Flash news

La Repubblica
22 10 2015

Da sette anni le organizzazioni con la missione di aiutare gli altri non crescono. Ma il saldo non è negativo: aumentano coloro che agiscono senza iscriversi a nessuna associazione. E i gruppi che resistono sono sempre più simili a piccole imprese. A mancare è il ricambio generazionale e lo sviluppo nel Sud. ...

Caterina Pasolini e Corrado Zunino
Giap
21 10 2015

Sulla giornata di Bologna del 20 ottobre si scriveranno decine di resoconti. Si dirà che è stata una giornata drammatica, piena di lacrime e gonfia di rabbia, sporca del sangue delle teste rotte dai manganelli della polizia. Ma la prima cosa da dire, quando siamo arrivati ormai a notte fonda ed è possibile fare un primo parziale bilancio, è che nella drammaticità della situazione oggi si è portata avanti una lotta che ha saputo guardare in faccia i potenti senza fare un passo indietro.

Una lotta che ha messo in campo le capacità, le competenze, la cura, i corpi e la rabbia di tutti coloro che hanno resistito in via Fioravanti per diciotto ore. Una lotta appoggiata con generosità da tutti quelli che hanno potuto mettere a disposizione anche solo un minuto del loro tempo. ...
Il Manifesto
22 10 2015

L'invasione tanto temuta non c'è stata. Fino al 10 ottobre scorso sono sbarcati in Italia 136.432 migranti, il 7,4% in meno rispetto ai primi dieci mesi del 2014. E le previsioni fanno ritenere che per la fine dell'anno gli arrivi potranno al massimo eguagliare la cirfra raggiunta sempre l'anno scorso, quando ne vennero registrati in tutto 170 mila. ...

Carlo Lania
Il Manifesto
22 10 2015

Il diritto di accesso alle cure in Italia non è uguale per tutti. Dopo la decisione della regione Puglia di non rimborsare più le prestazioni di Procreazione Medicalmente Assistita sia omologa che eterologa ai propri cittadini diretti verso altre regioni italiane anche Calabria, Sicilia, Campania hanno deciso di accodarsi. Ancora incerta la situazione alla Regione Lazio. ...

Filomena Gallo e Gianni Baldini
IDEA ROM Onlus
21 10 2015

Lunedì 19 ottobre ha avuto luogo l’ennesimo sgombero di un’ulteriore porzione dell’insediamento Rom di lungo Stura Lazio, la baraccopoli c...he da due anni le autorità stanno smantellando pezzo a pezzo.

All’alba tutti i residenti dell’area, fra cui donne, bambini e anziani, sono stati bruscamente svegliati dall’arrivo di decine di camionette di polizia e carabinieri, accompagnati dal Nucleo Nomadi della Polizia Municipale di Torino.

In pochi minuti l’intero accampamento è stato circondato, intimando sbrigativamente alle persone di uscire dalle abitazioni. Fatti raccogliere i pochi beni in qualche fagotto e messe le famiglie per strada, le ruspe hanno immediatamente iniziato la demolizione di 12 baracche.

Stanotte oltre 30 persone dormiranno all’addiaccio, misurandosi con i 4-5 gradi circa previsti sulle rive del fiume.

Al campo restano altre 35 famiglie (100 persone circa) minacciate della stessa sorte nei prossimi giorni, così come quelle sistemate provvisoriamente negli stabili e negli appartamenti del “ras” delle soffitte, il pregiudicato Molino.

Alla fine si tornerà al punto di partenza, con centinaia e centinaia di persone in mezzo alla strada.

Il tutto all’ombra dei 5 milioni di euro destinati all’accoglienza abitativa di queste persone e misteriosamente spariti nella casse del raggruppamento d’imprese -composto da Valdocco, Aizo, Liberitutti, Stranaidea, Terra del Fuoco, Croce Rossa e il sostegno esterno di Asai, Servizio Migranti della Caritas ed Asgi- che gestisce il progetto appaltato dal Comune e dalla Prefettura di Torino.

Trattandosi di Rom sembra sia quasi legittimo lo spreco, la brutalità e l’inconcludenza degli interventi, purché si possa dare in pasto all’opinione pubblica la notizia delle ruspe in azione, per molti errato sinonimo di maggior sicurezza: infatti molti bambini abbandoneranno i propri percorsi scolatici, anziani e ammalati aggraveranno le proprie condizioni di salute e le famiglie andranno semplicemente a risistemarsi in zone ancor più degradate della città.

La foga razziale messa in campo per i Rom in questi giorni non può non ricordare i rastrellamenti di epoche più tristi, ma questa storia ha qualcosa di più lugubre da raccontare: il capolavoro degli sgomberi a “bassa intensità”, raccontati come opere di bene.

Alla faccia dei Rom e dei contribuenti che pagano le tasse per foraggiare il “sistema” dei campi nomadi nella versione torinese.
Nena News
21 10 2015

In 20 giorni, 46 vittime palestinesi e 7 israeliane. Arrestato a Betunia il parlamentare islamista Yousef. Eppure nelle strade i partiti non ci sono e i giovani non li vogliono

Nena News – Il sole è sorto da poco e i media locali registrano già le prime violenze nei Territori Occupati. Stamattina all’alba un’adolescente palestinese è rimasta ferita dal fuoco sparato dai soldati israeliani vicino alla coloni di Yitzhar. Istabraq Ahmad Noor, 15 anni, è stata colpita – dice l’esercito – perché stava tentando di entrare nella colonia per accoltellare qualcuno: secondo fonti militari israeliane, la ragazza si trovava a 10 metri dalla rete, è stata chiamata dai soldati ma non avrebbe risposto; allora i militari hanno sparato in aria e poi l’hanno colpita alla mano.

Di nuovo un caso poco chiaro in quella che è diventata una guerra di propaganda: da 20 giorni l’esercito, la polizia e il governo israeliano giustificano con l’auto-difesa l’utilizzo del fuoco per fermare accoltellatori veri e presunti. In alcuni casi si è trattato realmente di aggressioni, in altri no. Quello che però accomuna tutti i casi in questione è l’uso delle pallottole per fermare gli aggressori, una misura che non pochi commentatori israeliani hanno definito “esecuzioni sul posto” del colpevole di un’azione.

Così continua a salire il numero delle vittime dal primo ottobre: 7 israeliani e 46 palestinesi. Ieri è stata una delle giornate più cruente, con un israeliano e 4 palestinesi uccisi. Gli ultimi due erano due ragazzini: Bashar Nidal al-Jabari, 15 anni, e Hussam Jamil al-Jabari, 17, sono stati uccisi ad un checkpoint nella città vecchia di Hebron: anche in questo caso, secondo l’esercito, volevano accoltellare un militare. Cinque morti tra Gaza e Cisgiordania che, nonostante la rabbia di Gerusalemme e le mobilitazioni delle città arabe nello Stato di Israele, restano in prima linea.

Prosegue anche la repressione politica: ogni giorno sono decine gli arrestati nei Territori Occupati. Ieri è toccato ad un parlamentare di Hamas, Hassan Yousef, 60 anni. È stato arrestato nella sua casa di Beitunia in un raid all’alba da decine di soldati israeliani e portato al carcere di Ofer. È accusato di “istigazione e incitamento al terrorismo, incoraggiamento pubblico e appelli agli attacchi contro israeliani”. Come era facile immaginare subito l’attenzione è finita sul movimento islamico, accusato da giorni di voler approfittare della sollevazione attuale per portare il caos. Eppure, al di là dei proclami, non sembra che Hamas sia particolarmente attiva (come del resto le altre fazioni politiche) nell’organizzazione e la gestione delle manifestazioni e degli attacchi individuali di queste settimane.

I primi a rigettarne la presenza sono gli stessi giovani, sia chi compie attacchi sia chi scende in piazza, che ripetono di essere stati abbandonati dai partiti e di voler lottare per la Palestina e non per una fazione politica. Lo ha scritto su Facebook anche uno dei palestinesi responsabili dell’attacco all’autobus israeliano a Gerusalemme, 10 giorni fa: non mettetemi in mano bandiere.

La Repubblica
21 10 2015

Lezioni di ginnastica addio. Nelle scuole di Washington corpo libero e spalliere svedesi lasciano il posto a una nuova disciplina: il ciclismo. È la sorpresa che hanno trovato i bambini delle 80 scuole primarie della città, che da quest`anno ha introdotto la bicicletta nei programmi scolastici delle elementari. Qui i bambini non impareranno solo a reggersi sulle due ruote, ma tutto quel che concerne la bici, dall`educazione stradale alla manutenzione, passando per la lettura delle mappe e rudimenti di assistenza in caso di infortunio. ...

Anna Lombardi
Il Manifesto
21 10 2015

Alla fine la legalità tanto invocata negli ultimi tempi sotto le Due Torri è arrivata anche per la palazzina occupata Ex Telecom di Bologna. Dopo lo sgombero settimana scorsa di una piccola occupazione abitativa, ieri è toccato alle trecento persone che dal dicembre 2014 avevano trovato casa nell`ex cali center di via Fioravanti, proprio davanti il nuovo palazzo del Comune di Bologna. ...

Giovanni Stinco
Stop Ttip Italia
20 10 2015

A seguito dell’intervista rilasciata ieri al sito Repubblica.it da Alessia Mosca, europarlamentare S&D e sostenitrice del TTIP, inviamo alcuni commenti che, per amor di chiarezza, riteniamo debbano essere resi pubblici. Per chi volesse leggere l’articolo per intero il link è http://bit.ly/1ZS9LPH. Chi invece è interessato a leggere una breve analisi per punti che smonta tutta la comunicazione ufficiale, il link di riferimento è questo http://bit.ly/1XeAa85.

Se vi venisse voglia di rispondere direttamente all’europarlamentare, al fondo di questo post trovate alcuni tweet esemplificativi.

ALESSIA MOSCA: «Credo si sia un po’ persa la ragione. Ci siamo divisi in due tifoserie: quanti di coloro che protestano hanno davvero visto i documenti che attaccano?»

CAMPAGNA STOP TTIP: Non è chiaro a quali documenti si stia riferendo Alessia Mosca. Se si tratta dei testi negoziali, è altamente probabile che non li conosca nemmeno lei. Forse però ha avuto accesso alle reading rooms, le stanze sorvegliate che contengono questi documenti riservati, in cui i parlamentari europei possono entrare solo dopo aver lasciato fuori tutti i propri oggetti personali. Forse è stata tanto abile da imparare a memoria – essendo vietato fare qualsiasi annotazione – qualche testo redatto dai negoziatori. Ovviamente senza poter consultare l’allegato tecnico, unico che dettaglia con numeri ed elenchi quello che le parti mettono sul tavolo.

In verità già da un’analisi circostanziata dei documenti pubblicati dalla Commissione Europea sul proprio sito, è possibile notare incongruenze e criticità che un’europarlamentare come Alessia Mosca dovrebbe tenere in seria considerazione: dal Codex Alimentarius come riferimento unico per gli standard agroalimentari (capitolo SPS, punto 7), nonostante sia considerato meno stringente di quelli fissati dall’EFSA, l’autorità europea sulla sicurezza alimentare; al testo del mandato negoziale, reso formalmente pubblico più di un anno dopo la sua approvazione grazie alle pressioni della società civile, in cui si evidenzia come i servizi pubblici non siano automaticamente esclusi dal negoziato (riferimento alla “governamental authority” del negoziato GATS); al capitolo sullo sviluppo sostenibile, che riguarda ambiente e diritti del lavoro, che non presenta alcun meccanismo vincolante per applicare le normative ambientali o le convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro.

ALESSIA MOSCA: «Ci sono paure assurde come quella di essere invasi da carni americane avvelenate o di dover rinunciare alle proprie libertà».

CAMPAGNA STOP TTIP: Le esportazioni di agroalimentare non dovrebbero comprendere la carne se l’Unione europea intende evitare ai cittadini l’ingestione di ormoni della crescita, autorizzati negli Stati Uniti. Tuttavia, la lobby dell’agri-food è quella che di gran lunga ha superato tutte le altre in quanto a pressioni sulla Commissione europea in questi anni di negoziato sul TTIP. Su 520 incontri che Bruxelles ha tenuto con i lobbisti dell’industria (dati 2014), 113 hanno coinvolto i rappresentanti delle aziende dell’agricoltura e dell’allevamento. Lo stesso ambasciatore degli USA in Ue, Anthony Luzzatto Gardner, ha ribadito durante un convegno presso Confindustria, che «senza un programma ambizioso sull’agricoltura è sicuro che il TTIP non sarà approvato».

Ricordiamo all’onorevole Mosca che stiamo parlando non di carni “avvelenate” ma trattate con ormoni della crescita, gli stessi che sebbene banditi dall’Unione Europea da più di vent’anni non hanno impedito all’Organizzazione Mondiale del Commercio di condannare l’UE a ritorsioni commerciali con gli USA, proprio sulla base degli standard del Codex Alimentarius e del concetto di “distorsione dei mercati”. Oltretutto non troviamo risposte a dati ufficiali pubblicati nel 2014 dal DG Internal Policies dell’UE, dove si prevede un aumento delle importazioni del 118% di agroalimentare, controbilanciate da un aumento del 56% delle esportazioni. Numeri che sono stati ritrovati invertiti in alcuni documenti ufficiali consegnati dall’On. Paolo De Castro ad alcune Commissioni del Parlamento italiano, un’inconguenza su cui l’On. De Castro non ha mai offerto chiarimenti.

Per quanto riguarda le proprie libertà , inoltre, gli italiani e gli europei fanno bene a preoccuparsi. Il trattato mette sul piatto la privatizzazione dei servizi, il traffico dei dati personali e offre agli investitori esteri la possibilità di citare in giudizio presso enti che non rispondono al diritto nazionale gli Stati che minacciano i loro profitti tramite leggi che, invece, potrebbero andare a beneficio dei cittadini.

ALESSIA MOSCA: «Ci sono aziende già a rischio, ma non per colpa degli Stati Uniti: sono quelle che non hanno saputo o non sono riuscite a fare innovazione. Altri, invece, hanno trovato la strada dell’internazionalizzazione e per loro il TTIP potrebbe essere una manna dal cielo».

CAMPAGNA STOP TTIP: Le pmi, che sono l’88% di tutte le imprese che esportano negli Stati Uniti, si portano a casa appena il 28% del valore totale delle esportazioni europee verso gli Usa, mentre al rimanente 12% entra in tasca ben il 72%. In numeri assoluti, circa 150 mila pmi in Europa già oggi esportano negli USA. Peccato che il loro numero totale nel vecchio continente sia 21,6 milioni, secondo il rapporto 2014 della Commissione europea. Con questi numeri non esiste innovazione che tenga, tanto più che la maggior parte dell’export italiano prende un’altra strada: quella del mercato europeo. Uno studio commissionato dagli stessi promotori del TTIP alla Bertelsmann Foundation, rileva che il fenomeno di “trade diversion”, cioè lo spostamento dei flussi commerciali sull’asse transatlantico, porterebbe ad un crollo di quelli intraeuropei, mettendo in competizione le imprese per la conquista del mercato USA ed esponendole sul fronte interno a una battaglia impari con i colossi americani. Non è peregrino immaginare che tentare di sopravvivere sarà necessario tagliare i costi, primo fra tutti quello del lavoro.

Il Parlamento europeo rappresenta un controbilanciamento di poteri rispetto alla Commissione Europea, per questo crediamo sia necessario chiedere ai nostri rappresentanti politici precisione, chiarezza e oggettività nelle dichiarazioni. Se volete farlo, ecco alcuni tweet che possono essere comodamente copiati, incollati e poi inviati ad Alessia Mosca.

La lobby dell’agroalimentare incontra la Commissione 113 volte per il #TTIP, le ONG solo 26. Se permette questo preoccupa @alessiamosca @StopTTIP_Italia

I servizi pubblici sono sul tavolo negoziale, legga il mandato negoziale, ecco perché sappiamo di poter perdere le nostre libertà. Lei non ci rassicura @alessiamosca @StopTTIP_Italia

Oltre il 90% delle #pmi europee su 21,6 milioni sceglie il mercato interno UE. @alessiamosca che impatti ci saranno per trade diversion? @StopTTIP_Italia

Standard agroalimentari UE tutelati? @alessiamosca allora perchè su testi pubblicati c’è riferimento a Codex Alimentarius e non a EFSA? @StopTTIP_Italia

Il Manifesto
20 10 2015

Erri de Luca, non se l'aspettava un'assoluzione, vero?
Per mio temperamento sono sempre preparato al peggio ma in questo caso i pronostici erano impossibili perché si è trattato di un processo sperimentale: nessuno scrittore era mai stato incriminato prima con questo arnese del codice fascista l'istigazione - che risale al 1930. ...

Eleonora Martini

La Repubblica
19 10 2015

"io sono pragmatica, punto ai risultati nella diplomazia internazionale. Ma credo in un nuovo approccio, etico e neofemminista. Condizioni e diritti della donna sono barometro e tornasole dei singoli paesi e del mondo, difenderli secondo me è nell'interesse strategico svedese europeo e globale." ...

Andrea Tarquini

Lavoro culturale
14 10  2015

Mentre gli esperti discutono se quello cui stiamo assistendo è l’inizio della Terza Intifada, una nuova generazione di giovani palestinesi a Gerusalemme e in Cisgiordania sta sfidando l’opprimente status quo creato dagli Accordi di Oslo, consolidato dall’occupazione israeliana e protetto dall’Autorità Nazionale Palestinese e dalla sua élite neoliberista.

La versione originale dell’articolo di Budour Hassan può essere letta sul suo blog.

Quando nel 1995 Samar è rimasta incinta per la quinta volta, i dottori sospettavano che il suo feto non sarebbe sopravvissuto.

Samar, suo marito Ibrahim e i loro quattro bambini si erano appena sistemati nel campo profughi di Shu’fat, a Gerusalemme occupata, e Nawal, la mamma di Samar, si stava prendendo cura di lei con amore. Samar partorì un bambino in perfetta salute cui diede il nome Subhi, come il suo nonno paterno, un combattente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina negli anni Settanta e un ex prigioniero politico nelle carceri di Israele. Anche il padre di Subhi, Ibrahim, era stato in prigione durante la Prima Intifada. E anche i due giovani fratelli di Subhi hanno speso un anno in prigione.

Quando Subhi aveva undici anni, vedeva spesso i lanci di pietre contro i soldati di occupazione israeliani mentre eseguivano i loro raid e arresti nel campo profughi. Bassel al-Araj, uno dei farmacisti del campo in quel periodo, ricorda che Subhi raccoglieva pietre di fronte alla farmacia e le lanciava contro i soldati, per poi scappare dentro e nascondersi dietro il bancone. La storia si ripeteva e i soldati non avevano idea da dove provenissero le pietre. I nonni ribelli avevano raccontato a Subhi della pulizia etnica della Palestina nel 1948 e della loro cacciata da Lydd e Subhi, che aveva solo undici anni, non temeva di essere arrestato dall’esercito israeliano, nonostante la sua tenera età.

L’otto ottobre 2015, l’ora diciannovenne Subhi Abu Khalifa ha accoltellato un colono nella Collina Francese di Gerusalemme. Una sua foto in stato di arresto ha fatto il giro dei social media palestinesi. Subhi sorrideva.

Subhi Abu Khalifa si è aggiunto alla lista di giovani palestinesi che hanno adottato la tattica degli attacchi dei “lupi solitari”. Già utilizzata in ottobre e novembre dell’anno precedente, questa tattica è diventata il simbolo della recente ondata di rivolta palestinese contro l’occupazione israeliana. Mentre gli esperti discutono se quello cui stiamo assistendo è l’inizio della Terza Intifada, una nuova generazione di giovani palestinesi a Gerusalemme e in Cisgiordania sta sfidando l’opprimente status quo creato dagli Accordi di Oslo, consolidato dall’occupazione israeliana e protetto dall’Autorità Nazionale Palestinese e dalla sua élite neoliberista — una élite che vede i giovani come una moltitudine di piantagrane spericolati e di teste calde irrazionali.

Mentre i più prominenti attivisti palestinesi sono stati addomesticati dalla mentalità da ONG e dall’ossessione della non-violenza, questa nuova generazione non si è lasciata sedurre dal mito della crescita economica e dello sviluppo. I tentativi da parte della municipalità occupante di Gerusalemme e del suo sindaco Nir Barkat di addolcire l’occupazione facendo visita regolarmente ai quartieri palestinesi, creando centri sociali per le comunità locali e promettendo miglioramenti economici che non sono riusciti a pacificare la rabbia palestinese. E mentre Barkat faceva del suo meglio per promuovere una Gerusalemme sotto sovranità sionista come destinazione ideale per i turisti stranieri e come modello di tolleranza religiosa, di stabilità e di diversità, i giovani della classe operaia palestinese di Gerusalemme gli hanno rovinato il copione.

A un’analisi superficiale, l’ultima ondata di rabbia che è incominciata a Gerusalemme e poi si è diffusa in Cisgiordania, a Gaza e in misura minore nei territori occupati nel 1948, sembrerebbe essere scoppiata a causa delle continue invasioni di coloni protetti dall’esercito sulla spianata della moschea di Al-Aqsa.

Ridurre gli eventi di questi giorni a questa versione significa adottare il punto di vista della propaganda israeliana che vuole ridurre la rivolta a una disputa religiosa che può essere fermata con la fine delle feste religiose ebraiche e le frequenti invasioni della spianata che le accompagnano. Ma se è vero che la difesa della moschea di Al-Aqsa è una delle maggiori motivazioni ideologiche della rivolta, è altrettanto vero che la ribellione dei giovani ha radici molto profonde che sono state spesso offuscate da un’ingannevole senso di calma. Questa rabbia ha sempre continuato a bollire sotto la superficie, pronta a scoppiare in qualsiasi momento. La domanda era sempre “quando?”.

Non è ancora chiaro se ci sarà una Terza Intifada. Ciò che stiamo vedendo deve ancora fiorire in un ampio movimento sociale. Le cause sono molteplici e difficili da riassumere qui. Ma quello che è certo è che la rivolta di questi giorni è parte di un processo più ampio che porterà — e forse ha già portato — a un cambiamento sostanziale nell’economia della minaccia tra palestinesi e israeliani. Nonostante la sua forza militare, Israele è stato scosso dai recenti attacchi dei lupi solitari. Le telecamere ora inquadrano Barkat — che solo qualche giorno fa parlava di stabilità e sicurezza a Gerusalemme — con in mano un’arma e con evidenti segni di stress mentre cammina per le strade della Città Vecchia di Gerusalemme.

Esponenti politici di alto rango invitano gli ebrei israeliani ad armarsi. L’uccisione dei lanciatori di pietre palestinesi non costituisce una novità ed è ora supportata ufficialmente dallo stato. Il governo israeliano sta mettendo in atto la demolizione delle case di palestinesi coinvolti o sospettati di essere parte degli attacchi dei lupi solitari; e la polizia israeliana, con il pieno appoggio dello stato e dell’opinione pubblica, sta compiendo esecuzioni sommarie di giovani palestinesi nelle strade. Tutte le parti dello schieramento politico israeliano, dalla destra alla “sinistra” sono impegnate a dare “consigli” al governo su come governare questa crisi.

In una situazione in cui lo scarto di potere è così chiaro non si può sminuire il significato di questa ondata di rivolta e l’impatto che ha prodotto.

Di fronte all’assenza di proteste convenzionali su larga scala, gli attacchi individuali stanno segnando il tono della ribellione e dello scontro, ma il loro impatto sembra andare molto oltre gli attacchi stessi.

La decisione di Israele di rispondere con brutali punizioni collettive potrebbe diventare un boomerang. Per ora ha solo avuto l’effetto di aumentare la solidarietà tra palestinesi invece di scaricare le accuse internamente sui giovani ribelli.

Quando le forze israeliane hanno compiuto un raid nel campo di Shu’fat alla ricerca dell’abitazione di Subhi Abu Khalifa, si sono dovute confrontare con una massiccia resistenza da parte di tutto il campo. “Giovani uomini mascherati lanciavano pietre al checkpoint”, ha sottolineato la madre di Abu Khalifa.

Dopo l’attacco compiuto da suo figlio, il padre di Subhi, che lavorava come netturbino per la municipalità occupante, è stato licenziato. Quando gli è stato chiesto se è dispiaciuto per le azioni di suo figlio, ha risposto che non baratterebbe mai il valore del suo lavoro con la sua dignità.

Sicuramente ci saranno voci tra i palestinesi di Gerusalemme che, spinte dalla paura delle rappresaglie israeliane, condanneranno gli attacchi e inviteranno alla calma. Tuttavia la stragrande maggioranza dei palestinesi appoggia la rivolta, anche senza parteciparvi.

Senza una leadership e in maniera quasi spontanea, le comunità palestinesi si stanno organizzando per respingere i raid e gli attacchi dell’esercito israeliano e dei coloni a Nablus e Hebron, mentre le forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese stanno a guardare e non fanno nulla per proteggerle.

Per sconfiggere la massiccia repressione di Israele e la complicità dell’Autorità Nazionale, i palestinesi dovranno organizzarsi ed espandere le loro reti di solidarietà e di supporto orizzontale. Questo potrebbe trasformarsi in un movimento sociale e nell’attesa Terza Intifada.

Chiamateli come volete, ma le giovani “teste calde” che stanno guidando l’ondata di rivolta sono consapevoli che i coltelli e le pietre non possono liberare la Palestina. Ma sanno anche che la liberazione non arriverà con futili colloqui di pace, dato che questi hanno prodotto solo più colonizzazione e più crimini israeliani. Le prove sono davanti agli occhi di tutti.

Nonostante la loro età e inesperienza, quei giovani hanno molta più maturità e coraggio dell’élite palestinese che ha beneficiato dello status quo e dei più anziani che cercano di placarli. Quei giovani hanno vissuto gli effetti disastrosi degli Accordi di Oslo e del fallimento dei negoziati di pace. Sono vittima del neo-liberismo dilagante nella società palestinese e delle sue molteplici manifestazioni.

Per quei giovani la libertà e la dignità ha molta più importanza della civiltà e del rispetto. Hanno oltrepassato i confini e gli ostacoli che hanno a lungo diviso la Palestina, mostrando che la Linea Verde è una farsa.

Sono loro che stanno mettendo le loro vite in prima linea, mentre gli attivisti di spicco e l’élite palestinese sono rimasti nelle retrovie.

[La versione originale dell’articolo di Budour Hassan può essere letta sul suo blog]

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