Huffington Post
21 11 2014
Amina ha 11 anni, nella notte tra il 31 ottobre e il primo novembre era sola nella capanna di fango a Tabit, cittadina a 45 chilometri dalla capitale del Nord Darfur, el-Fasher. Tre uomini sono entrati, l''hanno picchiata e violentata a sangue, a turno, più e più volte. Una guarnigione dell'esercito del Sudan, supportata da milizie filo-governative, era arrivata nel villaggio con i kalashnikov spianati. I militari hanno radunato e immobilizzato gli uomini e, minacciandoli di morte, gli hanno impedito di reagire e di proteggere le loro donne. In duecentodieci, tra cui 79 adolescenti e 8 bambine, sono state stuprate in poche ore. All'origine di tale inconcepibile violenza il presunto coinvolgimento di alcuni residenti nella scomparsa di un militare. Il brutale atto sessuale è stato usato come arma di guerra.
Il due novembre Italians for Darfur ha raccontato sul proprio blog quello che era avvenuto, in contemporanea ad altre organizzazioni per i diritti umani che hanno diffuso testimonianze sulla vicenda. Mentre in gran parte del mondo anglosassone i media hanno rilanciato la notizia, nel nostro paese è stata totalmente ignorata.
Venerdì 21 novembre Unamid, la missione Onu dispiegata in Darfur, ha annunciato che presto avvierà una nuova indagine, a distanza di una settimana dal report con cui affermava che non era possibile accertare l'accaduto. La realtà è che i testimoni avvicinati erano stati intimiditi dalle forze governative e nessuno ha avuto il coraggio di parlare. Dopo l'ondata di indignazione sui social media che da subito ha travolto la rete, il team di peacekeepers che aveva indagato sulle accuse rivolte ai militari sudanesi - concludendo che non ci fossero elementi per appurare le responsabilità dello stupro - tornerà presto nel villaggio per ascoltare le vittime dirette delle violenze. Le stesse che sono state intervistate da Radio Dabanga e che hanno raccontato i dettagli di ciò che è accaduto in quella terribile notte.
Per tenere alta l'attenzione sulla vicenda, venerdì 28 novembre, in tutto il mondo, i profughi sudanesi manifesteranno davanti ai parlamenti dei paesi in cui sono rifugiati insieme agli attivisti della coalizione di organizzazioni internazionali 'Sudan365', tra cui Italians for Darfur, Amnesty International e United to end genocide. Se il mondo punterà lo sguardo su Tabit forse questa volta sarà possibile raccogliere le testimonianze di ciò che li è avvenuto e che il governo continua a negare, nonostante il comandante della guarnigione abbia confermato che alcuni suoi uomini quegli stupri li hanno compiuti. Per impedire che episodi del genere possano essere ancora perpetrati impunemente è necessario sottrarre la regione del Sudan dal cono d'ombra in cui è precipitata da quando Khartoum, nel giorno in cui al presidente Omar Al Bashir venne notificato il mandato di arresto della Corte penale internazionale per i crimini in Darfur compiuti dalle milizie janjaweed tra il 2003 e il 2006, espulse le maggiori ong internazionali, sentinelle di quanto quotidianamente avveniva nella regione sudanese che in undici anni di conflitto ha superato le 300 mila vittime e conta oltre due milioni di sfollati.
Antonella Napoli
Pagina99
12 11 2014
Scioperi, manifestazioni e scontri violenti hanno deposto il presidente Blaise Compaoré, al potere dal 27 anni. La cronaca vissuta in diretta della rivoluzione burkinabé raccontata da un testimone diretto
Fa molto caldo in Burkina Faso. Così le manifestazioni politiche iniziano sempre prestissimo, alle 8 del mattino. Ma martedì 28 ottobre sono oltre 50 mila i cittadini, gli studenti, le organizzazioni politiche dell’opposizione burkinabé e le articolazioni della società civile e religiosa che gremiscono all’alba piazza della nazione, a Ouagadougou. C’è un filo rosso da riprendere. Una storia autonoma di decollo economico, sociale, culturale e morale, interrotta brutalmente tre decenni fa, da raccontare. Anche se molti arrivano in ciabatte o scalzi all’appuntamento col destino. “Non ho mai visto strade sterrate così piene di sandali e ciabatte”.
In piazza, tra i cartelli sankaristi innalzati e i pugni chiusi, c’è anche Christian Carmosino, documentarista italiano (autore dal 2004 di Pierino, Gli invisibili, L’ora d’amore, Segni particolari) arrivato in Burkina Faso qualche giorno prima per seguire il progetto di cooperazione internazionale Agrinovia. Rientrato avventurosamente in Italia, passando per il Togo, dopo la Rivoluzione e la fuga del tiranno, Carmosino ci racconta la sua esperienza. “Di bianchi, in piazza, nelle quattro giornate di Ouaga, dal 28 al 31 ottobre, eravamo tre: io, un fotoreporter francese della Reuters e un free lance statunitense”.
Carmosino seguirà gli scontri assieme al fonico burkinabé assegnatogli per girare un documentario finanziato dall’università Roma Tre. Va alla manifestazione con la sua telecamera professionale. Diventerà il beniamino della folla insorta. Tutti se lo contendono, vogliono che riprenda questo o quello e testimoni al mondo la riscossa, la fierezza e la dignità riconquistate. “Sono stupefatto dalla gente burkinabé. Dalla sua gentilezza, semplicità, fierezza, onestà”. Adesso Carmosino sta montando le riprese del
“Il 1 novembre, sempre tutti in piazza, perché, dopo una notte di saccheggi e assalti a banche, negozi, supermercati e dimore dei fedeli e dei parenti di Compaoré, la parte più garantista del movimento, piuttosto diffidente nei riguardi di Zida, pretende la nomina immediata di un politico e non di un militare alla guida del processo di transizione. I militari sparano in aria e disperdono la folla. Negli scontri cade un altro manifestante. Ma il nuovo governo si difende ricordando la gravità della situazione, la necessità di chiudere le frontiere, il dovere di ristabilire l’ordine e la sicurezza nelle strade prima che regni l’anarchia. Il 2 novembre tutti i partiti e i gruppi di opposizioni si mettono d’accordo sul nome di Zida come garante della transizione. Posso partire. Atterro a Lomé dove due giorni dopo iniziano le manifestazione contro il dittatore di una dinastia stagionata, Faure Gnassingbé”.
Ma cosa è cambiato, oggi, rispetto alle periodiche repressioni cruente avvenute in tutto il continente dal 1987 al 2011? La crisi economica, l’esasperazione crescente del popoli rispetto alla corruzione, la politicizzazione della maggioranza del paese, giovanissima, nata dopo l’arrivo al potere dei vari dittatori e che non vogliono essere costretti alla fuga in Europa. Ha aggravato poi la situazione del Burkina Faso una particolare “maleducazione istituzionale”. Il partito al governo, di sinistra ma liberista, come è di moda, il Congresso per la democrazia e per il progresso (CDP), fondato e dominato da Campaoré, aveva infatti sprezzantemente chiuso in malo modo, un mese prima dello sciopero generale, ogni trattativa e compromesso possibile con l’opposizione.
La settimana di lotta iniziata il 28 ottobre “in una in un’atmosfera festosa, tra band rock e reggae, performances hip hop, danze e slogan irriverenti” sarebbe diventata così, 40 morti dopo e centinaia di feriti, l’autunno rosso africano, le quattro giornate di Ouaga che hanno sconvolto il mondo, in un crescendo di mobilitazione, scontri di piazza e volontà costituente, repressione e ritirata imprevista dell’esercito fino alla fuga del tiranno. Tra lo shock delle organizzazioni mondiali, dell’Europa e del continente che, sorprendentemente, imponevano al governo provvisorio militare di Zida, salvo sanzioni, l’immediata restituzione del potere ai civili. Cosa non poco bizzarra visto che mai transizione civile è stata chiesta al golpista, assassino e militare, Compaoré.
Il Fatto Quotidiano
02 11 2014
di Loretta Napoleoni
A 25 anni dalla caduta del muro di Berlino, fuori dai confini del ricco occidente, la politica internazionale continua a sporcarsi le mani con i dittatori, pagandoli profumatamente per combattere le guerre per procura contro i propri nemici. Ultimo esempio è quello dell’ex premier del Burkina Faso, deposto da una rivolta popolare che nulla ha da invidiare alla primavera araba.
Il curriculum di Blaise Compaoré ci racconta una delle tante storie tristi del post-colonialismo. Diventato presidente dopo l’assassinio di Thomas Sankara, il leader marxista del Burkina Faso che denunciò pubblicamente i giochi sporchi delle banche e dei governi occidentali per soggiogare con il debito i paesi africani, Compaoré stringe amicizia con tutti i dittatori africani, da Gheddafi a Charles Taylor. Allo stesso tempo mantiene con Parigi un rapporto molto stretto, che gli permette di promuovere gli interessi francesi in Africa. Per questo riceve sostegno su tutti i fronti, incluso quello politico, e questo in parte spiega come sia stato possibile per Compaoré essere stato rieletto presidente per un periodo di 27 anni.
L’amicizia con la Francia ha poi aperto le porte di Washington. Dieci anni fa’ Compaoré è diventato uno degli amici dittatori, poiché di questo si tratta, di Washington tra cui c’era anche Mubarak, uomini eletti regolarmente attraverso elezioni truccate. Abbandonato il traffico di armi e di diamanti per la Sierra Leone, Compaoré è diventato un broker politico per gli americani e gli europei. Da una parte si è adoperato per risolvere il conflitto dei Tuareg nel Mali e dall’altra ha offerto le proprie basi aeree ai droni spia americani che volano principalmente sul Mali e sul Niger. A quanto pare Washington addestra anche l’esercito del Burkina Faso nella base militare di Kaya, che ha anche provvisto di materiale bellico per un valore di 1,8 milioni di dollari per le “missioni di pace”.
Dopo la morte di Gheddafi, tra queste “missioni” c’era quella di combattere i jihadisti del nord e centro Africa, che si sono impossessati di gran parte dell’arsenale del dittatore libico. Un compito che Compaorénha svolto non solo per gli americani ma per gran parte dei paesi europei.
Adesso, dopo la rivolta popolare, alla guida dello Stato c’è un altro militare, anzi i contendenti sono due Isaac Zida, che sabato mattina si è auto-dichiarato capo di stato del processo di transizione, e Honore Traore che ha fatto lo stesso un giorno prima.
Parigi e Washington si sono dette contente di questo cambiamento, in fondo Zida o Traore non fa alcuna differenza dal momento che chi controlla il paese è l’esercito, addestrato ed armato dall’occidente. Tutto fuorché un governo islamico, questo è il motto che risuona dall’Africa fino alla penisola arabica. Anche se il prezzo è la repressione dei moti spontanei democratici, lo abbiamo visto in Egitto ed adesso in Burkina Faso.
Insomma, stiamo assistendo senza battere ciglio al cambio della guardia dei dittatori mentre la gente scende in piazza per chiedere democrazia e giustizia? E tutto ciò avviene per tenere lontana la minaccia jihadista? Ma è mai possibile che nessuno si renda conto che questa politica non fa che alimentare la popolarità dei gruppi jihadisti, percepiti come la sola forza anti-imperialista e rivoluzionaria in queste regioni?
Discorso analogo vale in Siria dove la Russia e l’Iran sostengono un governo dittatoriale che protegge i loro interessi strategici nel mediterraneo contro la volontà del popolo che nel 2011 partecipò pacificamente alla primavera araba contro Assad.
A 25 dalla caduta del muro di Berlino, lungo i vecchi confini della Guerra fredda e nelle ex colonie occidentali, poco o nulla è cambiato, e la democrazia rimane un sogno irraggiungibile.