Il Manifesto
17 04 2015
A Matteo Salvini non farà forse piacere saperlo, ma il suo raffinato pensiero in materia di immigrazione trova un preciso corrispettivo nelle convinzioni di un monarca zulu. Un trono molto discusso fin dai tempi dell’apartheid, quello su cui siede dal 1971 Sua Maestà Goodwill Zwelithini, figura simbolica ma ad alto tasso politico, che solo l’immensa magnanimità di Nelson Mandela poteva lasciare al suo posto nell’architettura istituzionale del nuovo Sudafrica.
La differenza, semmai, sta nella reazione che certe dichiarazioni sugli «stranieri» che «devono tornarsene a casa loro» possono innescare. Quando il re degli Zulu soffia sul fuoco, infatti, il fuoco tende a divampare.
Zwelithini, non nuovo a deliri razziali su presunte primazie zulu, ha tuonato contro gli stranieri che gestiscono un numero crescente di piccoli negozi. E il giorno dopo sono partite le intimidazioni, i saccheggi, i roghi le aggressioni violente, con un bilancio di cinque morti nelle ultime settimane, decine di feriti e migliaia di persone che tornano a cercare rifugio nei cortili dei commissariati, mentre le truppe anti-sommossa pattugliano le township. Scene già viste nel 2008, quando un analogo clima di odio provocò la morte di 62 persone. Ora riecco nelle strade delle zone più disagiate di Durban e Johannesburg bande armate di machete e taniche di benzina. Guerra forse tra poveri, ma non meno asimmetrica, dichiarata agli «invasori» che rubano ai sudafricani il lavoro e le strade delle città.
Vittime sempre loro, i migranti, con un numero enorme di profughi già in fuga da guerre e regimi dispotici. Quindi somali, etiopi, eritrei, congolesi, nigeriani che si sommano ai cittadini di quelli che una volta erano i frontline states, i paesi vicini, solidali con la lotta anti-apartheid dell’African national congress: vengono ad esempio dal Mozambico, che dopo l’ultima fiammata di violenze ha allestito campi per i fuggiaschi, o dal Malawi che invece annuncia un rimpatrio di massa.
Ieri a Durban contro la nuova ondata xenofoba hanno sfilato 10 mila persone. E il presidente Zuma ha condannato energicamente le violenze. Ma il governo ha un posto garantito sul banco degli imputati, per la sterilità delle politiche messe in campo e l’incapacità di incidere sulle disparità economiche ancora brucianti che affliggono la società dell’aspirante Nazione Arcobaleno.
Marco Boccitto
Il Manifesto
01 04 2015
siamo spegnere il fuoco con la benzina?» chiede Angelina provocatoriamente verso la fine di Kevin, il documentario che racconta l’impegno politico-sociale di una giovane giornalista nel proprio paese, l’Uganda. Elisa Mereghetti e Marco Mensa, i due autori del film autoprodotto che fa parte della rassegna Doc in tour organizzata dalla D.E-R (Documentaristi dell’Emilia-Romagna) e le cui prossime tappe sono il cinema Rosebud a Reggio Emilia (1° aprile) e la sala Truffaut a Modena (9 aprile) per proseguire fino al 12 maggio in diverse località della regione, affermano che il loro focus era proprio sulla «giovane generazione delle donne africane che si impegna in prima persona a costruire nuovi scenari».
Di qui la scelta di raccontare la vita di Kevin Doris Ejon, 29 anni, nota per essere tra i pochi reporter che hanno incontrato e intervistato Joseph Kony, il leader delle milizie ribelli della Lord’s Resistance Army, che negli ultimi 25 anni ha seminato la morte nel Nord Uganda.
Dicono i registi: «In un momento in cui guerre, violenze e fanatismi prevalgono su ogni logica e le soluzioni politiche sembrano sempre più inadeguate, abbiamo voluto valorizzare il ruolo delle donne e dell’informazione nella costruzione di un processo di pace». Il film si apre con foto in bianco e nero, scattate dalla stessa Kevin, che danno un’idea di ciò che è accaduto mentre la voce off ci dice in poche parole della guerra civile tra l’esercito nazionale e la milizia ribelle che, iniziata nel lontano 1986, ha ucciso decine di migliaia di persone, spinto alla fuga oltre due milioni, organizzato rapimenti di massa tra bambini e giovani fanciulle rese schiave. Benché quel conflitto sia finito le ferite lasciate alla popolazione creano ancora tanto dolore. Joseph Kony, ricercato dalla Corte penale internazionale, e i suoi seguaci sono scappati, i rapimenti continuano altrove.
Mereghetti e Mensa seguono con mano (e occhio) delicato i passi di Kevin che oggi vive a Kampala, la capitale, e lavora alla radio indipendente Lira. Sta preparando un reportage sulle donne che a quel tempo erano tra le studentesse rapite al Saint Mary’s College di Aboke, cittadina vicino a dove lei è cresciuta. «Erano 139, molte sono rimaste nella foresta per dieci e più anni, altre sono morte in combattimento o per malattia, altre ancora sono riuscite a scappare» racconta Kevin prima di dare la parola a Betty, una di loro, che presenta così: «Tornata al villaggio, la comunità non l’ha ancora accettata. Vive sola, con un bimbo piccolo, quando troverà pace?».
Questa domanda, sottotitolo del film — La mia gente troverà mai la pace? — è il leitmotiv che guida la ricerca di Kevin. A cui fanno da contrappunto le immagini della natura, a volte silenti, a volte sottolineate solo dai suoni dell’ambiente, che via via si fanno metafore delle emozioni, del vissuto, del cortocircuito tra corpo e parola, tra ragionare e sentire.
Nelle due interviste principali ad esempio, con le già citate Betty e con Angelina, la mamma anziana di una delle rapite, si percepisce grazie a piccoli movimenti della mano, messi in primo piano nel montaggio, il disagio, quell’urlo dolente che giace lì, sulla pelle, accarezzata dolcemente, e che rimane muto perché, anche se fosse gridato ad alta voce, non verrebbe ascoltato. Quel tipo di violenza che non sopporta nessuna immagine ci arriva dritto come un pugno proprio da quelle dita che sfiorano il braccio, da due mani che cercano ripetutamente di lavare un capo bianco in una vaschetta d’acqua o dai lampi che si scatenano in un cielo oscuro quasi accecandoci nel loro apparire.
Che fare per portare sollievo? «L’unica possibilità è capire che siamo tutti vittime e che insieme possiamo risolvere qualcosa» commenta Kevin. E la proposta più radicale arriva da una delle vittime, Angelina: «Ci vorrebbe una commissione nazionale per la verità e la riconciliazione per compiere un processo che coinvolge tutti. Siamo essere umani e la storia dell’Uganda è chiara, abbiamo vissuto rivolte, distruzioni, omicidi, mutilazioni. In Sudafrica ci sono riusciti. Il conflitto è vecchio come l’umanità, il processo di perdono e riconciliazione dovrebbe essere costante, quotidiano».
Terra online
25 03 2015
L'accusa viene da Amnesty International. «Eni ha perso il controllo sulle sue operazioni nel delta del Niger. Shell, nonostante le promesse, non ha fatto alcun progresso nell'impedire gli sversamenti di greggio». L'organizzazione per i diritti umani parla di inquinamento: la anglo-olandese Royal Dutch Shell e l'italiana Eni hanno registrato oltre 550 casi di sversamento di greggio l'anno scorso nel delta nigeriano, afferma Amnesty analizzando i dati delle due multinazionali petrolifere.
Per la precisione, Shell riferisce di 204 sversamenti nel 2014 mentre Eni, che ha attività in un'area più piccola di Shell, ne ha registrati 349. Le due compagnie dichiarano che sono stati sversati appena 30mila barili (circa 5 milioni di litri) di greggio in totale – ma il sistema di rilevamento di simili incidenti è talmente incerto che potrebbero essere molte di più, dice Amnesty. E fa notare a paragone, che ci sono stati solo 10 casi di sversamento nell'intero territorio europeo nei trent'anni tra il 1971 e il 2011.
Insomma, la regione petrolifera del delta del fiume Niger, in Nigeria meridionale, vive in perenne disastro sanitario e ambientale. «In qualunque altro paese questa sarebbe un'emergenza nazionale. In Nigeria sembra la procedura standard dell'industria petrolifera», commenta Audrey Gaughran, di Amnesty International. «Il costo umano è orribile, la popolazione vive nell'inquinamento ogni giorno della propria vita».
Viene da pensare a quanto disse Ken Saro-Wiwa, lo scrittore e leader di un movimento di protesta contro la Shell nella regione Ogoni del delta del Niger, fatto impiccare nel 1995 dall'allora dittatura militare nigeriana dopo un processo-farsa: nella sua ultima auto-difesa aveva ha accusato Shell di «razzismo», «perché quello che fanno agli Ogoni non lo farebbero in altre parti del mondo».
Royal Duch Shell attribuisce la gran parte degli sversamenti a sabotaggi e furti. Popolazioni locali e organizzazioni non governative sul terreno contestano la tesi difensiva di Shell. E questa sembra smentita anche dal procedimento giudiziario concluso lo scorso novembre 2014 nel Regno unito, dove la stessa Shell ha accettato di pagare 55 milioni di sterline alla comunità Bodo nigeriana che l'aveva citata in giudizio.
In ballo erano due incidenti che avevano provocato giganteschi sversamenti di petrolio nella regione Bodo, nel delta del Niger: la compagnia li aveva a lungo catalogati come «incidenti minori», poi aveva offerto 4.000 sterline di risarcimento alle vittime (che invece hanno fatto una causa penale). Infine, di fronte al tribunale aveva dovuto ammettere di aver sottovalutato le cose.
Del resto, Shell ha una storia di inquinamento pervasivo nel delta del Niger fin dal 1958. Nel 2011 il Programma del'Onu per l'ambiente (Unep) ha concluso un lungo studio sull'inquinamento in Ogoniland: descriveva una situazione apocalittica e diceva che ci vorranno almeno 30 anni e parecchi miliardi di investimenti per ripulire l'inquinamento accumulato in decenni.
Quanto a Eni, proprietaria di Nigerian Agip Oil Company, nel delta del Niger è un attore più piccolo di Shell, a secondo Amnesty «il numero di sversamenti dalle sue attività richiede attenzione urgente da parte dei governi sia della Nigeria che italiano». Eni aveva riportato oltre 500 sversamenti nel 2013, e 474 nel 2012. L'ultimo caso del resto risale al mese scorso, a quanto riferisce la stampa nigeriana, quando Eni ha annunciato di aver sospeso la produzione in due pozzi nello stato di Bayelsa in seguito a uno sversamento, che attribuisce all'azione di sabotatori.
«Il governo italiano deve indagare cosa succede nelle operazioni di Eni in Nigeria. Questi dati sollevano gravi interrogativi sulla possibile neligenza dell'azienda ormai da molti anni», dice Audrey Gaughran: secondo Amnesty l'azienda dove intanto comunicare l'età e le condizioni delle sue infrastrutture in Nigeria, e procedere a una revisione.
L'organizzazione per i diritti umani sottolinea inoltre che qualunque sia la causa degli incidenti, le compagnie petrolifere hanno la responsabilità di contenere e ripulire gli sversamenti, ripristinando le condizioni ambientali precedenti. Ma è proprio questo che non succede quasi mai. Complice anche una certa cecità dei media mondiali: se uno sversamento di petrolio nel delta del Niger ricevesse la stessa attenzione di un disastro nel Golfo del Messico al largo degli Usa, per dire, forse la contaminazione in Nigeria sarebbe ormai un'emergenza internazionale.
@fortimar