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Attenzione

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Il Fatto Quotidiano
22 05 2014

L’uomo potrebbe rappresentare oggi per molte specie animali e vegetali ciò che un asteroide fu per i dinosauri 65 milioni di anni fa: una minaccia di estinzione di massa. La sesta, in ordine di tempo, tra quelle conosciute dalla Terra dalla comparsa della vita pluricellulare. Come ammonimento contro questo rischio, paventato da molti biologi e naturalisti, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite a partire dal 2000 ha proclamato il 22 maggio, data in cui fu adottata nel 1992 la Convenzione sulla diversità biologica, Giornata mondiale della biodiversità.

I primi profughi climatici potrebbero essere eschimesi. La scelta dell’Onu quest’anno è caduta sull’ecosistema delle isole, in particolar modo le più piccole, in cui vive circa un decimo della popolazione mondiale. Un habitat considerato tra i più vulnerabili ai mutamenti climatici, basti pensare alla fragilità delle barriere coralline. I pericoli maggiori per questi ecosistemi, secondo gli ultimi rapporti dell’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc), l’organismo delle Nazioni Unite per lo studio del clima, sono rappresentati dall’innalzamento del livello degli oceani, stimato dall’Ipcc tra 0,18 e 0,59 metri entro la fine del secolo, e dalle tempeste sempre più frequenti e violente, che rischiano di creare profughi climatici. I primi potrebbero essere i 400 eschimesi che abitano la piccola isola di Kivalina, di fronte la costa ovest dell’Alaska, che secondo gli esperti potrebbe essere tra le prime a sparire entro il 2025.

Le isole sono un’importante cartina al tornasole della biodiversità. Lo sapeva bene Charles Darwin che, grazie anche alle osservazioni compiute su un habitat insulare, le Galapagos, riuscì a elaborare la sua teoria dell’evoluzione. E lo confermano le indagini della cosiddetta Lista rossa delle specie in pericolo, che proprio quest’anno compie 50 anni, in base alle quali il 90% degli uccelli e il 75% delle specie animali estinte a partire dal 17esimo secolo vivevano in habitat insulari. Vero e proprio “Barometro della vita”, secondo una definizione della rivista Science, la Lista, messa a punto dall’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn), assegna a più di 70mila specie una categoria di rischio. Si va dalle specie estinte a quelle fuori pericolo, passando dagli organismi che ormai sopravvivono solo in cattività a quelli che, a vari livelli, sono minacciati di estinzione.

Biodiversità, 30mila specie perse ogni anno. Ma perché è così importante la biodiversità? Questo termine è usato comunemente per indicare l’insieme degli individui e delle specie che vivono in una determinata area. Definizione che, estesa all’intero Pianeta, porta a descrivere la biodiversità come “La varietà della vita sulla Terra a tutti i livelli”. Un concetto che può sembrare in apparenza generico e lontano. Ma che, espresso in termini di relazione degli organismi tra loro e con l’ambiente, come amano fare gli scienziati, riguarda da vicino una specie in particolare e il suo modo di vivere il rapporto con la natura, l’Homo sapiens. Specie che, a dispetto del nome, sta modificando sempre più gli equilibri esistenti tra gli ecosistemi, con seri rischi per l’ambiente.

Il biologo di Harvard Edward Owen Wilson più di un decennio fa ha quantificato in 30mila specie l’anno la perdita di biodiversità terrestre, e sintetizzato il peso dell’uomo sulla diversità biologica coniando un curioso acronimo, “HIPPO”. Parola in cui la “H” sta per “Habitat loss”, cioè la perdita di ambiente naturale in favore di coltivazioni e insediamenti umani; la “I” per “Invasive species”, le specie aliene introdotte dall’uomo in ecosistemi diversi da quelli di origine, che proliferano in maniera incontrollata fino a sterminare quelle indigene; le due “P” per “Pollution”, l’inquinamento antropico e “Population”, a indicare la continua crescita della popolazione umana, giunta ormai a superare i sette miliardi di individui; infine la “O” che sta per “Overharvesting”, il crescente sequestro delle risorse ambientali fino al loro completo depauperamento. Pressioni ambientali cui va, inoltre, aggiunto il mutamento globale del clima.

Ipcc, incremento aree urbane e perdita di suolo fertile. “Maggiore è il grado di biodiversità, più grande sarà la capacità degli ecosistemi di sopportare perturbazioni esterne, indotte ad esempio dai cambiamenti climatici”, affermano gli scienziati dell’Ipcc per sottolineare l’importanza della diversità biologica. “L’incremento e la diffusione delle aree urbane e delle relative infrastrutture – aggiungono gli esperti della Convenzione Onu sulla biodiversità – ha determinato un aumento dei trasporti e del consumo energetico, con la conseguente crescita delle emissioni di gas serra e inquinanti atmosferici. Inoltre – sottolineano gli studiosi di biodiversità – la trasformazione dei terreni da naturali, come le foreste, ad altre destinazioni d’uso, semi-naturali come le coltivazioni, o artificiali come le infrastrutture, non solo sta provocando la permanente, e in molti casi irreversibile, perdita di suolo fertile, ma ha anche altri effetti negativi, come l’alterazione degli equilibri idrogeologici”.

L’Italia perde 8 metri quadrati di terreno al secondo. L’Italia, proprio sul tema del dissesto idrogeologico, sta ancora perdendo terreno. Letteralmente. Secondo l’ultimo report dell’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale la crisi non sembra aver affatto frenato il consumo di suolo nel nostro Paese. “Il fenomeno è in aumento, al ritmo di 8 m2 al secondo. Negli ultimi tre anni – affermano gli esperti italiani – abbiamo divorato un’area di 720 km2, grande come cinque capoluoghi di regione, Milano, Firenze, Bologna, Napoli e Palermo, perdendo così la capacità di trattenere 270 milioni di tonnellate d’acqua. Il 7,3% del territorio è ormai da considerare perso. La cementificazione – si legge inoltre nel rapporto – ha comportato tra il 2009 e il 2012 l’immissione in atmosfera di 21 milioni di tonnellate di CO2, valore pari a 4 milioni di utilitarie in più, l’11% dei veicoli circolanti nel 2012”.

Eppure, il nostro Paese parte da una condizione di privilegio. “L’Italia – sottolineano gli esperti Onu sulla biodiversità – grazie alla sua varietà geografica che comprende regioni alpine, continentali e mediterranee, e alle sue coste che si estendono per 7400 km, è un Paese estremamente ricco in biodiversità, con il più elevato numero e la maggiore densità di specie animali e vegetali dell’Unione Europea. La stima – in base ai dati delle Nazioni Unite – è di 58mila specie animali, il 95% delle quali rappresentate da invertebrati, 6700 specie vegetali e 20mila fungine. Ogni anno, inoltre, sono almeno 20 le nuove specie classificate sul territorio nazionale, di cui una percentuale superiore al 10% è rappresentata da aree protette”.

Ma costa sta facendo il nostro Paese per mantenere questo primato europeo? Se in ambito economico e finanziario ha preso provvedimenti, spesso all’insegna di austerità e rigore, con la motivazione che erano richiesti dall’Europa, sulla diversità biologica, dopo aver ratificato nel 1994 la Convenzione Onu, l’Italia è in linea con gli organismi internazionali?

Dopo la Convenzione Onu, carenze e mancanza di coordinamento. Nel 2010, in occasione dell’Anno internazionale della diversità biologica, il ministero dell’Ambiente ha messo a punto la “Strategia nazionale per la biodiversità” , un documento suddiviso in tre punti cardine: biodiversità ed ecosistemi, biodiversità e cambiamento climatico, biodiversità e politiche economiche, che devono trovare attuazione nel decennio 2011-2020. Nel 2015, anno di scadenza dei cosiddetti Obiettivi del millennio tra i quali c’è, al settimo punto, quello di assicurare la sostenibilità ambientale, ad esempio riducendo proprio la perdita di biodiversità – è in programma una verifica approfondita sulla validità dell’impostazione della strategia.

Ma un primo parziale bilancio esiste già. È rappresentato dalla prima analisi, tra quelle previste con cadenza biennale, dello stato di attuazione della strategia nazionale. Nelle conclusioni del rapporto, redatto dallo stesso ministero dell’Ambiente e riferito agli anni 2011-2012, emergono ancora molte ombre. Nella tabella delle quindici aree di lavoro in cui è stata suddivisa la strategia, la scala cromatica che evidenzia lo stato di attuazione degli interventi mostra solo un piccolo quadratino verde, come segno tangibile di un risultato positivo, in mezzo a tanti grigi. Nel report si parla, ad esempio, di “Carenze dovute ad un assetto nazionale e locale che spesso risente della mancanza di coordinamento nell’adempiere agli obblighi assunti” e di “Ritardi e scarsa incisività che spesso comportano l’apertura di procedure d’infrazione”. Si sottolinea, inoltre, che “Lo stato di crisi globale, comunitaria e nazionale, non facilita l’interesse verso i temi della conservazione della biodiversità, malgrado rappresentino una risorsa fondamentale su cui fare affidamento”.

Il paleontologo Eldredge: “La vita si è sempre ripresa dopo una estinzione”. Ma la Natura, a dispetto del disinteresse umano, potrebbe da sola trovare le giuste contromisure. “La vita ha capacità di recupero incredibili e si è sempre ripresa, anche se dopo lunghi intervalli di tempo, in seguito a spasmi di estinzione importanti – afferma Niles Eldredge, paleontologo dell’American museum of natural history di New York, in un’enciclopedia integrata della biodiversità, dell’ecologia e dell’evoluzione, dal titolo “La vita sulla Terra”. Ma questa ripresa è sempre avvenuta solo dopo la scomparsa di ciò che aveva provocato l’estinzione. E, poiché nel caso della sesta estinzione la causa siamo noi, l’Homo sapiens, questo significherebbe la nostra stessa scomparsa. A meno che – auspica lo studioso americano – non scegliamo di modificare i nostri comportamenti nei confronti dell’ecosistema globale”.

Davide Patitucci

Articolo Tre
08 05 2014

Come sono cambiati gli animali dei boschi e delle foreste vicine a Chernobyl a 28 anni dall’incidente nucleare? Alla domanda risponde Timothy Mousseau, ricercatore e biologo della University of South Carolina, che armato di rivelatore di radiazioni gira nei boschi vicino a Novoshelpelychi, in Ucraina.

Dopo quasi tre decenni dal disastro nucleare, i livelli di radiazioni, che si riscontrano nelle foreste, sono ancora ben oltre la norma; basti pensare che passare 10 giorni nei boschi attorno alla centrale nucleare, si è esposti a livelli di radiazioni pari a quelli che un'altra persona riceverebbe in un interno anno passato negli Stati Uniti. L’esposizione prolungata alle radiazioni può causare tumori o mutazioni genetiche, spiega Mousseau al New York Times: "Questi livelli di esposizione cronica sono circa quelli che una specie può tollerare prima di mostrare sintomi, in termini di prospettiva di vita, tumori e mutazioni genetiche".

Ma se, nelle aree più radioattive, il numero di alcuni specie di insetti è diminuito, alcune specie di uccelli, al contrario, sono riuscite ad adattarsi all'ambiente ostile producendo nel proprio organismo più antiossidanti, sostanze che proteggono dalle mutazioni e ammortizzano i danni genetici. Gli uccelli si adattano alle radiazioni e si evolvono se vogliono sopravvivere.

Ad interessare particolarmente Mousseau sono i ragni e le loro ragnatele. Secondo lo scienziato, l’esposizione prolungata alle radiazioni potrebbe aver alterato la capacità dei ragni di tessere ragnatele, creando schemi disordinati.

Il ricercatore ha eseguito rivelazioni di radioattività anche a Fukushima, notando cambiamenti e adattamenti simili a quelli Chernobyl e spiega: "Trovare lo stesso tipo di risposte biologiche in entrambi i posti rafforza l’ipotesi che siano proprio le radiazioni ad indurre gli impatti negativi".

Basta aggiungere una "M" e lo Zoo va giù…

  • Venerdì, 21 Marzo 2014 12:07 ,
  • Pubblicato in Flash news

Intersezioni
21 03 2014

Premessa necessaria: Gli zoo pubblici, per come li conosciamo oggi, affondano le proprie radici nel periodo di espansione coloniale europea. Storicamente, gli zoo di animali sono nati insieme agli zoo umani. Gli zoo umani erano una componente chiave delle fiere ed esposizioni mondiali, nelle quali le potenze coloniali mostravano la loro ricchezza e tecnologia avanzata accanto ai “selvaggi” conquistati. Venivano pertanto costruiti villaggi di popolazioni indigene come replica del loro supposto “habitat naturale”, di modo che il pubblico potesse vederli nei loro supposti ”costumi tradizionali”. Questi individui erano spesso schiavi. Per lungo tempo i “selvaggi” vennero mostrati a fianco della fauna selvatica, a rafforzare la pretesa dei conquistatori che gli indigeni fossero l’anello mancante tra animali ed esseri umani.

Nel libro Metamorphoses of the zoo: Animal encounter after Noah, Ralph Acampora, citando la famosa e triste storia di Ota Benga, giovane guerriero pigmeo recluso nello Zoo del Bronx nel 1906, afferma: ”A prescindere dall’indignazione che ci suscita la prigionia di Ota Benga, la questione cruciale è quella posta da Hari Jagannathan Balasubramanian: Per quale motivo la maggior parte di noi non condanna, oggi, quello che nel 2107 sarà percepito come davvero vergognoso? Forse, nel 2107, gli zoo saranno visti come una vergogna.”

Immagino di trovarmi in una prigione di nuova concezione: al suo interno non ci sono sbarre. Le celle non sono tutte bianche e uguali ma arredate con mobilio e svaghi. Le guardie sembrano persino un po’ più ‘umane’… Eppure, sono in prigione. Non esistono sbarre, eppure ci sono confini ben definiti; i volumi della libreria che arredano il mio spazio sono in realtà copertine ripiene di polistirolo; non posso scegliere di andarmene di lì, né chi frequentare – sono costretta a condividere i miei spazi con sconosciut*, o magari mi trovo sola – e soprattutto sono continuamente osservata.

Occhi che mi controllano, perché di lì non me ne posso andare. Occhi che definiscono le mie giornate – quando e quanto devo mangiare e bere, ad esempio – scandendole come un metronomo, indipendentemente dai miei desideri. Occhi che, soprattutto, spiano voyeuristicamente ogni centimetro del mio corpo e ogni mio movimento… perché io per quegli occhi sono intrattenimento, non un individuo.

Un posto del genere esiste, anzi ne esistono tanti. In questi posti, oggi, sono prigionieri animali non umani, catturati e reclusi al solo scopo di lucro. Vite rubate ai propri habitat, alle proprie famiglie, alle proprie relazioni, alla propria indipendenza, libertà e autodeterminazione: vite a perdere destinate alla dipendenza dagli umani con la scusa della “conservazione” – mentre al di fuori di questi spazi, la distruzione di habitat e biodiversità procede spedita e senza rimpianti. Vite alla mercé di persone spregevoli, che così tramanderanno, a persone in divenire (i bambini e le bambine la cui spontanea attrazione per il non umano e il selvatico diventa ottima occasione di guadagno), l’idea che i non umani sono a disposizione dei nostri capricci, che dal momento che possiamo disporne sono davvero inferiori agli umani… anche se in fondo fanno simpatia, e meritano un po’ della nostra benevolenza. Quando fa comodo e ce ne avanza un po’, naturalmente.

Solo un essere umano potrebbe cadere nella trappola di una passata di marketing che, con un po’ di belletto pubblicitario e qualche escamotage, tenta di far passare il concetto che un bioparco sia qualcosa di differente dall’ormai screditato zoo. Come se la forma avesse la capacità di cambiare la sostanza. Come se 4 scenografie di resina, un sito web colorato e dalle foto accattivanti – neanche si trattasse di un villaggio vacanze – rendesse più accettabile la deprivazione degli spazi naturali che si tenta pateticamente di riprodurre, il trauma della cattura dei selvatici e l’abominio della cattività. Come se una M, aggiunta ad una parola che ora non va più di moda (zoo non si usa più, è politically uncorrect, e le sbarre, oramai si è capito, è meglio che non si vedano), cambiasse una realtà di sfruttamento e prigionia, isolamento e sradicamento.

Gli animali non umani non si fanno fregare così facilmente, nemmeno noi dovremmo essere così miopi.

“Le insegne luminose attirano gli allocchi” diceva una canzone che ascoltavo molti anni fa, ma gli allocchi a cui si riferiva non erano sicuramente rapaci. Se c’è qualcosa che dobbiamo imparare da quei luoghi di prigionia che sono i bioparchi, è non accettare di essere anche noi prigionieri di scenari falsi, aguzzini sorridenti e occhi perennemente puntati su di noi. Anche il nostro mondo, quello popolato perlopiù da esseri umani, assomiglia sempre più ad un bioparco. Nel quale siamo costantemente controllat*, nel quale non siamo liber* di dissentire, nel quale altr* decidono che cosa è meglio per noi e ci danno tanti nuovi giocattoli per farci dimenticare quanta libertà abbiamo perduto.Ribellarsi a tutto questo, solidarizzare con chi è prigioniero – indipendentemente dalla propria specie di appartenenza – non dimenticare mai che la libertà e l’autodeterminazione sono irrinunciabili per tutti gli individui e che non esiste giocattolo in grado di risarcirne la perdita. Lottare per la libertà di tutti e tutte: ma proprio TUTTI E TUTTE, indipendentemente da razza, specie, genere.

Questo è quello in cui, come attivist*, dobbiamo impegnarci senza sosta se davvero vogliamo abbattere un sistema che si alimenta dell’altrui sfruttamento … E che si tengano le loro cortecce di pino!

feminoska

Il Fatto Quotidiano
07 02 2014

Raccapricciante. Secondo l’Aidaa (Associazione Italiana Difesa Animali e Ambiente) sono settecento i cani uccisi nel 2013 in Italia da minorenni, e quando si parla di “uccisi”, si intende volontariamente e con metodi brutali: bruciati vivi, uccisi a bastonate o impiccati.

Questo è il numero che emerge dei casi conosciuti, tratti dai mass media, giornali e servizi radio-televisivi, ma potrebbero anche essere di più. Anche se settecento paiono già sufficienti, soprattutto se si pensa che il cane è l’amico dell’uomo. Chissà cosa capita ai gatti

Il fenomeno risulta maggiormente diffuso nelle regioni del sud, al primo posto la Sicilia, con Palermo e Catania; seguono Puglia, Campania e Sardegna, mentre al centro nord (dove i casi sembrano comunque più rari) ai primi posti spiccano Lazio, Abruzzo e Veneto.

Sicuramente, uno dei motivi per cui vengono perpetrate tali barbarie sta nell’esibizionismo. Nello spettacolo che si offre ad un pubblico più o meno vasto, che può essere la cerchia degli amici ma anche e soprattutto i social network.

Desiderio di apparire, in una società in cui l’apparire conta ben più dell’essere, ed in cui comunque essere figli di buona donna non è un disvalore; educazione inesistente; vuoti da colmare: ci si può sbizzarrire, anzi, psicologi e sociologi hanno pane per i loro denti.

Ma, del resto, quale esempio gli viene dal mondo degli adulti? Forse basta guardare una puntata di Blob per capire.

Fabio Balocco

"I diritti degli animali vengono prima di quelli religiosi"

  • Venerdì, 21 Febbraio 2014 08:47 ,
  • Pubblicato in Flash news

Frontiere news
21 02 2014

"I diritti degli animali vengono prima di quelli religiosi", vietata la macellazione rituale in Danimarca.

Nella maggior parte dei paesi europei la macellazione è permessa solo se l’animale viene stordito prima di essere ucciso. Tuttavia le regole per la macellazione di musulmani (Halal) ed ebrei (Shechità) richiedono che l’animale debba essere cosciente prima di essere sgozzato e privato di tutto il sangue presente nel corpo. In Italia, pur essendo lo stordimento obbligatorio, le macellazioni rituali sono state autorizzate nel 1980 con un decreto dei ministeri della Sanità e degli Interni con lo scopo di tutelare la libertà di religione e l’ordine pubblico. Gli animalisti sostengono, però, che la tecnica che prevede lo sgozzamento ed il dissanguamento senza stordimento sia troppo cruenta e non rispetti la dignità degli animali. E il governo danese sembra aver dato loro ragione approvando una legge che di fatto vieta la macellazione Halal e Shechitah proprio perchè non prevede lo stordimento.

Nella religione ebraica la Shechitah è la macellazione degli animali al fine di utilizzarne alcune parti definite kosher (adatte) a fini alimentari, con l’esclusione del sangue, di alcune parti grasse e di altre parti dell’animale proibite. L’animale deve essere ucciso con rispetto e compassione da uno shochet (macellaio rituale) che taglia la gola dell’animale con un intervento rapido effettuato con una lama estremamente affilata. Il repentino calo della pressione sanguigna nel cervello causa l’immediata perdita di coscienza nell’animale. Secondo le fonti religiose ebraiche in queste condizioni l’animale sarebbe insensibile al dolore.

Ḥalal è invece una parola araba che significa “lecito” e intende tutto ciò che è permesso secondo l’Islam, in contrasto a ciò che è haram, proibito. La macellazione rituale halal deriva da quella ebraica anche se in alcuni paesi islamici come la Malesia è consentito stordire gli animali.

La Danimarca si aggiunge a Polonia, Islanda, Norvegia, Svezia e Svizzera tra i paesi europei che vietano la macellazione rituale. D’ora in poi le comunità musulmane ed ebraiche danesi saranno costrette ad importare dall’estero la carne, cosa che d’altronde già fanno da anni visto che in tutta la Danimarca non esiste un luogo dove si effettua la macellazione rituale. Proprio per questo in molti hanno protestato contro questa nuova legge, ritenuta inutile e ideologica. Altri hanno fatto notare come le tecniche di allevamento industriali siano molto più disumane della macellazione rituale e che forse sarebbe stato il caso di intervenire su questo prima di vietare una cosa che nella realtà non viene praticata. Il governo danese ha risposto con le parole del ministro dell’Agricoltura e dell’alimentazione, Dan Jorgensen: “I diritti degli animali vengono prima di quelli religiosi“.

Che si apra il dibattito…


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