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Se il re degli Zulu fa il Salvini

  • Venerdì, 17 Aprile 2015 14:36 ,
  • Pubblicato in IL MANIFESTO

Il Manifesto
17 04 2015

A Mat­teo Sal­vini non farà forse pia­cere saperlo, ma il suo raf­fi­nato pen­siero in mate­ria di immi­gra­zione trova un pre­ciso cor­rispettivo nelle con­vin­zioni di un monarca zulu. Un trono molto discusso fin dai tempi dell’apartheid, quello su cui siede dal 1971 Sua Mae­stà Good­will Zwe­li­thini, figura sim­bo­lica ma ad alto tasso poli­tico, che solo l’immensa magna­ni­mità di Nel­son Man­dela poteva lasciare al suo posto nell’architettura isti­tu­zio­nale del nuovo Sudafrica.

La dif­fe­renza, sem­mai, sta nella rea­zione che certe dichia­ra­zioni sugli «stra­nieri» che «devono tor­nar­sene a casa loro» pos­sono inne­scare. Quando il re degli Zulu sof­fia sul fuoco, infatti, il fuoco tende a divampare.

Zwe­li­thini, non nuovo a deliri raz­ziali su pre­sunte pri­ma­zie zulu, ha tuo­nato con­tro gli stra­nieri che gesti­scono un numero cre­scente di pic­coli negozi. E il giorno dopo sono par­tite le inti­mi­da­zioni, i sac­cheggi, i roghi le aggres­sioni vio­lente, con un bilan­cio di cin­que morti nelle ultime set­ti­mane, decine di feriti e migliaia di per­sone che tor­nano a cer­care rifu­gio nei cor­tili dei com­mis­sa­riati, men­tre le truppe anti-sommossa pat­tu­gliano le town­ship. Scene già viste nel 2008, quando un ana­logo clima di odio pro­vocò la morte di 62 per­sone. Ora riecco nelle strade delle zone più disa­giate di Dur­ban e Johan­ne­sburg bande armate di machete e tani­che di ben­zina. Guerra forse tra poveri, ma non meno asim­me­trica, dichia­rata agli «inva­sori» che rubano ai suda­fri­cani il lavoro e le strade delle città.

Vit­time sem­pre loro, i migranti, con un numero enorme di pro­fu­ghi già in fuga da guerre e regimi dispo­tici. Quindi somali, etiopi, eri­trei, con­go­lesi, nige­riani che si som­mano ai cit­ta­dini di quelli che una volta erano i fron­tline sta­tes, i paesi vicini, soli­dali con la lotta anti-apartheid dell’African natio­nal con­gress: ven­gono ad esem­pio dal Mozam­bico, che dopo l’ultima fiam­mata di vio­lenze ha alle­stito campi per i fug­gia­schi, o dal Malawi che invece annun­cia un rim­pa­trio di massa.

Ieri a Dur­ban con­tro la nuova ondata xeno­foba hanno sfi­lato 10 mila per­sone. E il pre­si­dente Zuma ha con­dan­nato ener­gi­ca­mente le vio­lenze. Ma il governo ha un posto garan­tito sul banco degli impu­tati, per la ste­ri­lità delle poli­ti­che messe in campo e l’incapacità di inci­dere sulle dispa­rità eco­no­mi­che ancora bru­cianti che afflig­gono la società dell’aspirante Nazione Arcobaleno.

Marco Boccitto

Gli ospedali fantasma dell'Unione Europea in Nigeria

  • Mercoledì, 15 Aprile 2015 07:41 ,
  • Pubblicato in ZeroViolenza
Ospedale a LagosMarco Omizzolo e Roberto Lessio, Zeroviolenza
15 aprile 2015

Il popolo nigeriano dimostra una straordinaria capacità di sviluppo che colloca il paese al vertice tra quelli africani più sviluppati. Tra il 2000 e il 2013 la sua crescita media annua è aumentata dell'8,2 per cento e nel 2014 il PIL è cresciuto ancora. Ha ormai superato il Sudafrica nelle classifiche internazionali e ambisce a sedere entro qualche anno al tavolo dei potenti della terra.

La pace in Uganda comincia dalle donne

  • Mercoledì, 01 Aprile 2015 13:44 ,
  • Pubblicato in IL MANIFESTO

Il Manifesto
01 04 2015

­siamo spe­gnere il fuoco con la ben­zina?» chiede Ange­lina pro­vo­ca­to­ria­mente verso la fine di Kevin, il docu­men­ta­rio che rac­conta l’impegno politico-sociale di una gio­vane gior­na­li­sta nel pro­prio paese, l’Uganda. Elisa Mere­ghetti e Marco Mensa, i due autori del film auto­pro­dotto che fa parte della ras­se­gna Doc in tour orga­niz­zata dalla D.E-R (Docu­men­ta­ri­sti dell’Emilia-Romagna) e le cui pros­sime tappe sono il cinema Rose­bud a Reg­gio Emi­lia (1° aprile) e la sala Truf­faut a Modena (9 aprile) per pro­se­guire fino al 12 mag­gio in diverse loca­lità della regione, affer­mano che il loro focus era pro­prio sulla «gio­vane gene­ra­zione delle donne afri­cane che si impe­gna in prima per­sona a costruire nuovi scenari».

Di qui la scelta di rac­con­tare la vita di Kevin Doris Ejon, 29 anni, nota per essere tra i pochi repor­ter che hanno incon­trato e inter­vi­stato Joseph Kony, il lea­der delle mili­zie ribelli della Lord’s Resi­stance Army, che negli ultimi 25 anni ha semi­nato la morte nel Nord Uganda.
Dicono i regi­sti: «In un momento in cui guerre, vio­lenze e fana­ti­smi pre­val­gono su ogni logica e le solu­zioni poli­ti­che sem­brano sem­pre più ina­de­guate, abbiamo voluto valo­riz­zare il ruolo delle donne e dell’informazione nella costru­zione di un pro­cesso di pace». Il film si apre con foto in bianco e nero, scat­tate dalla stessa Kevin, che danno un’idea di ciò che è acca­duto men­tre la voce off ci dice in poche parole della guerra civile tra l’esercito nazio­nale e la mili­zia ribelle che, ini­ziata nel lon­tano 1986, ha ucciso decine di migliaia di per­sone, spinto alla fuga oltre due milioni, orga­niz­zato rapi­menti di massa tra bam­bini e gio­vani fan­ciulle rese schiave. Ben­ché quel con­flitto sia finito le ferite lasciate alla popo­la­zione creano ancora tanto dolore. Joseph Kony, ricer­cato dalla Corte penale inter­na­zio­nale, e i suoi seguaci sono scap­pati, i rapi­menti con­ti­nuano altrove.

Mere­ghetti e Mensa seguono con mano (e occhio) deli­cato i passi di Kevin che oggi vive a Kam­pala, la capi­tale, e lavora alla radio indi­pen­dente Lira. Sta pre­pa­rando un repor­tage sulle donne che a quel tempo erano tra le stu­den­tesse rapite al Saint Mary’s Col­lege di Aboke, cit­ta­dina vicino a dove lei è cre­sciuta. «Erano 139, molte sono rima­ste nella fore­sta per dieci e più anni, altre sono morte in com­bat­ti­mento o per malat­tia, altre ancora sono riu­scite a scap­pare» rac­conta Kevin prima di dare la parola a Betty, una di loro, che pre­senta così: «Tor­nata al vil­lag­gio, la comu­nità non l’ha ancora accet­tata. Vive sola, con un bimbo pic­colo, quando tro­verà pace?».

Que­sta domanda, sot­to­ti­tolo del film — La mia gente tro­verà mai la pace? — è il leit­mo­tiv che guida la ricerca di Kevin. A cui fanno da con­trap­punto le imma­gini della natura, a volte silenti, a volte sot­to­li­neate solo dai suoni dell’ambiente, che via via si fanno meta­fore delle emo­zioni, del vis­suto, del cor­to­cir­cuito tra corpo e parola, tra ragio­nare e sen­tire.
Nelle due inter­vi­ste prin­ci­pali ad esem­pio, con le già citate Betty e con Ange­lina, la mamma anziana di una delle rapite, si per­ce­pi­sce gra­zie a pic­coli movi­menti della mano, messi in primo piano nel mon­tag­gio, il disa­gio, quell’urlo dolente che giace lì, sulla pelle, acca­rez­zata dol­ce­mente, e che rimane muto per­ché, anche se fosse gri­dato ad alta voce, non ver­rebbe ascol­tato. Quel tipo di vio­lenza che non sop­porta nes­suna imma­gine ci arriva dritto come un pugno pro­prio da quelle dita che sfio­rano il brac­cio, da due mani che cer­cano ripe­tu­ta­mente di lavare un capo bianco in una vaschetta d’acqua o dai lampi che si sca­te­nano in un cielo oscuro quasi acce­can­doci nel loro apparire.

Che fare per por­tare sol­lievo? «L’unica pos­si­bi­lità è capire che siamo tutti vit­time e che insieme pos­siamo risol­vere qual­cosa» com­menta Kevin. E la pro­po­sta più radi­cale arriva da una delle vit­time, Ange­lina: «Ci vor­rebbe una com­mis­sione nazio­nale per la verità e la ricon­ci­lia­zione per com­piere un pro­cesso che coin­volge tutti. Siamo essere umani e la sto­ria dell’Uganda è chiara, abbiamo vis­suto rivolte, distru­zioni, omi­cidi, muti­la­zioni. In Suda­frica ci sono riu­sciti. Il con­flitto è vec­chio come l’umanità, il pro­cesso di per­dono e ricon­ci­lia­zione dovrebbe essere costante, quotidiano».

"Ho 41 anni e non avevo mai visto i nigeriani così presi da una campagna elettorale, sono tutti coinvolti: è molto bello. Quanto a me, voterò senz'altro Buhari, credo che possa fare bene alla Nigeria e combattere quella corruzione che è alla radice di tutti i nostri problemi". La scrittrice Lola Shoneyin, per anni insegnante ad Abuja e ora impegnata in iniziative culturali a Lagos, non ha mai smesso di occuparsi della vita nigeriana.
Alessandra Baduel, La Repubblica ...

Terra online
25 03 2015

L'accusa viene da Amnesty International. «Eni ha perso il controllo sulle sue operazioni nel delta del Niger. Shell, nonostante le promesse, non ha fatto alcun progresso nell'impedire gli sversamenti di greggio». L'organizzazione per i diritti umani parla di inquinamento: la anglo-olandese Royal Dutch Shell e l'italiana Eni hanno registrato oltre 550 casi di sversamento di greggio l'anno scorso nel delta nigeriano, afferma Amnesty analizzando i dati delle due multinazionali petrolifere.

Per la precisione, Shell riferisce di 204 sversamenti nel 2014 mentre Eni, che ha attività in un'area più piccola di Shell, ne ha registrati 349. Le due compagnie dichiarano che sono stati sversati appena 30mila barili (circa 5 milioni di litri) di greggio in totale – ma il sistema di rilevamento di simili incidenti è talmente incerto che potrebbero essere molte di più, dice Amnesty. E fa notare a paragone, che ci sono stati solo 10 casi di sversamento nell'intero territorio europeo nei trent'anni tra il 1971 e il 2011.
Insomma, la regione petrolifera del delta del fiume Niger, in Nigeria meridionale, vive in perenne disastro sanitario e ambientale. «In qualunque altro paese questa sarebbe un'emergenza nazionale. In Nigeria sembra la procedura standard dell'industria petrolifera», commenta Audrey Gaughran, di Amnesty International. «Il costo umano è orribile, la popolazione vive nell'inquinamento ogni giorno della propria vita».

Viene da pensare a quanto disse Ken Saro-Wiwa, lo scrittore e leader di un movimento di protesta contro la Shell nella regione Ogoni del delta del Niger, fatto impiccare nel 1995 dall'allora dittatura militare nigeriana dopo un processo-farsa: nella sua ultima auto-difesa aveva ha accusato Shell di «razzismo», «perché quello che fanno agli Ogoni non lo farebbero in altre parti del mondo».


Royal Duch Shell attribuisce la gran parte degli sversamenti a sabotaggi e furti. Popolazioni locali e organizzazioni non governative sul terreno contestano la tesi difensiva di Shell. E questa sembra smentita anche dal procedimento giudiziario concluso lo scorso novembre 2014 nel Regno unito, dove la stessa Shell ha accettato di pagare 55 milioni di sterline alla comunità Bodo nigeriana che l'aveva citata in giudizio.
In ballo erano due incidenti che avevano provocato giganteschi sversamenti di petrolio nella regione Bodo, nel delta del Niger: la compagnia li aveva a lungo catalogati come «incidenti minori», poi aveva offerto 4.000 sterline di risarcimento alle vittime (che invece hanno fatto una causa penale). Infine, di fronte al tribunale aveva dovuto ammettere di aver sottovalutato le cose.

Del resto, Shell ha una storia di inquinamento pervasivo nel delta del Niger fin dal 1958. Nel 2011 il Programma del'Onu per l'ambiente (Unep) ha concluso un lungo studio sull'inquinamento in Ogoniland: descriveva una situazione apocalittica e diceva che ci vorranno almeno 30 anni e parecchi miliardi di investimenti per ripulire l'inquinamento accumulato in decenni.

Quanto a Eni, proprietaria di Nigerian Agip Oil Company, nel delta del Niger è un attore più piccolo di Shell, a secondo Amnesty «il numero di sversamenti dalle sue attività richiede attenzione urgente da parte dei governi sia della Nigeria che italiano». Eni aveva riportato oltre 500 sversamenti nel 2013, e 474 nel 2012. L'ultimo caso del resto risale al mese scorso, a quanto riferisce la stampa nigeriana, quando Eni ha annunciato di aver sospeso la produzione in due pozzi nello stato di Bayelsa in seguito a uno sversamento, che attribuisce all'azione di sabotatori.

«Il governo italiano deve indagare cosa succede nelle operazioni di Eni in Nigeria. Questi dati sollevano gravi interrogativi sulla possibile neligenza dell'azienda ormai da molti anni», dice Audrey Gaughran: secondo Amnesty l'azienda dove intanto comunicare l'età e le condizioni delle sue infrastrutture in Nigeria, e procedere a una revisione.

L'organizzazione per i diritti umani sottolinea inoltre che qualunque sia la causa degli incidenti, le compagnie petrolifere hanno la responsabilità di contenere e ripulire gli sversamenti, ripristinando le condizioni ambientali precedenti. Ma è proprio questo che non succede quasi mai. Complice anche una certa cecità dei media mondiali: se uno sversamento di petrolio nel delta del Niger ricevesse la stessa attenzione di un disastro nel Golfo del Messico al largo degli Usa, per dire, forse la contaminazione in Nigeria sarebbe ormai un'emergenza internazionale.

@fortimar

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