Corriere della Sera
10 11 2014
di Livia Firth e Monique Villa
La schiavitù nella filiera di produzione è uno dei temi trattati nella prossima conferenza Trust Women, che si terrà a Londra il 18-19 novembre. La conferenza è organizzata dalla fondazione Thomson Reuters; “La 27esima ora” è tra i media partner.
Ogni giorno noi eseguiamo due semplici gesti: ci nutriamo e ci vestiamo. Ma se prestiamo sempre maggior attenzione al cibo che acquistiamo, quando si tratta di moda, invece, l’origine dei prodotti raramente suscita il nostro interesse.
Nel decennio passato, assieme ai capi di abbigliamento a poco prezzo, ci hanno venduto anche una frottola, e cioè che tutti noi abbiamo il sacrosanto diritto, in virtù dei principi della democrazia, ad acquistare una maglietta a due dollari. La verità è che non vi è nulla di democratico nell’acquisto di vestiti a prezzi così poco realistici. L’equazione è molto semplice: se vogliamo più capi in vetrina, gli operai dovranno produrli più velocemente. E se vogliamo pagare di meno, allora anche i costi di produzione – compresi i salari – dovranno calare.
Oggi assistiamo al fenomeno mondiale della “moda veloce”: le marche più diffuse richiedono un ricambio settimanale e incalzante di nuove collezioni, le scorte sono tenute volutamente basse per stimolare l’accaparramento impulsivo da parte del cliente e la catena dei rifornimenti si vede costretta a rispondere all’istante alle ultimissime tendenze, modificando la produzione nel giro di poche ore. Di conseguenza, i capi di vestiario costano sempre di meno, rimpinguando le casse dell’industria globale dell’abbigliamento, che viaggia su circa 3 trilioni di dollari all’anno.
L’anno scorso, il crollo del complesso manifatturiero di Rana Plaza in Bangladesh (nella foto) – una fabbrica che produceva capi per alcune delle marche occidentali più famose – ha causato la morte di 1.200 operai. È stato il più grave incidente sul lavoro degli ultimi 30 anni e ha contribuito a far luce sul costo umano della moda veloce, costringendo finalmente il pubblico a porsi la domanda cruciale: chi c’è dietro ai vestiti che indossiamo?
La risposta si ricollega spesso a una dinamica complessa, un meccanismo di sfruttamento che è alla base della filiera moderna della produzione e affonda le radici nella povertà, nell’incuria, ma soprattutto nella corruzione, il lubrificante che muove gli ingranaggi della schiavitù moderna. Secondo Walk Free, nel mondo oggi ci sono circa 30 milioni di esseri umani ridotti in stato di schiavitù, un numero altissimo, senza precedenti nella storia, equivalente pressappoco alla popolazione complessiva di due paesi come Australia e Danimarca. Purtroppo il traffico di esseri umani è un’attività criminale in forte crescita, del valore di circa 150 miliardi di dollari l’anno, più del Pil della maggior parte dei paesi africani, e tre volte i profitti di Apple.
La schiavitù è una tragedia globale, che va ben al di là dell’industria della moda. Alcune recenti analisi hanno evidenziato il dramma dei manovali nepalesi in Qatar, pagati 57 centesimi l’ora per 20 ore di lavoro giornaliero, e degli immigrati birmani in Thailandia che vengono venduti, pestati brutalmente e schiavizzati sui pescherecci d’altura per pescare i gamberetti che finiscono nei nostri piatti.
Oggi, se confrontiamo il Pil degli Stati ai profitti netti, le multinazionali risultano più grandi e potenti di molte nazioni. Eppure, queste gigantesche entità transnazionali sfuggono impunemente a qualsiasi controllo. La catena della produzione e della distribuzione si fa sempre più lunga e complessa, e sempre di più si delocalizza la responsabilità della certificazione a soggetti terzi, che in realtà non garantiscono un bel nulla. La realtà è che persino quando le multinazionali vogliono agire con correttezza, spesso non sanno che cosa accade realmente lungo le filiere della manifattura.
E poi c’è la corruzione. Molte fabbriche in Bangladesh, dove i lavoratori hanno perso la vita, come pure centinaia di fabbriche in India, dove giovanissime operaie sono costrette a lavoro coatto, sono state sottoposte a controlli da parte di “revisori etici”. Gran parte di queste revisioni altro non sono che una messinscena assai redditizia gestita da professionisti locali corrotti, ai quali le multinazionali hanno affidato il compito di eseguire i controlli.
Secondo le Nazioni Unite, sia i governi che le aziende sono chiamati a rispondere. In altre parole, gli Stati hanno l’obbligo di stabilire per legge un salario minimo equo, e le aziende sono tenute a rispettarlo. Ma la deliberazione dell’Onu stabilisce inoltre chiaramente che pur in assenza di una legislazione precisa in materia da parte dei governi, le aziende hanno sempre l’obbligo di rispettare il diritto di tutti gli esseri umani a un salario minimo per una vita dignitosa, e pertanto hanno il dovere di intervenire in tal senso.
Un’economia sempre più globalizzata esige l’introduzione di standard e regole internazionali. Se l’aviazione civile si è dotata di normative e standard di sicurezza a livello mondiale, che cosa ci impedisce di introdurre misure universali, atte a far sparire la schiavitù dalle filiere produttive?
Una regolamentazione globale, peraltro, non è l’unica risposta. Anzi, se volessimo usare il mercato come una forza positiva, i cambiamenti sarebbero molto più veloci e incisivi. I governi ci impiegano anni a varare leggi che poi forse non sanno nemmeno far rispettare, mentre le grandi multinazionali hanno la capacità immediata di introdurre una retribuzione equa e imporre prezzi di produzione realistici, come pure di cambiare fornitori in un solo giorno, creando un vero impatto nel mercato globale e risollevando le sorti di milioni di esseri umani, semplicemente scegliendo dove far produrre i loro capi e quanto pagare i loro operai.
Un salario dignitoso è un diritto umano ed è importantissimo che i consumatori siano informati dettagliatamente del potere che hanno tra le mani. Sapremo di essere sulla strada giusta quando un vestito a 10 euro ci sembrerà non più un affare, bensì un campanello d’allarme.
Internazionale
24 04 2014
Il 24 aprile 2013 in Bangladesh, nel distretto industriale di Savar, a 15 chilometri dalla capitale Dhaka, è crollato un palazzo di otto piani.
La struttura, chiamata Rana Plaza, ospitava cinque fabbriche tessili che costruivano vestiti anche per aziende occidentali.
Nell’incidente 1.130 persone hanno perso la vita, mentre circa 2.500 sono state tratte in salvo.
I superstiti spesso hanno danni fisici che non gli consentono di lavorare e fanno fatica a sopravvivere. Dopo l’intervento del governo e di alcune organizzazioni non governative e associazioni benefiche, a dicembre 2013 l’Organizzazione internazionale del lavoro ha annunciato che alcuni marchi internazionali di distribuzione, produttori e gruppi di lavoratori hanno accettato di collaborare per costituire un fondo di 40 milioni di dollari per la vittime. Finora però sono entrati nel fondo solo 15 milioni di dollari. Prima del 24 aprile 2014 ogni superstite del crollo avrebbe dovuto ricevere l’equivalente di 640 dollari di risarcimento.
Il crollo del Rana Plaza è stato il più grave incidente mai avvenuto in una fabbrica dal disastro di Bhopal, in India, del 1984.
In questa foto: Nilufar Yesmin, 36 anni, a Savar, il 21 aprile 2014. Nilufar non può lavorare a causa dei danni alla colonna vertebrale, ma non ha ricevuto risarcimenti.