Atlas
17 09 2015
Leoni, leopardi, bufali e giraffe sono tornati in Somalia a distanza di anni dalla loro scomparsa nel paese del Corno d’Africa. Lo hanno riferito varie fonti somale secondo cui gli animali proverrebbero dalla foresta keniana di Boni.
A causare questa migrazioni sarebbero le operazioni militari in corso a Boni che vedono confrontarsi esercito keniano e guerriglieri shabaab.
Gli animali sono stati avvistati in diversi luoghi del Basso Giuba, area che fino al 1991 – anno di inizio del conflitto civile – era in effetti abitata da leoni, giraffe e altri animali.
Fino a quando la regione resterà priva di un effettivo governo e di sicurezza la situazione resterà comunque instabile anche per questi animali, in cerca di pace come il popolo somalo.
Il Grande Colibrì
16 09 2015
In Africa, senza mai essere mai cessata, prende sempre più vigore una nuova caccia alle streghe in cui - ancora una volta - ad essere perseguitate sono le persone LGBT (lesbiche, gay, bisessuali e transgender). Ed è impressionante come in pochi giorni, in paesi molto diversi per tradizioni e religione, si siano succeduti episodi che la rendono evidente. Cominciamo con una notizia che purtroppo ricalca vecchi modelli: l'outing di una donna lesbica che denuncia l'omosessualità di animatrici, danzatrici e altre celebrità in Senegal. La notizia, raccolta da Ndiaga Fall di Walftv (video qui sotto), sta naturalmente scatenando nel paese grandi timori da parte delle persone "accusate" e grandi senso di rivincita nei media che denunciano come non si faccia abbastanza contro "la minaccia del lesbismo, che estende sempre più i suoi tentacoli" (senepeople.com).
Questa storia dimostra come sia pericoloso riporre la propria fiducia in qualcuno in paesi dove l'omosessualità è considerata un crimine: ora la donna dichiara di essere diventata lesbica dopo che il suo ragazzo l'ha lasciata dieci anni fa e di non riuscire a liberarsi da questo vizio, e per "farsi aiutare" (o forse cedendo al ricatto di qualcuno che l'ha scoperta) ha deciso di denunciare altre persone come lei.
E in effetti in questi contesti il primo pericolo viene da conoscenti e familiari, come dimostra la storia di Moussa Diawara: prima picchiato dai genitori e poi arrestato dalla polizia in Guinea nel 2010, riuscì a fuggire dal carcere, ma fu imprigionato di nuovo dai suoi stessi genitori fino al 2013, quando è riuscito a rifugiarsi in Francia. La vicenda è tornata di attualità perché, secondo alcuni media, Moussa sarebbe tornato nel suo paese natale dopo aver preso contatto con un fratello che voleva incontrare e che ora si trova in carcere a pagare la colpa del consanguineo, dopo essere stato legato e picchiato per aver tradito la famiglia e la comunità (radio-kankan.com).
Ma ovviamente anche le autorità, con quelle religione spesso in prima linea, contano molto nelle persecuzioni delle persone che "praticano l'omosessualità o altre deviazioni contro natura", come - con queste precise parole - si è espresso sabato scorso il Coordinamento delle associazioni islamiche dell'ovest del Burkina Faso, chiedendo al governo, tra le altre cose, di vietare e sanzionare tutte le anomalie che sono viste come una minaccia all'ordine naturale delle cose (lefaso.net).
Del resto - passando da paesi con maggioranza musulmana a nazioni a prevalenza cristiana - nemmeno l'appartenenza ad una confessione religiosa è garanzia di astinenza da questo terribile peccato: e così cinque sacerdoti anglicani in Kenya sono stati sospesi dal vescovo Joseph Kagunda per il sospetto di aver avuto delle relazioni omosessuali. Il vescovo ha dichiarato che la chiesa "si vergogna di essere associata a loro" e ha ricordato che, "sebbene ci siano pressioni per introdurre il matrimonio tra persone dello stesso sesso nel paese, la chiesa anglicana non arretrerà di un passo su questo punto" (nation.co.ke).
E se in Ghana il candidato presidente del National Democratic Congress promette la fucilazione delle persone omosessuali ("Sarà un evento pubblico, così che tutti possano vederlo e che serva da deterrente") se sarà eletto nelle elezioni del prossimo novembre (kasapafmonline.com), ha destato grande scalpore anche la condanna in Uganda dell'ex direttore sportivo calcistico Chris Mubiru, celebre per le foto di sesso finite sulla copertina di Red Pepper (ilgrandecolibri.com), per sodomia forzata con Emmanuel Nyanzi (monitor.co.ug). Mubiru, che è stato arrestato già nel 2009, nei prossimi giorni conoscerà la durezza della condanna, di cui è ancora da determinare la durata.
Lo stesso Mubiru, però, è stato assolto dall'accusa di aver avuto rapporti omosessuali con George Oundo, perché il partner era consenziente: questa sentenza è estremamente importante in un paese che continua a discutere di rinvigorire le pene per i rapporti tra persone dello stesso sesso, che il giudice ha invece ritenuto legittimi se entrambi i partner sono consenzienti (sebaspace.wordpress.com). Nonostante questo importante distinguo, la situazione nel paese, come in quasi tutto il continente, rimane molto complicata.
Una delle prime conseguenze nel mantenere vietati e clandestini i rapporti gay è che la comunità omosessuale finisce ad essere più colpita dalla diffusione dell'AIDS: lo rileva in Burundi l'Associazione nazionale assistenza malati di AIDS e sieropositivi (seronet.info); lo conferma il manager di Gay e lesbiche dello Zimbabwe (GALZ) Samuel Matsikure, che osserva come gli omosessuali siano "riluttanti ad avvicinarsi agli operatori sanitari per paura dello stigma e della discriminazione" (voazimbabwe.com); lo dimostrano i gay del Botswana, che chiedono di avere medici che non li discriminino per il loro orientamento sessuale, mettendo a rischio la loro salute e quella delle persone che hanno rapporti con loro (starafrica.com).
Ma forse, per governanti e autorità religiose di questi paesi, il fatto che la sieropositività e l'AIDS si diffondano non è un problema perché confidano che ad essere colpiti saranno solo i gay, quando, in realtà, in una società ipocrita, in cui i gay si nascondono in famiglie "normali", ad essere a rischio sono tutti. E oltre all'emergenza culturale e civile, si rischia anche di acuire ancora di più un'emergenza sanitaria di proporzioni già tragiche.
Michele
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Connessioni precarie
09 09 2015
di FERRUCCIO GAMBINO
1. Nell’agosto del 2015 a Budapest né autobus né treni erano disponibili per il trasporto dei profughi siriani verso l’Austria. Fatte le debite proporzioni, il loro destino rammentava vagamente la situazione dei profughi eritrei, etiopi e sudanesi che per molto tempo rimanevano appiedati attorno all’oasi di Kufra, nel Sud della Libia. Ma la Mitteleuropa è la Mitteleuropa. Ai primi di settembre, il governo ungherese di Orbàn ha messo a disposizione i mezzi pubblici, una misura analoga a quella del 1989, quando il governo Németh lasciò passare i tedesco-orientali, decisi sì a emigrare all’ovest ma evitando finalmente il tiro al piccione lungo il muro di Berlino.
Nell’ormai lontano agosto del 1989 la questione dei mezzi di trasporto riguardava qualche centinaio di «turisti» della già traballante Repubblica democratica tedesca (Rdt). I «turisti» avevano attraversato l’Ungheria giungendo fino alla frontiera austriaca. La questione era: alla lunga, quel flusso avrebbe ridotto il muro di Berlino a un residuato bellico? In effetti, il 19 agosto 1989, circa 600 tedesco-orientali erano entrati in Baviera, dopo aver passato alla spicciolata il confine ungherese-austriaco sotto lo sguardo benevolo delle guardie di entrambi i Paesi. Il governo della Rdt aveva protestato. Per rabbonirlo, i governanti ungheresi arrestarono e rimpatriarono un gruppo di tedesco-orientali. Poi, nel giro di una ventina di giorni, cambiarono idea e diedero autobus e treni ai partenti. Che cosa era successo in quell’arco di tempo? Semplicemente che il governo conservatore della Repubblica federale tedesca (Rft) aveva oliato le ruote dei mezzi di trasporto ungheresi.
Infatti, Helmut Kohl, il cancelliere della Rft, aveva sganciato segretamente un prestito da un miliardo di marchi all’indebitato governo Németh, aggiungendo poi allettanti promesse per il futuro[1]. Era il 25 agosto 1989, data dell’incontro tedesco-ungherese nei pressi di Colonia. Incassato il pingue assegno, il governo ungherese trovò i mezzi per trasportare verso ovest i «turisti» tedesco-orientali accampati a Budapest. Si dirà: quella del 2015 è una situazione ben diversa. Indubbiamente, soprattutto perché allora tutti i «turisti» erano considerati migranti politici, mentre oggi soltanto i siriani, con l’aggiunta di un gruppo minoritario di irakeni e afghani, sono registrati come tali, mentre «gli altri» sarebbero evidentemente migranti «economici». Ad esempio, oggi i cittadini del Burundi hanno ottime ragioni per emigrare – e infatti fuggono verso il Congo – ma non troverebbero vita facile in Ungheria, così come in molti altri Paesi europei, anche se il presidente-dittatore burundese non lesina le maniere forti contro la crescente opposizione
2. Nei primi otto mesi di questo 2015 si sono contati 310mila profughi in arrivo dalla sponda sud alla sponda nord del Mediterraneo; di questi, circa 200mila sono riparati in Grecia e 100mila in Italia, i due paesi della cosiddetta prima accoglienza. Nello stesso periodo i morti e i dispersi nella traversata del Mediterraneo sono almeno 2.800, per la maggior parte africani, fra cui non si contano, ad esempio, i giovani finiti sulle lame dei muri eretti dal governo spagnolo a Ceuta e Melilla.
Il 25 agosto del 2015, esattamente 26 anni dopo l’accordo sottobanco di Kohl con Németh, il cancellierato tedesco si sporge sul baratro. Fino a quel momento era sotto gli occhi di tutti che la Grecia e l’Italia erano state lasciate sole nell’accoglienza dei rifugiati nell’area dell’UE. Di colpo, il governo Merkel scopre la questione dei profughi siriani e sospende – soltanto per loro e per gli irakeni e gli afghani aggregati – quel notorio sbarramento che è dettato dal patto «Dublino III» dell’Unione europea: da un atteggiamento di rifiuto guardando all’estrema destra tedesca, Berlino passa a una politica di ingressi selettivi guardando soprattutto al mercato del lavoro interno e alla spinta verso un’indiscussa primazia in Europa. Ai siriani che sono riusciti a passare attraverso la ruvida Macedonia e la meno ruvida Serbia si apre la possibilità di trovare rifugio in Germania. I siriani sono generalmente giovani e istruiti (è sottinteso che siano più istruiti degli africani) ed entreranno agevolmente nel sistema d’impiego. Negli stessi giorni, al largo della Libia continuano ad affogare africani sulle carrette del mare (26.8), mentre in Austria si scoprono più di 70 profughi abbandonati e soffocati nel container di un Tir (27.8). In Italia, in un sol giorno sono circa in mille a sbarcare (28.8); tra di loro si contano quattro morti, di cui due bambine di cui non vengono diffuse le fotografie.
Per contro, sei giorni dopo fa il giro del mondo la fotografia del cadavere di un bambino siriano sulla spiaggia turca di Bodrum, morto durante il tentativo della famiglia di raggiungere l’isola greca di Kos. Tutti i mezzi di comunicazione dell’Unione europea sono mobilitati a dare il massimo risalto alla notizia e a discutere della fotografia, mentre il Mediterraneo occidentale viene mediaticamente oscurato. Salvifica, la fotografia del cancelliere Angela Merkel campeggia tra gli striscioni che aprono la marcia dei siriani verso ovest, mentre l’Austria e la Baviera accolgono i primi profughi siriani in provenienza da Budapest. Il premier britannico David Cameron teme di perdere la faccia a fronte dell’universalismo merkeliano e promette di considerare l’accoglienza di qualche migliaio di siriani, quelli particolarmente «bisognosi», ma soltanto a condizione che non siano ancora arrivati in un qualsiasi Paese dell’Unione europea. Dal canto suo, il presidente francese Hollande propone di affrontare la questione siriana alla radice, bombardando selettivamente alcune aree della Siria, una decisione per la quale propende anche il governo britannico.
In breve, l’inquietante oscillazione emotiva provocata prima dal lungo immobilismo e poi dalla repentina decisione del governo tedesco a favore dell’accoglienza dei siriani – e propagata a onda dai media al resto dell’Unione europea – lascia presagire ulteriori e gravi manipolazioni dell’opinione pubblica per il futuro in tema di migrazioni. Il vuoto di una qualsiasi politica migratoria coordinata dell’Unione europea è pneumatico e non da ora. Si tratta del non detto – durato più di 60 anni – di un progetto di unificazione formulato per risolvere i conflitti tra gli Stati prima con il Mec , poi con la Cee e infine con l’Unione europea, mentre la politica estera (a parte gli accordi commerciali ma compresa la politica neocoloniale) è rimasta prerogativa dei singoli Stati. È sintomatico che, per reazione alle traversie patite dai profughi nel tragitto dalla Turchia all’Ungheria, sia in aumento il flusso dei siriani verso la Norvegia: da Beirut a Mosca, da Mosca a Murmansk e poi, con mezzi di fortuna, fino a Oslo. In agosto in Norvegia si contavano circa 100 arrivi al giorno. È un cammino per saltare a piè pari l’Unione europea, un cammino quasi sempre precluso a comuni profughi africani.
Quasi tutti hanno dimenticato che il problema enorme e cruciale di oggi e dei prossimi decenni non è la pur drammatica condizione dei siriani nella tormenta della guerra, bensì il tragico potenziale migratorio in provenienza dalla dimenticata Africa. Da una parte la politica guerrafondaia delle monarchie del Golfo in Libia (oltre che in Iraq, Siria e Yemen), dall’altra la xenofobia diffusa globalmente contro gli africani stanno operando alacremente per l’avanzata della barbarie. Attualmente si contano a decine le città africane – dal Burundi alla Repubblica centro-africana alla Libia – dove il mercato delle armi è l’unico fiorente e dove si spara quotidianamente per le strade, dove le stragi sono moneta corrente – e da dove si tenta di fuggire, senza che il resto del mondo intenda rendersene conto. Ma contrariamente al passato, quello che è successo nel Medio Oriente non è stato contenuto nel Medio Oriente, quello che succede in Africa non potrà più essere contenuto in Africa.
[1] John L. Harper, La guerra fredda. Storia di un mondo in bilico, Bologna, Il Mulino 2013, p. 276 e n. 76, p. 345.