarrà beneficio dalla modernizzazione che loro stessi hanno prodotto: il capitale e le sue mafie politiche o i netturbini come agenti ambientali di una nuova cittadinanza?

La “coalizione sociale” appare non solo come un terreno necessario e urgente perché la lotta autonoma possa espandersi nel terreno costituente della gestione dell’impresa di pulizia urbana, dell’ambiente e della salute nelle comunità e nelle favelas. La lotta metropolitana ha bisogno di costruire coalizioni di lavoratori e abitanti in modo che l’automazione della raccolta dei rifiuti si traduca in un miglioramento delle condizioni di lavoro dei netturbini che così potranno, oltre a mantenere l’impiego, essere agenti di protezione ambientale nei territori dove la gestione dei rifiuti è urgentissima. Il comune è già il terreno della lotta autonoma dei netturbini che, non a caso, si sono costituiti in un Circolo della Cittadinanza: il Circulo Laranja.

Nel caso della Spagna, il successo nelle prossime elezioni generali delle confluenze basate sulla trasversalità e sulla radicalità democratica, seguendo l’esempio di Ahora Madrid, Barcelona en Comù, Zaragoza en Comù ecc., potrà significare la storica trasformazione del sistema-rete-15M in un sistema di ordine superiore, capace di integrare il sistema politico e rappresentativo. Si tratterebbe di una rottura costituente o, in tutti i casi, della chiave di una situazione di fronte alla quale tutta l’”autonomia del politico” è un ostacolo per la realizzazione della promessa delle lotte: Democracia Real Ya.
Rio de Janeiro e Madrid – settembre 2015
Traduzione di Lalita Kraus

Globalist
30 09 2015

Dal dialogo a più voci con la figlia alla app che guida nei luoghi del movimento romano
La domanda è: un'esperienza che ha trasformato milioni di donne e non pochi uomini si può trasmettere? Senza farne un monumento, senza indulgere in un inutile e nostalgico «come eravamo», soprattutto senza suscitare una reazione di rigetto in chi allora non c'era e dovrebbe/potrebbe ascoltare? 


L'esperienza, l'avrete già capito, è il femminismo, unica irripetibile «rivoluzione non cruenta» (ma in senso metaforico morti e feriti ci sono stati anche qui!) del Ventesimo secolo. Che fare dunque? Narrazione in soggettiva come nelle sette puntate sul femminismo della web tv MemoMi (www.memomi.it) dedicata alla storia della città ambrosiana? Qui è la voce di Lea Melandri a guidarci con passione e precisione, ha di recente scritto Marina Cosi, nel decennio che va dal 1965, alba di tempi nuovi, al 1975, tra la pratica femminista, le manifestazioni, l'autocoscienza, i giornali del movimento, il separatismo sì e no, la scuola non autoritaria, i consultori autogestiti, le casalinghe alle 150 ore, la libreria di via Dogana, il Cicip&Ciciap... Un racconto senza rammarico né rimpianti perché oggi forse c'è ancora più bisogno di riflettere e lottare.

È il modo giusto di comunicare? Si procede per tentativi, è chiaro. Chi cerca in una scrittura che parte da sé e in una narrazione polifonica il senso di un percorso sorprendente. E chi invece parte dai documenti e dagli archivi per realizzare una sorta di censimento che coniuga femminismo e tecnologia, creando uno strumento adatto ai tempi. Un esempio del primo caso è il bel libro «Mia madre femminista» a cura di Marina Santini e Luciana Tavernini (Il Poligrafo editore). Qui le autrici milanesi intrecciano un dialogo (immaginario?) con una figlia 27enne a brevi racconti di molte donne e qualche uomo che hanno condiviso conflitti, fatiche e scoperte in ogni parte d'Italia dalla metà degli anni '60 fino ad oggi.

Il libro restituisce l'atmosfera unica di quegli anni '70, '80, una grande varietà di esperienze travolgenti, che si alimentavano di pensieri, emozioni, corpi, tutto intersecato, giorni e notti, lavoro e vacanze. Una partitura in quattro capitoli, dedicati alle parole, al corpo, ai luoghi e al lavoro. Resta però l'impressione della soggettività un po' rimossa della figlia che interviene con sottolineature ma anche nel quarto capitolo dove parla in prima persona è sempre un po' in ombra. Si crea quindi un contrasto fra la provocazione iniziale: «ma doveva proprio capitarmi una madre femminista?» e una relazione che appare fin troppo pacificata: «Cara mamma, ti sei accorta di come sono cambiata. Che ne dici? Sono forse diventata femminista?» commenta la figlia alla fine del libro. Ed è inevitabile ripensare al bell'epistolario «Tra me e te» di Mariella Gramaglia e Maddalena Vianello, dove i conflitti e le contraddizioni madre/figlia apparivano meno sfumati.


Del tutto differenti le intenzioni di Giovanna Olivieri e Valeria Santini, romane, che partono dal bisogno di conservare in formato digitale un prezioso patrimonio storico e documentario. E per farlo conoscere creano uno strumento accessibile a ragazze e ragazzi smanettoni di smartphone e iPhone. Metti, in altre parole, il femminismo romano in una app (e in un sito), con 500 punti caldi, schede di approfondimento, foto e documenti che richiamano alla memoria momenti dimenticati. Un tour reale o virtuale (dal computer di casa) per visitare i luoghi cari al movimento delle donne. Basta spostare il cursore sulla mappa e spuntano gli striscioni delle donne dell'Udi nel corteo femminista per l'aborto lungo via Cavour: è il 3 aprile 1976.

Nello stesso anno, il 27 novembre, si stagliano le fiaccole accese in piazza dell'Indipendenza con lo slogan «Riprendiamoci la notte». Un altro piccolo movimento del cursore e si vede il corteo delle «Donne unite contro la violenza», che si snoda l'8 marzo 1979. Dove? Per saperlo, basta cliccare su «raggiungi», facendosi poi guidare dal navigatore verso Trinità dei Monti. Ci sono anche mappe dei gruppi nati negli anni '70, negli anni '80 (oltre 300 sedi) e negli anni successivi, accanto alle imprese commerciali gestite da donne: «Herstory» (www.herstory.it) è un progetto ambizioso, il primo vero censimento di collettivi, centri e associazioni femminili. Un progetto reso possibile dai «tesori di carta» raccolti da Archivia, associazione fondata nel 2003, che ha ereditato i fondi di 10 enti romani - testate, archivi e centri di documentazione -, e ora dispone di circa 35 mila fotografie di eventi e manifestazioni. Saranno in molti a scaricare un app come questa? La scommessa è aperta, sulla pagina Fb i contatti sono quasi un migliaio, ma basterà questo divertente tuffo nella tecnologia ad appassionare le nuove generazioni?

La Repubblica
30 09 2015

Nella notte voci di un blitz e il trasloco del campo dalla pineta alla scogliera, come agli inizi della protesta: poi l'arrivo di 12 camionette dei carabinieri e i primi fermi. E i francesi sbarrano il confine. Alle 12 manifestazione dei centri sociali. Il sindaco Ioculano: "Lo chiedevamo da tempo". Il vescovo tratta per una collocazione per l'inverno.
Confine sbarrato dai poliziotti francesi, dall'Italia 12 camionette di carabinieri e polizia arrivati all'alba ai Balzi Rossi: succede ora alla frontiera di Ventimiglia, al campo No Borders, autogestito da migranti e attivisti. Per evitare lo sgombero e l'arresto, 100 persone tra migranti e italiani sono fuggiti dal campo occupato sotto la pineta, e si sono rifugiati sugli scogli, portando tutto con loro, come a giugno all'inizio della protesta.

Intorno alle 7, mentre albeggia, nel caos e tra le urla dei No Borders, le forze dell'ordine entrano nell'accampamento con un'ordinanza di sgombero: lo smantellano e bonificano, "Come chiedevamo da tempo, troppi i disagi che causava", commenta subito il sindaco di Ventimiglia Enrico Ioculano. Gli attivisti hanno indetto una manifestazione per mezzogiorno nel centro di Ventimiglia; in arrivo giovani da varie parti d'Italia, confermata la presenza di associazioni solidali.
Ma qui, tra i migranti, nessuno si arrende, "Noi resistiamo, stiamo qui sugli scogli, come alle origini, guardandoci a distanza con gli agenti", spiega concitato Alexander, uno degli attivisti dagli scogli.

Intorno, ritmi e slogan della protesta di sempre: “We are not going back”. Intanto le forze dell'ordine in assetto anti sommossa sono sempre più vicine, circondano gli scogli, e si teme uno scontro sulle rocce che potrebbe essere rischioso. "Le strade sono chiuse, ci sono ragazzi che stanno provando a raggiungerci ma vengono bloccati", denunciano dagli scogli i ragazzi, che mandano foto, "ma non sappiamo per quanto avremo ancora i cellulari carichi, nè cosa succederà".
Per il sindaco "devono spostarsi, dove andranno lo valuterà la questura, ma questa situazione non poteva più andare avanti - spiega - capiamo le motivazione della loro protesta ma il campo era abusivo e ci vuole rispetto per una città che è stata accogliente e ospitale".

Ma per mediare con le forze dell'ordine gli attivisti hanno chiamato il vescovo di Ventimiglia, Antonio Suetta, da sempre loro sostenitore: "Sta arrivando qui, ha già contattato la Prefettura e gli hanno assicurato che non useranno la forza - spiega Alexander - Vedremo... Di sicuro, il vescovo si era detto disponibile a concederci una struttura per traslocare il presidio. Se ci lasciassero passare, magari ci sposteremmo senza conseguenze per nessuno...".

Per ora, però, il confronto è sugli scogli, da una parte decine di agenti in assetto antisommossa, dall'altra loro. "C'era tensione nell'aria, sapevamo del rischio di uno sgombero ma non pensavamo di arrivare a questo punto. Dodici camionette sono tante. Mentre i francesi hanno sbarrato il confine per evitarci vie di fuga", conclude Alex.

 

Cronache di ordinario razzismo
29 09 2015

E’ online il nuovo documentario di Mario Badagliacca sui Centri di Identificazione ed Espulsione in Italia tra migranti, filo spinato e paura. Il video multimediale “Lettere dal Cie” fa parte di un progetto di documentazione visiva sui CIE in Italia, nato per denunciare la violazione dei diritti in questi “campi di concentramento civilizzati“. Esso racconta la vita quotidiana nei Centri di identificazione attraverso la storia personale di Lassaad Jelassi, mediatore culturale da 25 anni in Italia. La sua voce ci accompagna dentro il Cie di Ponte Galeria a Roma, dove è stato trattenuto per quattro mesi. Lassaad descrive la vita nel centro, la difficoltà di soddisfare anche i bisogni più elementari, l’incapacità di spiegare a se stesso le ragioni della detenzione, la speranza di tornare ad essere un uomo libero.

Nelle immagini che scorrono attraverso quasi 100 scatti in bianco e nero, emerge il punto di vista del protagonista, ma, anche la sensazione del regista che afferma: “Dentro i CIE ho provato un disorientamento totale, e l’incapacità di trovare dei punti di riferimento psicologici e immaginari per spiegare a me stesso il luogo che stavo visitando”. Così circa tre anni fa è nato Lettere dal CIE, sviluppato tra i centri di Roma Ponte Galeria e Bari Palese, un progetto di documentazione visiva su questi fatti al centro di serie violazioni dei diritti umani nei confronti dei migranti.

È impossibile definire i confini tecnico-giuridici che costituiscono un CIE, si tratta di una “zona grigia” della legge italiana. Alti livelli di sicurezza, filo spinato, cani e gabbie a cielo aperto, sono i tratti distintivi dei CIE, che formalmente non sono prigioni e non accolgono detenuti, eppure, migliaia di donne e uomini ogni anno vengono privati della libertà con il trattenimento forzato nei CIE e poi espulsi. Molti dei migranti imprigionati vivono in Italia da anni e i loro figli frequentano regolarmente le scuole pubbliche. Impossibilitati a rinnovare il permesso di soggiorno, dopo essere stati reclusi nei CIE, vengono espulsi dall’Italia. Il numero di famiglie divise da questo meccanismo è alto. In altri casi le espulsioni riguardano anche le seconde generazioni nate e cresciute in Italia, che alla maggiore età si ritrovano ad avere problemi con il permesso di soggiorno.

Le immagini sono accompagnate dalle musiche dei Nine Inch Nails, dove i suoni industrial metal della band sembrano sottolineare lo stridere dei diritti umani con la sofferenza che dimora in quei luoghi.

Osservatorio Balcani e Caucaso
29 09 2015

La Turchia accoglie attualmente più di due milioni di profughi siriani ma non concede loro lo status di rifugiati. Questo e la dura vita che conducono li spinge a tentare la strada verso l'Europa
È durata dieci giorni l’odissea dei profughi siriani che, dalla frontiera turca, hanno tentato senza successo di passare in Grecia. Gli ultimi, circa cinquecento persone rimaste ad Edirne, nel palazzetto dello sport asseganto loro dal prefetto della città, hanno lasciato la città tracia giovedì mattina. I più tenaci hanno opposto resistenza qualche ora in più alle forze dell’ordine che li volevano sui pulmini pronti a partire, e sono stati condotti nel centro di espulsione di Edirne. Di quelli che hanno accettato di andare via spontaneamente, una parte è tornata nelle località di provenienza, altri si sono diretti verso la costa egea, dove ogni giorno decine di profughi tentano di raggiungere le isole greche via mare, rischiando la vita.
Speranze via terra
È stata proprio l'accresciuta consapevolezza del pericolo della traversata via mare a portare i migranti a intraprendere una nuova rotta verso l’Europa. Un pericolo di cui l’immagine del piccolo corpo di Aylan Kurdî di Kobane, gettato sulla spiaggia dalle onde nelle vicinanze della località turistica turca di Bodrum, lo scorso agosto, è diventato un simbolo a livello mondiale. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM), sarebbero almeno 224 le persone che hanno perso la vita dall'inizio del 2015 tentando di attraversare l’Egeo. Lo scorso 20 settembre, un'altra imbarcazione di fortuna è affondata al largo dei Dardanelli, causando la morte di 13 adulti e di un bambino.

La rete openeurope
OBC fa parte della rete transnazionale di media e ONG promossa da Mediapart.fr per raccontare le storie di migranti e solidarietà in Europa. Anche su Facebook e Twitter
Ma a incoraggiare i profughi a tentare la “via di terra” sono state anche le recenti dichiarazioni del governo tedesco, che si è detto disponibile ad accogliere diverse centinaia di migliaia di profughi. Lunedì 14 settembre, col passaparola diffuso tramite i social media, centinaia di profughi hanno cominciato ad affluire ad Edirne, nella Tracia turca, con l’obiettivo di passare in Europa. Molti sono arrivati in città con i pullman, altri a piedi, attraverso l’autostrada, altri ancora sono rimasti bloccati alla stazione dei pullman Bayrampaşa di Istanbul.
Le autorità turche hanno ingiunto alle società di trasporto di non vendere biglietti ai siriani. E nell’ultima settimana, i profughi che hanno tentato di resistere alle pressioni avviando anche uno sciopero della fame, sono stati gradualmente “convinti” a lasciare gli accampamenti. Ma a chiudere definitivamente la porta alle speranze dei profughi di Edirne, sembra essere stata la decisione finale del Consiglio europeo di ridistribuire i 120mila migranti già presenti sul territorio europeo, che ha di conseguenza sbarrato la strada ai nuovi arrivi.
Tornare alla “vita normale”

Venerdì scorso, anche il premier Ahmet Davutoğlu, che aveva ricevuto i rappresentanti dei gruppi di siriani in attesa a Istanbul e ad Edirne, li aveva esortati a “tornare alla vita normale”. Ma forse è proprio a causa della “vita normale” condotta dai siriani in Turchia che moltissimi cercano di arrivare in Europa. Una vita dove l’integrazione effettiva nella società risulta limitata per vari motivi, primo fra tutti per il fatto che Ankara non riconosce ai profughi lo status di rifugiato.
Negli ultimi quattro anni Ankara ha accolto oltre due milioni e 200mila profughi, destinando loro una spesa di oltre 6 miliardi di dollari ed allestendo 24 campi di accoglienza in dieci province al confine con la Siria. Tuttavia, i profughi (non solo quelli siriani, ma tutti quelli che arrivano dall’Est), per via della riserva geografica posta dalla Turchia alla Convenzione di Ginevra del 1951 - di cui Ankara è firmataria - non possono vedersi riconoscere lo status di rifugiato, ma vengono invece definiti “ospiti”. Si tratta quindi di persone che, secondo una normativa del 2014, si trovano sotto “protezione temporanea”.
Come sottolineano studi recenti sulla questione, la “protezione temporanea” permette ai profughi di avere accesso ai servizi sanitari, all’istruzione e agli aiuti sociali, ma non un permesso di soggiorno valido a tutti gli effetti. “La legislazione attuale affronta la questione dei siriani come un problema transitorio e non mira ad adottare un approccio basato sul riconoscimento dei diritti”, afferma la studiosa Zümray Kutlu.
Diritti (solo) sulla carta

Spesso è anche il groviglio burocratico a impedire agli “ospiti siriani” di accedere ai servizi offerti loro dalle autorità, e non ultimo l’ostacolo linguistico. A parte i circa 250mila profughi insediati nei campi, che godono in maniera diretta delle agevolazioni dello stato, circa 2 milioni di siriani devono organizzare la propria vita autonomamente. Dal lavoro all’istruzione, fino ad arrivare alla sanità alcuni diritti concessi nella teoria, non sembrano trovare però un riscontro nella realtà.
La normativa attuale non agevola l’inserimento dei siriani nel mondo del lavoro. Ottenere un permesso di lavoro, possibile a livello teorico per i profughi regolarmente iscritti al database del governo e solo per alcuni ambiti lavorativi stabiliti dal Consiglio dei ministri, nella vita reale risulta quasi impossibile. La conseguenza è che molti siriani sono costretti a lavorare in nero, sfruttati e con paghe che risultano ridotte fino all’80% rispetto a quanto percepito da un cittadino turco per lo stesso tipo di attività. E si tratta di una situazione che coinvolge anche i minori.

L’istruzione dei bambini siriani è un altro problema importante. Diversi studi indicano per i bambini che vivono fuori dai campi un tasso di scolarizzazione che si attesta tra il 14% e il 17%. E anche per l’accesso alla sanità, anche se i servizi di base sono garantiti e gratuiti per i cittadini siriani registrati nella banca dati governativa, gli stessi profughi denunciano che l’approccio dei singoli ospedali tende ad essere variabile e soggettivo.
“Nessuno è più sicuro in Siria”
E mentre nelle città altamente popolate come Istanbul l’integrazione risulta più facile, nei centri più piccoli si registrano fenomeni di intolleranza. I siriani vengono ritenuti responsabili per l’aumento dei prezzi degli affitti e della penuria di lavoro – visto che accettano di lavorare per meno. “I siriani non vogliono prendere gli autobus e parlare in arabo per paura di esporsi”, spiega Şenay Özden, attivista e ricercatrice sul campo che fino a pochi giorni fa si trovava nel quartiere Basmane di Izmir, altra località centrale per le partenze dei profughi verso la Grecia.

“Una novità che ho notato”, ha spiegato la studiosa in un’intervista ad Açık Radyo riguardo ai profughi che si trovano in quell’area, “è che molti siriani – ma ci sono anche numerosi pachistani, iracheni, egiziani, etiopi e altri ancora – risultano giunti da poco in Turchia, e da regioni come Damasco o dalle zone costiere che si trovano sotto il controllo del regime siriano. Quindi non fuggono perché si trovano sotto la sua minaccia. Molti sono dipendenti statali e hanno lasciato il posto fisso per venire qui. Questo dimostra che oramai nessuno di sente al sicuro in Siria”, ha aggiunto.

Mentre il numero dei profughi presenti in Turchia sembra ancora destinato a crescere la Commissione europea ha annunciato lo stanziamento di fondi destinati ad Ankara per facilitare l’accoglienza dei profughi al di fuori dai confini dell’UE. L’intenzione, anche alla luce dell’Accordo di riammissione siglato nel 2013 tra Ankara e Bruxelles (dal quale la Turchia si aspetta in cambio la libera circolazione dei propri cittadini in Europa), sarebbe quella di far sì che i profughi restino all’interno del territorio turco, utilizzato come una sorta di “zona cuscinetto”. Ma quanto queste misure potranno servire ad aiutare i profughi che vivono fuori dai campi ad integrarsi nella società turca, resta l’interrogativo più grande.

Connessioni Precarie
29 09 2015

Sono stato in Grecia nei giorni delle elezioni e in quelli successivi e, leggendo la maggior parte dei commenti scritti al riguardo dall’estero (ma in alcuni casi anche in Grecia) ho avuto una sensazione di disagio, di discrepanza, al punto che mi sono chiesto se quei testi stessero davvero parlando degli eventi di cui avevo appena fatto esperienza. Forse questo non dovrebbe sorprendere, perché la situazione che stiamo vivendo è estremamente sfaccettata, è senza precedenti, e i modelli che abbiamo a disposizione per pensarla e darne ragione sono inadeguati. Qui perciò non ho la pretesa di dire «la vera verità» o restituire un’«immagine reale» contro una «falsificata». Cercherò solo di offrire un altro punto di vista per leggere questa complessità.

Tra quelli che hanno commentato i risultati delle elezioni, alcuni hanno espresso disperazione per ciò che percepiscono come «un affare macabro che ha condotto al funerale del primo governo radicale di sinistra che si vedesse in Europa da una generazione». Altri, che non vogliono abbandonarsi al pessimismo, hanno cercato di immergersi nell’aritmetica elettorale e nelle cifre e hanno invocato l’alto tasso di astensionismo per provare che «i media si sbagliano nel presentare la vittoria di SYRIZA come la ratifica dell’austerity da parte del popolo greco»[1]. In effetti, questa lettura offerta dai media è sbagliata, ma non per la ragione appena enunciata. Tanto la versione «pessimistica» quanto quella «ottimistica» sono basate su una lettura che dà per scontati i numeri delle elezioni, gli obiettivi politici e i programmi dichiarati dai candidati. Ma non è tutto qui. Bisognerebbe infatti tenere presente che in politica (come altrove) una grande parte della comunicazione è messa in atto tacitamente o indirettamente, e ciò vale anche – e soprattutto – per la comunicazione di «un popolo che afferma la propria volontà sovrana». Anche in politica agisce una cosa chiamata intimità culturale (per usare un’espressione coniata dall’antropologo Michael Herzfeld, che ha condotto una lunga ricerca sul campo proprio in Grecia)[2]. Intimità culturale è un’espressione ricca e delicata, ma in questo articolo la userò per indicare il sotto-testo spesso invisibile che fa da complemento a ciò che è detto apertamente e pubblicamente e può anche trasformarlo o alterarlo.

Non sto parlando di qualcosa di mistico o soprannaturale. L’intimità politica si può esprimere anche in cifre, ammesso che si facciano le domande giuste. In questo caso, molte cose possono rivelarsi differenti a seconda di dove volgiamo lo sguardo. Ad esempio, un’agenzia statistica (non greca) ha fatto alcune delle domande giuste in un sondaggio realizzato in Grecia subito prima delle elezioni. Una delle domande era: «credi che il Memorandum d’Intesa tra il governo greco e i suoi creditori sarà implementato»? Questo è ciò che hanno scoperto e che hanno definito «stupefacente»:

È piuttosto stupefacente che il 64% creda che il terzo Memorandum non sarà implementato, mostrando una grande sfiducia nelle capacità di tutti i partiti politici che si sono impegnati a implementarlo. Oltre a questo, il 79% crede che il Memorandum non migliorerà le condizioni economiche e sociali in Grecia e solo il 15% pensa il contrario. Entrambe le cifre mostrano che negli anni passati i cittadini greci hanno acquisito un’esperienza sufficiente riguardo a ciò che significa implementazione, e rispetto al modo in cui questa implementazione – con le condizioni che implica – avrà effetti sul rendimento economico e sulla stabilità sociale. Nonostante tutto, le risposte a queste domande mandano un chiaro messaggio al prossimo governo e, più in generale, alla classe politica greca e dell’Eurozona (il grassetto è nella versione originale, il corsivo è mio).

Per quanto mi riguarda, l’unica cosa che ho trovato stupefacente è che secondo questo sondaggio esista un 15% che si aspetta seriamente che il Memorandum possa «migliorare le condizioni economiche e sociali della Grecia». Quanto al resto, andrei anche più in là aggiungendo che la prima cifra (che, come qualcuno può aver notato, coincide approssimativamente con la percentuale dell’OXI del referendum del 5 luglio) non solo mostra «una grande sfiducia rispetto alla capacità» di «tutti i partiti politici che si sono impegnati» a implementare il Memorandum, ma anche una grande fiducia verso l’indisponibilità di un partito politico – proprio quello che si è effettivamente impegnato – a implementarlo. In ogni caso, ciò rivela che la società greca è molto meno disperata dei suoi (auto-proclamati) difensori, e che ha in effetti «acquisito abbastanza esperienza riguardo a ciò che significa implementazione». Incidentalmente, si può notare che si tratta di un’espressione inusuale per il linguaggio spesso tecnocratico dei sondaggisti: di fatto, che cosa significa implementazione? E in che cosa consiste l’esperienza acquisita dalla società greca al riguardo?

Esperienza può essere proprio un altro nome per intimità culturale, o per uno dei suoi oggetti privilegiati. Uno dei principali interessi di Herzfeld, infatti, è questa distanza/alterazione che strutturalmente e inevitabilmente interviene tra la proclamazione formale di una legge (o di un principio, o di un accordo) e la sua applicazione, come egli ha recentemente chiarito proprio nel contesto di una discussione sulla crisi e la corruzione in Grecia e più in generale in Europa:

Nessuno sta guardando alle radici simboliche della corruzione. È un termine che ha radici molto profonde nella tradizione giudaico-cristiana – la corruzione della carne –e non credo che uno Stato possa funzionare bene senza un certo grado di ciò che si potrebbe descrivere come l’abilità dei cittadini di «massaggiare» le leggi in modo tale da rendere la vita sopportabile (corsivo mio).

L’esperienza ha insegnato al popolo greco che nessuno dovrebbe aspettarsi nel prossimo futuro che il Consiglio europeo se ne venga fuori dicendo «ok ragazzi, l’austerity in Grecia (e in Europa) è finita». Per questa ragione non avrebbe alcuna utilità per un paese esporsi e insistere con questa rivendicazione; non solo, ma questa rivendicazione non farebbe che esacerbare l’ossessiva insistenza dei cosiddetti «partner» sulle misure punitive.

Quelli che interpretano il risultato elettorale come il prodotto di «disappunto […] apatia politica o cinismo» trovano soddisfazione solo nel dire che, senza questi sentimenti, gli elettori greci avrebbero votato «Unità popolare» (la nuova formazione creata dai politici che si sono separati da SYRIZA accusando il partito di tradimento). Se la gente fosse ancora disposta a combattere l’austerity – secondo questa lettura – avrebbero avuto davanti a sé un’ampia scelta di partiti che pubblicizzano sui loro striscioni la lotta contro l’austerity e contro l’EU, e avrebbero potuto seguire uno di questi. Una simile lettura può suonare convincente sulla carta, ma in pratica la gente sapeva che un voto di questo tipo avrebbe solo significato rivivere un’altra volta ciò che si è già vissuto, forse in termini anche peggiori. Perché se, per supposizione, «Unità popolare» avesse ottenuto il 40%, che cosa sarebbe accaduto poi? Poi, sarebbe stato nominato un nuovo primo ministro di sinistra che sarebbe dovuto andare a Bruxelles a negoziare un accordo. In questo caso, lui o lei avrebbe dovuto affrontare lo stesso ricatto che Tsipras si è trovato davanti e lui o lei sarebbe stato ugualmente disarmato di fronte a esso, se non di più. Nel frattempo, la situazione finanziaria avrebbe continuato a deteriorarsi, senza nessun evidente guadagno in vista come risarcimento.

Per questo ritengo che la bassa percentuale ottenuta dai nuovi o vecchi partiti anti-austerity e anti-EU non sia segno di rassegnazione, ma di prudenza. La prudenza che spinge uno stratega ad abbandonare il fronte quando non può essere più difeso e a spostare le sue forze su obiettivi più fruttuosi. Accettare una sconfitta che è inevitabile e irreversibile non è disfattismo, è un prerequisito per elaborare il lutto e imparare a vivere ancora con ciò che ci è stato lasciato. Da ciò che posso vedere, allora, la moltitudine in Grecia non ha sostenuto la fatalità dell’austerity, ma ha solo abbandonato la fantasia modernista di mantenere il controllo dello Stato nazione e governarlo in un modo migliore, approvando leggi migliori, e così via. Ha deciso di procedere, nel prossimo futuro, lungo un altro percorso: quello che permette di sfuggire allo Stato – e alle organizzazioni interstatali – e alle sue leggi. Ha scelto di praticare – per usare l’espressione di un altro antropologo – «l’arte di non essere governati»[3].

[1] Le citazioni vengono dai social media; preferisco non riportare i nomi degli autori che potrebbero non volerli vedere pubblicati, ma vi assicuro che entrambi i commenti sono veri.

[2] Michael Herzfeld, Cultural Intimacy: Social Poetics in the Nation-state (1997), New York & London: Routledge, 2004.

[3] James C. Scott, The Art of Not Being Governed. An Anarchist History of Upland Southeast Asia, Yale University Press, New Haven & London, 2009.

 

Cronache di ordinario razzismo
29 09 2015

Esternalizzazione e controlli: si potrebbe sintetizzare con queste due parole l’esito del summit che ieri ha visto riuniti a Bruxelles i capi di governo dei paesi membri dell’Unione Europea. Un incontro focalizzato su quella che il documento diffuso dal Consiglio europeo ha definito una “migrazione senza precedenti e una forte crisi dei rifugiati”. “Non ci sono soluzioni semplici”, ha specificato il Consiglio, per cui “l’unico modo di gestire questa sfida è lavorare insieme”. E in effetti il vertice è stato condotto sulla base di una visione comune: non già, però, basata sull’accoglienza, bensì sul controllo delle frontiere e sul tentativo di mantenere migranti e profughi fuori dal territorio europeo. E’ stato lo stesso presidente del Consiglio europeo Donald Tusk a specificare, aprendo il vertice, l’intento dei capi di governo: “La questione più urgente è come riprendere il controllo delle nostre frontiere esterne”.

Il Consiglio ha sottolineato l’importanza di mantenere i profughi lontano dal territorio europeo. “Così sono più vicini al loro Paese, piuttosto che venire fino a qui in Europa”, ha affermato incredibilmente il presidente francese Francois Hollande. Dunque via libera a fondi specifici per le agenzie – come Unhcr e World Food Programme – coinvolte nella gestione dei campi profughi all’interno dei paesi confinanti con le zone di conflitto. Previsti anche aiuti per gli stati che accolgono milioni di cittadini siriani nei campi profughi, come Libano, Giordania, Turchia. La cooperazione con la Turchia – stato da cui fuggono milioni di curdi a causa della politica del presidente turco Erdogan – verrà incrementata “per meglio fermare e gestire i flussi migratori”.

Quanto a coloro che riescono a raggiungere i confini europei, l’obiettivo comune sembra solo uno: il controllo delle frontiere. “Rafforzare il controllo delle frontiere esterne è fondamentale per far funzionare Schengen”, ha dichiarato il commissario all’immigrazione Dimitri Avramopoulos. In questo senso è previsto un aumento delle risorse per Frontex, EASO e per l’agenzia di polizia europea Europol. Saranno attivati strumenti per assicurare l’identificazione, la registrazione e il fotosegnalamento dei migranti, con lo specifico obiettivo di favorire i rimpatri. Misure che verranno portate avanti negli hotspot, i centri che verranno aperti già da novembre in Italia e Grecia.

Il premier ungherese Viktor Orban – che si sta distinguendo per ‘accogliere’ i migranti con esercito, carcere e filo spinato – ha proposto che sia l’Europa a portare avanti i controlli sul territorio greco, per impedire l’arrivo di altri profughi. Un’idea tutt’altro che lontana dalla realtà: il commissario Avramopoulos ha annunciato la creazione entro la fine dell’anno di un sistema “operativo ed efficace” di guardia di frontiera e costiera europea, una forza da dislocare dunque lungo i confini sia terrestri sia marittimi dell’Unione.

Nessuna delle proposte più volte avanzate dalle associazioni di tutela dei diritti umani è stata presa in considerazione. Nessun accenno a canali umanitari, nessuna misura per gli ingressi sicuri e legali. Nessuna voce sul miglioramento dell’accoglienza. Nessun impegno alla riforma del Regolamento Dublino III.

Nessuno strumento per impedire alle persone ulteriori sofferenze.

Qui il documento finale

minima&moralia
29 09 2015

di minima&moralia


Sono già passati dieci anni dalla morte di Federico Aldrovandi: ripubblichiamo “Ferrara, Italia”, la prefazione di Girolamo De Michele a Zona del silenzio. Una storia di ordinaria violenza, graphic novel sul caso Aldrovandi di Checchino Antonini e Alessio Spataro uscito nel 2009 per minimum fax.

di Girolamo De Michele

in ricordo di Arnaldo Scotti

Chi entra nel centro di Ferrara deve attraversare una specie di invisibile strettoia, un restringimento della coscienza morale non percepibile ad occhio nudo. Bisogna avere l’occhio buono per i fantasmi del passato e del presente, per vederla: buono come quello di Bassani, che per primo ne indicò un tratto. All’imbocco del corso Martiri della Libertà, tra il Castello e il Teatro, un marciapiede fronteggia i portici. Su quel marciapiede, che corre sotto il fossato del Castello, caddero i fucilati del 15 novembre 1943: lo ricorda una lapide. Il turista che (sempre più di rado, ormai) ha conoscenza del racconto bassaniano Una notte del ‘43, o del film di Florestano Vancini La lunga notte del ‘43, sa di cosa si tratta.

E cerca sull’altro lato della strada, con lo sguardo verso l’alto, la finestra al di sopra della farmacia: quella finestra dalla quale Pino Barilari, reso indimenticabile dall’interpretazione di Enrico Maria Salerno, assiste nascosto dalla persiana alla strage fascista senza intervenire. Lasciamo proseguire il nostro turista: appena oltrepassato il Castello si troverà sotto la statua di fra’ Girolamo Savonarola, profeta senz’armi che a Ferrara, “in tempi corrotti”, sferzava le coscienze e fustigava “i vizi e i tiranni”. È scolpito con le braccia larghe e la bocca aperta, nell’atto di inveire contro il malcostume del suo tempo. A Ferrara il Savonarola è ricordato dai cronachisti così: le vicende fiorentine, nelle quali darà prova di pessimo governo, non ne intaccano la memoria. Il turista prosegue alla ricerca della Ferrara Magica, senza badare agli opposti monumenti tra i quali è transitato. La finestra e il profeta urlante che quasi si fronteggiano mettono in scena due città che vivono l’una dentro l’altra.

Da un lato, la città del quieto vivere, della nebbia che nasconde, che spinge a chiudersi nelle proprie case, nel privato: la città dell’indifferenza. Quella Ferrara che con troppa leggerezza, all’indomani del ‘45, dimenticò i suoi trascorsi fascisti e nascose sotto un’improvvisata barba da antifascista vent’anni di obbedienza passiva (ma anche fruttuosa, per l’agraria inurbata e la borghesia rampante) al Regime. Dall’altra parte, la città dell’impegno civile, degli intellettuali raffinati, delle scuole polo nazionali. La città che parla, comprende, scrive, riflette. Due città. In perpetua lotta tra di loro: la città della nebbia e della viltà, dei salotti buoni e degli affari che aggiungono sempre un posto a tavola e in cooperativa la Ferrara che cerca di soffocare l’altra, la città dell’impegno che combatte per non lasciarsi schiacciare dal quieto vivere.

La città della CoopCostruttori e degli scandali edilizi, dei livelli di inquinamento ai vertici dell’Europa, e la città dei referendum autogestiti contro inceneritori e centrali a Turbogas. La città degli operai della Solvay morti di tumore, e la città che difende quei “galantuomini” dei dirigenti della Solvay. La Ferrara che ogni anno ricorda l’eccidio del castello, ma poi costruisce un asilo nido su una ex discarica di CVM.

Bisogna attraversarla, questa invisibile strettoia del Corso. Bisogna attraversarla anche per attraversare la Piazza e dirigersi verso quella periferica via dell’Ippodromo dove, in una notte di settembre del 2005, un ragazzo ha incontrato una volante della polizia ed è stato ammanettato ed ha conosciuto i manganelli ed ha urlato per mezz’ora, prima di morire ai piedi di un muro. «Di morte violenta», secondo la deposizione dello specialista cardiologo dell’Università di Padova Gaetano Tiene al processo, lo scorso 9 gennaio. Di fronte al muro: palazzine. Finestre. Persiane chiuse e tapparelle abbassate.

Il 25 settembre 2008, la fiaccolata silenziosa che ogni anno parte dalla Piazza Trento e Trieste per raggiungere l’Ippodromo è sfilata sotto quelle finestre. C’erano i genitori di Aldro, gli amici, gli studenti, qualche insegnante, gli Ultras della Spal. C’era la gente comune. Il silenzio della fiaccolata era rotto da un suono macabro, simile al sibilo di un fantasma della lunga notte del ‘43: le tapparelle che venivano frettolosamente abbassate dai condomini. Quel silenzio era insopportabile: rumoreggiava nella coscienza della città di Pino Barilari, della città che si nasconde dietro le tapparelle. Una città che ha abbassato le tapparelle quella notte in cui i manganelli dei custodi dell’ordine pubblico si rompevano mentre Aldro urlava.

Ferrara, Italia.

La notte del ‘43 è la notte della coscienza morale di un’Italia che ha svestito la camicia nera, ma ha lasciato che l’uomo medio – «un pericoloso delinquente, mostro, razzista, colonialista, schiavista, qualunquista», urlava Orson Welles (doppiato da Giorgio Bassani!) ne La Ricotta di Pasolini – continuasse a perpetrare la propria egemonia. Liberatasi dall’incubo della rivoluzione culturale, politica e sociale degli anni Sessanta e Settanta che ha rappresentato, nella sua selvaggia anomalia, l’unico tentativo di creazione autonoma di una cultura, un’identità, un sapere dal basso, scaturito e temprato nel fuoco vivo delle lotte, l’Italia dell’uomo medio ha dissolto il miracolo economico in un pulviscolo sociale rancoroso.

L’italiano medio non è più il punto d’intersezione sociale tra le diverse figure che – dal patto costituzionale tra la classe operaia e la borghesia progressiva alle grandi riforme sociali degli anni Settanta – in modo diverso operavano, anche attraverso il conflitto, per modificare lo stato di cose esistente. L’italiano medio odierno è la media tra le molte non-virtù civiili che esprimono il comune sentire di un paese sull’orlo di una crisi: un paese nel quale – come in The Village, il film di M. Night Shyamalan – l’identità diventa una frontiera, nel quale i sentimenti prevalenti sono la paura, come reazione ad un futuro del quale non si riescono ad identificare i tratti; ed il rancore verso ogni possibile elemento di disturbo della nostra condizione.

È contro questa Italia che sfilano ogni anno gli amici di Aldro. Per quest’Italia, uno come Federico Aldrovandi è un fastidio, un problema. Uno da nominare, da scacciare dalla Casa delle Coscienze Assopite.

Un due tre, viva Pinochet. Quattro cinque sei, Al forno gli ebrei. Sette otto nove, Il negretto non commuove. Così cantavano, nelle loro caserme, alcuni carabinieri, quella sera, a Genova. Il nome di Carlo Giuliani era appena stato reso noto. Per ragioni ancora da spiegare, avevano impiegato ore per identificare un ragazzo già schedato, con un riconoscibilissimo tatuaggio sulla schiena che sporgeva dalla canottiera: molto poco Black Bloc, molto poco in chiave con l’immagine del teppista travisato.

Cinque anni dopo, Haidi Giuliani riconoscerà nella strategia di diffamazione di Aldro gli stessi segni, le stesse insinuanti domande alle quali aveva dovuto rispondere. Il ragazzo era drogato? Aveva animali in casa? Era forse un punkabbestia? Le domande non sono mai neutrali: formulate nel modo giusto, restano impigliate nei gangli della memoria. Se formulate bene, con il giusto tono, prevalgono sulle risposte: predeterminano l’ottica con la quale saranno considerate tutte le successive informazioni. «Come di Federico, – scrive Haidi Giuliani a Patrizia Moretto, madre di Aldro, in una lettera pubblicata il 17 gennaio 2006 su Liberazione – anche di Carlo è stato detto che era un drogato, un poco di buono, uno senza lavoro, senza casa né famiglia, come se esistesse una condanna legittima e automatica alla pena di morte per chi lo fosse davvero. Anche a me è stato impedito per molte, troppe ore, di vedere il suo corpo. Anch’io, come te, non so chi l’ha ucciso. Anch’io, come te, ho aspettato che persone competenti, preposte istituzionalmente a questo compito, restituissero alla sua morte almeno la verità; persone impegnate per legge, così io credevo, ad assolvere il loro compito fino in fondo».

Nel caso di Carlo Giuliani, le registrazioni delle conversazioni tra i carabinieri nelle loro caserme, quel 20 luglio 2001, contengono già la risposta alla domanda “chi è quel ragazzo morto?”: una zecca. “Una zecca del cazzo”. Uno a zero per noi, dice ridendo una poliziotta quella notte. Come due squadre alla partita: noi di qua, le zecche di là. Le zecche sono gli ultras degli stadi, nel gergo dei poliziotti. Sono i “comunisti”, gli anarchici, i No Global. I drogati. Sono gli immigrati clandestini, i migranti, i rumeni, gli zingari. Le palandrane del cazzo, urla nei comizi l’onorevole Mario Borghezio. Scacciamo le zecche! Col fuoco, se occorre. I pagliericci sotto i ponti sono pieni di zecche: sono gli immigrati che ci dormono sopra. Carlo Giuliani era una zecca: come Aldro.

L’italiano medio non ama la complessità: non la comprende, non la trova utile. Le passioni tristi sono un cosa semplice: la paura è un ottimo collante sociale. Funziona: che altro? La complessità è problematica, richiede un lavoro di apprendimento, adattamento, rielaborazione senza fine; richiede la disponibilità a mutare pelle, ad abbandonare gli stereotipi, i pregiudizi. Richiede una flessibilità mentale che spaventa. Negli anni Ottanta, uno dei segnali della restaurazione in corso fu l’improvviso successo, tra una generazione di studiosi che avevano teorizzato la trasformazione dello stato di cose esistente, di teorie sociologiche che consigliavano la riduzione della complessità sociale. Da alcuni anni è considerata un valore la “semplificazione del quadro politico”. Forse qualcuno ricorda ancora che uno degli slogan politici della prima campagna elettorale della cosiddetta “seconda Repubblica” era: “o di qua, o di là”. Non dice forse la stessa cosa quel fine pedagogista che ha messo in moto la riforma della scuola? «La mente umana è semplice e risponde a stimoli semplici» (Giulio Tremonti, “Il passato e il buon senso”, Corriere della Sera, 22 agosto 2008, qui). A dispetto della collocazione (solo a p. 37, non in prima pagina, non tra gli editoriali), questo articolo è una delle più efficaci espressioni dell’egemonia culturale della destra al potere che oggi si dispiega. È un manifesto ideologico, che meriterebbe un’analisi, anche stilistica, minuziosa: non essendo questo il luogo, seguiamone alcune linee direttrici.

La società italiana si sta rinchiudendo dietro uno steccato per proteggersi da mostri immaginari che assediano il villaggio: è il rifugio, è il recinto stesso a generare la paura dell’esterno, dell’aperto. Della diversità. Il villaggio regredisce ad un passato immaginario. «Può essere invece il ritorno al passato e all’800, e molti segni sono in questa direzione, può essere che dall’attuale «marasma» prenda inizio un nuovo futuro», scrive ancora Tremonti nel suo articolo-manifesto. Non importa quanto reale e quanto no – basta che sia anteriore a un numero, il 1968: l’unico numero che il Ministro toglierebbe dalla circolazione. Sostituendo i numeri ai giudizi, il mondo (non solo nella scuola, sostiene Tremonti) ridiventa semplice: come dappertutto i numeri sostituiscono i giudizi. «I numeri sono una cosa precisa, i giudizi sono spesso confusi. Ci sarà del resto una ragione perché tutti i fenomeni significativi sono misurati con i numeri». Su questo Tremonti ha ragione, i giudizi implicano l’attivazione della facoltà del giudicare. Per effetto di quel nefasto numero da togliere – «1968, sintetizzato in 68» – presero piede idee e pensatori che vedevano nella società moderna il germe del totalitarismo nell’atrofizzazione della facoltà di giudicare.

Giudicare è azione anch’essa complicata: più semplice è sostituire categorie come giusto/ingiusto con copie più semplici: bello/brutto, dentro/fuori, amico/nemico. L’obbedienza evita la fatica di pensare. Per effetto di quel numero nefasto, persino i poliziotti cominciarono a pensare. A chiedere la democratizzazione della polizia, che faceva il paio con la virtù della disobbedienza predicata da don Lorenzo Milani, il prete che insegnava ai poveri, inventava la scuola del futuro e finiva sotto processo per aver detto che l’obbedienza non è più una virtù.

Una società democratica è una società nella quale nessuno finisce in galera per aver espresso le proprie opinioni; nella quale il diritto all’istruzione non è un’affermazione teorica, ma un fatto; nella quale non si muore mentre si manifestano le proprie idee, né per aver incontrato una volante della polizia. Ora che il tempo si riavvolge all’indietro, anche la democratizzazione della polizia si è rivelata un’utopia: al suo posto è stato concesso il diritto di sparare, si gridava un tempo nei cortei. A Genova un’intera generazione, cresciuta senza sapere nulla di Francesco Lorusso e Giorgiana Masi, di piazza Fontana e dei morti di Reggio Emilia, scopre quanto è facile morire, nell’Italia di oggi. O quanto è facile uccidere.

L’educazione delle forze dell’ordine è un fatto semplice: noi, loro. Avanzano battendo i manganelli sugli scudi, allo stadio come in via Tolemaide, a Genova. La loro formazione di base è elementare: tutte uguali, le zecche. Compaiono foto del Duce nei portafogli, Faccetta nera nelle suonerie dei telefonini, celtiche bandiere della RSI nelle camerate. Dal Libro Bianco sui fatti di Genova al recente ACAB: All cops are bastards di Carlo Bonini (Einaudi Stile Libero, 2009), ai molti libri-testimonianza di vittime dei pestaggi alla Diaz e a Bolzanetto (come Genova. Il posto sbagliato, di Enrica Bartesaghi, Nonluoghi Libere Edizioni, 2004) le testimonianze sull’educazione e la prassi delle forze dell’ordine pongono un serio problema di democrazia alla società italiana.

E l’esito dei processi per i fatti di Genova dà l’idea di una dilagante impunità. A Genova sono state necessarie migliaia di telecamere in tempo reale per documentare la morte di Carlo Giuliani: a Ferrara il depistaggio, l’occultamento di elementi probanti, le coperture, le false versioni sulla morte di Aldro hanno un che di sciatto, di malfatto. C’è da stupirsi della percezione di intoccabilità che deve aver pervaso i protagonisti attivi di quell’evento, tanto malaccorti sono stati i loro gesti. E quando il blog della madre di Aldro ha cominciato a sgretolare il muro di omertà, la reazione è stata di stizzito stupore prima, e di arroganza poi.

Il 24 febbraio 2006 Gianni Tonelli, segretario nazionale del Sindacato Autonomo di Polizia ha parlato per un’ora, in Questura, seduto tra due esponenti provinciali del SAP. Ha decretato la verità sulle perizie. Ha criticato e dettato l’agenda politica all’opposizione che senza remore ha definito «pavida», «al popolo silente e moderato che non ha voluto dire nulla». Ha stigmatizzato come «azione di sciacallaggio con sfumature politiche, ideologiche e anche culturali» le iniziative di discussione improntate alla richiesta di verità e giustizia. Ed ha attaccato, con nome e cognome, i due presidi delle scuole ferraresi che hanno concesso agli studenti le assemblee per discutere della morte di uno studente, senza preoccuparsi della gravità e della sproporzione di un’accusa lanciata da un dirigente nazionale di un organismo di polizia contro due semplici cittadini: due presidi, Arnaldo Scotti (il cui cuore generoso si è fermato pochi mesi dopo) e Giancarlo Mori, noti in tutta la comunità ferrarese per la dedizione con cui hanno speso un’intera vita per la scuola. Le scuole non devono insegnare a pensare: devono insegnare ad apprendere i fatti, senza interpretazioni. Perché non ci sono, non ci devono essere interpretazioni: solo fatti. Statuto delle studentesse e degli studenti o meno, diritto d’assemblea o no, non c’è nulla da discutere: «una donna ha chiesto l’intervento delle forze dell’ordine perché c’era una giovane persona che per l’alcol e le sostanze stupefacenti si stava facendo del male. Poi purtroppo questa persona è deceduta».

Non ha dubbi il dirigente del SAP.
La vita e la morte sono fatti semplici, si vive e si muore: cosa c’è da interrogarsi sulla morte di uno come Aldro?
Della morte di una zecca?

Melting Pot
29 09 2015

In data 23 settembre 2015 ci siamo recati presso il C.A.S. di Pedivigliano (CS), gestito dalla Cooperativa Sociale Calabria Assistenza Onlus di Angelo Barbiero. Il centro, attivo dal mese di giugno 2015 per affido diretto in seguito ad “emergenza” sbarchi da parte della Prefettura di Cosenza, ospita attualmente 25 persone richiedenti asilo di nazionalità nigeriana. All’arrivo ci è stato consentito di entrare nella struttura e di parlare con il responsabile del centro e con i migranti.

Dal colloquio intrattenuto con il figlio del gestore, è emerso che non è stata tuttora formalizzata con la prefettura la convenzione per la messa a disposizione di posti straordinari per la prima accoglienza dei cittadini stranieri temporaneamente presenti sul territorio.

L’ente gestore lamenta una serie di difficoltà dovute all’anticipazione delle spese per la gestione del centro. Innumerevoli le richieste e i reclami da parte dei richiedenti asilo con i quali abbiamo parlato.

Secondo quanto riferito dagli stessi, vengono accompagnati all’ospedale solo nei casi urgenti, non risultano essere stati iscritti al S.S.N. né è garantita loro l’assistenza medica di base o psicologica. Uno dei ragazzi zoppica in maniera vistosa, ha difficoltà a stare in piedi. Ci racconta: “sono caduto 3 giorni fa dalla bicicletta e da allora nessuno si è preoccupato di accompagnarmi da un medico, voglio andarmene di qui, non ce la faccio più”.

M. seduto al suo fianco manifesta problemi nella zona cervicale, ci racconta che solo una volta, all’arrivo, è stato accompagnato al pronto soccorso dove gli è stata prescritta e mai somministrata una terapia a base di Muscoril.

Il responsabile dichiara che nel centro operano tre volontari appartenenti ad un’associazione locale. Gli stessi svolgono ruoli diversi, non specificati. Non sono presenti mediatori culturali né operatori legali. L’insegnamento della lingua italiana è affidato a due operatrici.

Le persone intervistate lamentano la mancata distribuzione di vestiario, fatta eccezione per donazioni sporadiche da parte della chiesa o degli abitanti di Pedivigliano. Alcuni ci mostrano le ciabatte usurate e riferiscono che si tratta delle uniche calzature a loro disposizione. Lamentano, inoltre, la mancanza di acqua calda e il guasto di alcuni servizi igienici. I migranti dormono all’interno di camere costituite da 4/5 posti. In una delle camere sono sistemati 3 uomini e due donne.

Chiediamo di potere parlare con l’unica delle due che al momento è presente all’interno del centro.

S. ci chiede di avvicinarci a lei ed in privato ci supplica di portarla via. Un mese fa ha dichiarato al gestore di avere 16 anni, così come lo stesso conferma. Risulta, inoltre, che la polizia è al corrente del fatto che la ragazza sia minorenne, secondo quanto riferito dal gestore e confermato in seguito dalla Garante per i Diritti dei Minori, Onorevole M. Intrieri, alla quale abbiamo tempestivamente comunicato la gravità della situazione. S. è ospite del centro assieme al fratello maggiore, al momento ricoverato presso l’Ospedale Civile di Cosenza per motivi che non ci è dato sapere.
Quello che ci sorprende è che questo stato di cose appaia assolutamente normale per coloro che gestiscono la struttura! L’Onorevole Intrieri ha richiesto il trasferimento urgente della minore, accompagnata in serata da organi di polizia presso struttura idonea. In serata è stata trasferita anche l’altra donna.

Lungi dal criminalizzare i singoli presenti nel centro, riteniamo che le Prefetture dovrebbero porre una maggiore attenzione alla collocazione delle persone nel rispetto della differenza di genere.

Sono troppi i casi di soggetti vulnerabili che rimangono del tutto abbandonati a sé stessi, che non riusciranno mai a superare quanto subito nei propri paesi o durante il viaggio e rischiano ancora una volta nella “civile” Europa di rivivere le stesse persecuzioni da cui sono fuggiti. Quello stesso paese che dovrebbe rappresentare un luogo sicuro, ma che continua,invece, a trattare le persone come pacchi da vendere.

NOTA della campagna - Per ragioni di tutela e riservatezza non tutti gli elementi riscontrati durante la visita sono stati resi pubblici.

Melting Pot
28 09 2015

A Bapska, una dei paesi al confine tra Croazia e Serbia, la situazione era fino a ieri sera congestionata. E’ vietato l’accesso ai giornalisti, e solo Croce Rossa, UNHCR e volontari possono avvicinarsi alla frontiera.

Al nostro arrivo, alle prime ore del pomeriggio, già un migliaio di persone sono bloccate in mezzo alla strada, sotto il sole; davanti la polizia croata in assetto antisommossa, dietro il confine Serbo appena attraversato. Si attende che arrivino gli autobus per portarli a Opatovac o a Beli Monastir, a seconda della disponibilità nei due campi.

Nonostante gli sforzi dei presenti, è molto difficile riuscire a fornire assistenza a tutti, e sono molte le persone colpite da malori per via del caldo, o con ferite dovute al viaggio che vengono ricoverate in una tenda improvvisata da Medici senza Frontiere. Col calare del sole la fila si ingrossa notevolmente e iniziano a partire i primi gruppi di persone. Il mattino seguente, la frontiera viene chiusa e il flusso di migranti viene deviato verso Tovarnik.

Ci giunge voce che nella giornata di mercoledì 23 Settembre al campo di Opatovac c’è stata parecchia tensione. Ci rechiamo al campo e conosciamo degli attivisti tedeschi che hanno allestito una cucina. “La Croce Rossa continua a ripeterci che dobbiamo smontare la cucina e andarcene, perché non siamo volontari ma attivisti”. Nonostante la resistenza delle organizzazioni governative, riescono ad accedere al campo, fino ad ora totalmente “off limits” e ci chiedono di andare con loro.
Il campo è un lager. La zona è divisa da terrapieni sorvegliati a vista dalla polizia. I tendoni - dormitori sono in realtà vuoti e le persone dormono per terra, in mezzo all’immondizia. Al nostro arrivo veniamo letteralmente assaltati da bambini in cerca di cibo. Uno dei ragazzi tedeschi ci racconta che il giorno prima, la polizia ha caricato la ressa di gente che si era ammassata a ridosso dell’ingresso degli autobus, e che sono stati i volontari stessi ad aiutare i feriti, perché a causa delle molte troupe televisive presenti all’esterno, la Croce Rossa non voleva che si capisse quello che stava accadendo. A seguito di ciò i migranti hanno inscenato una protesta all’interno del campo chiedendo libertà di movimento e condizioni dignitose.

La staffetta continua, perché crediamo sia fondamentale portare aiuti e testimoniare ciò che sta accadendo anche quando vorrebbero impedircelo.

Staffetta #overthefortress, 23 settembre 2015

facebook