Carcere, due piccoli passi nella giusta direzione

  • Martedì, 19 Maggio 2015 09:59 ,
  • Pubblicato in IL MANIFESTO

Il Manifesto
19 05 2015

Qual­siasi cosa voglia dire que­sto recu­pero del voca­bo­la­rio della Fran­cia rivo­lu­zio­na­ria, sem­bra impe­gna­tivo il pro­po­sito del mini­stro Andrea Orlando di met­tere in can­tiere gli «Stati gene­rali dell’esecuzione penale». Un pro­getto che debutta oggi nel car­cere mila­nese di Bol­late (forse, ahi­noi, l’unico isti­tuto «rifor­mato» dell’intero ter­ri­to­rio nazionale).

Gra­zie alla costante sol­le­ci­ta­zione del pre­si­dente Gior­gio Napo­li­tano e all’importante impe­gno dell’attuale mini­stro e del suo pre­de­ces­sore Anna­ma­ria Can­cel­lieri, dei Radi­cali e dell’associazionismo, l’Italia è uscita – sep­pure non defi­ni­ti­va­mente – dal cono d’ombra della con­danna euro­pea per il sovraf­fol­la­mento siste­ma­tico delle nostre prigioni.

I 54mila dete­nuti di oggi non sono pochi, ma non sono i 68mila di qual­che anno fa, e in car­cere gli spazi e le risorse comin­ciano a essere meno dram­ma­ti­ca­mente spro­por­zio­nate alle neces­sità della popo­la­zione dete­nuta, di quanto fos­sero fino a ieri.

Pur­troppo, però, le buone noti­zie si fer­mano qui. Nelle sma­glia­ture della rete ter­ri­to­riale di acco­glienza, grande incer­tezza aleg­gia ancora intorno alla sorte dei rico­ve­rati negli ex-ospedali psi­chia­trici giu­di­ziari e intorno al destino dei futuri inter­nati. Intanto, inter­rot­tasi la pres­sione dell’Europa, si è arre­stata la dimi­nu­zione della popo­la­zione detenuta.

Ne discen­dono due temi assai rile­vanti per gli Stati gene­rali: con gli ospe­dali psi­chia­trici giu­di­ziari in via di sman­tel­la­mento, non sarà il caso di rive­dere com­ples­si­va­mente i cri­teri di respon­sa­bi­lità penale e le misure di sicu­rezza, prima che le nuove Resi­denze regio­nali si tra­sfor­mino in pic­coli luo­ghi di più «deco­roso» degrado umano?

E, una volta ridotta la popo­la­zione dete­nuta attra­verso il con­te­ni­mento della custo­dia cau­te­lare, non si dovreb­bero adot­tare misure straor­di­na­rie di ridu­zione delle pene in ese­cu­zione? Di con­se­guenza, non è forse il momento di inter­ve­nire sulle poli­ti­che di cri­mi­na­liz­za­zione della mar­gi­na­lità sociale? Sono pro­prio quest’ultime, infatti, che hanno cau­sato in pas­sato l’esplosione del sistema peni­ten­zia­rio e ridotto dra­sti­ca­mente il ricorso ordi­na­rio alle misure alter­na­tive come moda­lità di ese­cu­zione delle pene.

Siamo certi che non man­che­ranno con­tri­buti in que­sta dire­zione, tra i molti che sono stati sol­le­ci­tati nell’ambito degli Stati gene­rali; e siamo certi che il mini­stro Orlando vorrà pren­derli in seria con­si­de­ra­zione per miglio­rare e affi­nare la sua pro­po­sta di riforma del sistema penale e peni­ten­zia­rio già all’esame delle Camere.

Ma le grandi riforme cam­mi­nano su pic­coli passi, e allora ci per­met­tiamo di pro­porre all’ordine del giorno degli Stati gene­rali e della quo­ti­diana azione del Dipar­ti­mento dell’amministrazione peni­ten­zia­ria due pic­cole cose, risol­vi­bili anche a legi­sla­zione vigente, che dareb­bero il segno di quel cam­bia­mento di men­ta­lità non più differibile.

A dispetto di due suc­ces­sive leggi dello stato, sono ancora decine i bam­bini ristretti in car­cere con le loro madri. L’individuazione delle case-famiglia esterne al cir­cuito peni­ten­zia­rio e delle altre moda­lità cau­te­lari o ese­cu­tive della pena fuori dalle ordi­na­rie sezioni deten­tive con­ti­nua a rilento, come se la limi­ta­tezza dei numeri giu­sti­fi­casse quelle deten­zioni ingiu­sti­fi­ca­bili e innaturali.

D’altro canto, nono­stante due auto­re­voli pro­nun­cia­menti della Corte di cas­sa­zione, non abbiamo più noti­zie dei dete­nuti con­dan­nati in via defi­ni­tiva per fatti di dro­ghe che avreb­bero potuto bene­fi­ciare della ridu­zione di pena con­se­guente all’abo­li­zione della legge Fini-Giovanardi.

Un anno fa il mini­stro Orlando, rispon­dendo a un’interrogazione par­la­men­tare, diceva che poteva trat­tarsi di circa tre­mila per­sone. Che fine hanno fatto? Sono stati tutti scar­ce­rati per fine pena? Ne hanno otte­nuto la ridu­zione o alcuni sono ancora in ese­cu­zione di con­danne dichia­rate ille­git­time? Anche qui, sap­piamo per­fet­ta­mente che a più di un anno dalla deci­sione della Corte costi­tu­zio­nale i numeri pos­sono essersi di molto ridotti, ma se anche fos­sero mille, cento, dieci o uno solo, è moral­mente accet­ta­bile la deten­zione di una per­sona sulla base di una sen­tenza ille­git­tima?
Ecco, se gli Stati gene­rali dell’esecuzione penale, insieme a molti buoni pro­po­siti e a pro­getti rea­liz­za­bili in tempi non biblici, met­tes­sero all’ordine del giorno que­sti due prov­ve­di­menti e li appro­vas­sero e appli­cas­sero entro ter­mini accet­ta­bili (sei mesi sono suf­fi­cienti, se c’è la buona volontà), que­ste assise della giu­sti­zia penale, saranno state proficue.

Carceri, lo sciopero scuote Syriza

  • Martedì, 07 Aprile 2015 09:34 ,
  • Pubblicato in Flash news

Atene Calling
07 04 2015

Ven­ti­due dete­nuti poli­tici che fanno lo scio­pero della fame – oggi è il 34 esimo giorno — per l’abolizione delle car­ceri spe­ciali e di un insieme di misure di emer­genza rischiano la morte, met­tendo a dura prova il governo di Ale­xis Tsi­pras. Sparsi in vari ospe­dali, cin­que di loro, secondo i medici, sono in fase di dere­go­la­riz­za­zione defi­ni­tiva delle loro fun­zioni orga­ni­che, uno ha già avuto due infarti, men­tre la vicenda, poco prima della pasqua orto­dossa, sta offu­scando la cro­naca sulle trat­ta­tive tra Atene e i cre­di­tori internazionali.

Tutto è comin­ciato il 2 marzo, quando una tren­tina di dete­nuti accu­sati o con­dan­nati per rapine, atten­tati ter­ro­ri­stici, tutti con­si­de­rati «peri­co­losi» dallo stato elle­nico, hanno deciso lo scio­pero della fame per pro­te­stare con­tro la «cro­ciata anti­ter­ro­ri­smo» degli ultimi anni, che pre­vede tra l’ altro la deten­zione dei fami­liari dei pre­sunti terroristi.

In un comu­ni­cato fir­mato da Dimi­tris Kou­fon­ti­nas, mem­bro dell’ orga­ni­zza­zione 17 novem­bre, e Kostas Gour­nas, mem­bro di Lotta Rivo­lu­zio­na­ria, ambe­due pri­gio­nieri nel car­cere spe­ciale di Domo­kos, si legge che i dete­nuti lot­tano per «l’abolizione di alcuni arti­coli del codice penale che si rife­ri­scono alle orga­niz­za­zioni cri­mi­nali e ter­ro­ri­sti­che, per la revoca della legge di emer­genza che pre­vede misure spe­ciali, l’abolizione dei tri­bu­nali spe­ciali e delle pri­gioni di tipo Gamma, sim­bolo dello stato d’eccezione dei pri­gio­neri politici».

La crea­zione delle car­ceri spe­ciali, da parte del vec­chio governo, fu la goc­cia che fece tra­boc­care il vaso della pro­te­sta con­tro un sistema peni­ten­zia­rio ana­cro­ni­stico e repressivo.

Mal­trat­ta­menti, pestaggi, tor­ture sono all’ordine del giorno nelle pri­gioni gre­che, tra le più sovraf­fol­lati d’Europa. Non solo: la man­canza del per­so­nale medico, la spor­ci­zia nelle celle e negli spazi comuni — non a caso epa­tite e altre malat­tie sono molto dif­fuse — ma soprat­tutto il rego­la­mento disci­pli­nare, che si fa sem­pre più rigido, danno l’immagine di un vero e pro­prio inferno, non degno né della sto­ria né della civiltà elle­nica. Non a caso ogni anno non sono pochi i dete­nuti che deci­dono di met­tere fine alla loro vita. L’ultimo è stato un paki­stano che si è impic­cato il 24 marzo pro­prio nello stesso car­cere dove sono rin­chiusi Kou­fon­ti­nas e Gournas.

Cen­ti­naia sono in attesa del pro­cesso, visto che secondo la legi­sla­tura greca, una per­sona può essere dete­nuta fino a 18 mesi prima di essere processata.

Che la situa­zione sia disu­mana lo dimo­strano i fre­quenti scio­peri della fame, le rivolte, le fughe, ma pure le sta­ti­sti­che e le con­danne della Gre­cia da parte della Corte euro­pea dei diritti umani. Nel 2014 i reclusi nelle pri­gioni gre­che, che al mas­simo pos­sono ospi­tare 9 mila per­sone, erano 12.700. Più della metà sono extra­co­mu­ni­tari e la mag­gio­ranza è arre­stata per­ché ha ten­tato di entrare clan­de­sti­na­mente in ter­ri­to­rio elle­nico oppure per delitti legati all’uso di droga. In con­di­zioni di lusso, invece, vivono i dete­nuti neo­na­zi­sti di Alba Dorata e per­so­naggi poli­tici con­dan­nati per corruzione.

Il governo di Anto­nis Sama­ras non solo non ha fatto nulla per miglio­rare la situa­zione, ma ha creato le car­ceri spe­ciali. Il pre­te­sto è stato l’evasione, nel 2014, di Chri­sto­dou­los Xiros, mem­bro del 17 novem­bre, con­dan­nato a sei erga­stoli e in car­cere dal 2003. La sua scom­parsa dopo un per­messo pre­mio per le feste di Natale (Xiros è stato arre­stato di nuovo pochi mesi fa) aveva pro­vo­cato dure rea­zioni tra i con­ser­va­tori e i socia­li­sti, fin­ché Sama­ras aveva deciso di costruire il primo car­cere spe­ciale, detto Gamma, a Domo­kos, una cit­ta­dina a una tren­tina di chi­lo­me­tri a nord di Lamia.

I dete­nuti sor­ve­gliati dai reparti delle forze spe­ciali della poli­zia e da mili­tari armati fino al collo, senza per­messi di libertà, con ore d’ aria quasi ine­si­stenti, senza la pos­si­bi­lità di comu­ni­care con il mondo esterno, con video­ca­mere, porte blin­date e fine­stre anti­pro­iet­tile, vivono iso­lati in un car­cere tutto nuovo ma medioe­vale, diven­tato il sim­bolo della repres­sione. Erano seguite pro­te­ste con­tro la riforma del sistema peni­ten­zia­rio da parte di migliaia di dete­nuti, mobi­li­ta­zioni orga­niz­zate da gruppi anar­chici e atti­vi­sti della sini­stra, ma Sama­ras era rima­sto fermo. Nel ten­ta­tivo di rac­co­gliere voti, poco prima delle ele­zioni del gen­naio scorso, il suo governo aveva pun­tato sulla sicu­rezza, men­tre Syriza aveva pro­messo la chiu­sura imme­diata del car­cere di tipo Gamma.

Ieri il mini­stro della Giu­sti­zia Nikos Para­ske­vo­pou­los ha pre­sen­tato un pro­getto di legge che pre­vede, tra l’altro, l’abolizione delle car­ceri spe­ciali. Per alcuni dete­nuti poli­tici e sim­pa­tiz­zanti della lotta armata non è suf­fi­ciente. Lo stesso pen­sano alcuni gruppi anar­chici — che ieri hanno rischiato di scon­trarsi con la poli­zia nel quar­tiere ate­niese di Exar­chia — per i quali Syriza «è sem­pre espres­sione del potere» e «nemico di classe».

Poche set­ti­mane fa gli anar­chici, in segno di soli­da­rietà ai dete­nuti in scio­pero della fame, hanno occu­pato per alcune ore la sede cen­trale di Syriza ad Atene. Mer­co­ledì scorso una ven­tina di atti­vi­sti, sono entrati nel “sagrato” del Par­la­mento, dove non ci sono più le bar­riere metal­li­che, per espri­mere la loro soli­da­rietà ai «com­pa­gni incar­ce­rati in lotta».

Una pro­te­sta del tutto paci­fica che ha pro­vo­cato una marea di rea­zioni. Per Nd e Pasok «lo Stato è stato tra­volto», men­tre nel governo ci sono due linee di pen­siero: c’è chi, come il por­ta­voce e il rap­pre­sen­tante par­la­men­tare di Syriza, con­si­dera l’atto «pro­vo­ca­to­rio e incom­pren­si­bile», men­tre per la Pre­si­dente del Par­la­mento Zoi Kon­stan­to­pou­lou «non c’è stata alcuna invasione».

di Pavlos Nerantzis

Il Manifesto
25.03.2015

«Colpevole» solo di avere partecipato con migliaia di coetanei alla protesta contro la Bce del 18 marzo. Anche Noam Chomsky chiede la liberazione dello studente della School of Oriental and African Studies di Londra

una cosa che da sem­pre lo Stato tede­sco non ama sia messa in discus­sione: lo Stras­se­nord­nung ovvero «l’ordine nelle strade». E non ha mai man­cato di ven­di­carsi, acca­nen­dosi verso chi avesse osato tur­barlo. Anche a costo di cer­care un capro espiatorio.

Pare che ciò stia acca­dendo a un cit­ta­dino ita­liano, dete­nuto ormai da una set­ti­mana a Fran­co­forte nel car­cere di Pre­un­ge­sheim. Si chiama Fede­rico Anni­bale ed è stu­dente di Master in studi dello svi­luppo presso la pre­sti­giosa School of Orien­tal and Afri­can Stu­dies (SOAS) dell’Università di Londra.

La sua colpa? Aver par­te­ci­pato, insieme ad alcune migliaia di coe­ta­nei, alla mobi­li­ta­zione di Bloc­kupy con­tro l’inaugurazione della nuova sede della Banca Cen­trale Euro­pea lo scorso 18 marzo.

Anni­bale è stato bru­tal­mente tratto in arre­sto — come denun­ciano gli amici che si tro­va­vano con lui — da un’unità spe­ciale della poli­zia tede­sca men­tre, a ore di distanza dagli scon­tri del primo mat­tino, si tro­vava seduto su una pachina lungo lo Zeil, la strada com­mer­ciale nel cen­tro di Fran­co­forte, a man­giare un panino. È stato tra­sci­nato via in manette e a tutt’oggi nep­pure i suoi legali hanno potuto sapere quali siano gli spe­ci­fici adde­biti che gli ven­gono contestati.

Sta di fatto che tutte le per­sone fer­mate (nella foto lapresse-reuters) durante le ini­zia­tive di Bloc­kupy sono state rila­sciate dopo poche ore, chi per evi­dente man­canza di prove a carico, chi su cau­zione, men­tre lo stu­dente romano resta l’unico dei mani­fe­stanti ancora nelle mani dello Stato tede­sco. L’impressione è che, dopo l’allarme pre­ven­tivo lan­ciato dalla Poli­zia dell’Assia e la suc­ces­siva cam­pa­gna media­tica, Anni­bale stia pagando la nazio­na­lità ita­liana scritta sul suo pas­sa­porto, e quindi il ten­ta­tivo di attri­buire ai «peri­co­losi Kao­ten arri­vati dal Sud» la respon­sa­bi­lità degli attac­chi alle forze dell’ordine. Per la libe­ra­zione di Fede­rico, capro espia­to­rio desi­gnato per il suc­cesso della pro­te­sta anti-austerity, si stanno intanto mobi­li­tando in molti. I suoi com­pa­gni denun­ciano il fatto che «a Fran­co­forte que­sta set­ti­mana si sia vista una sospen­sione delle libertà civili, con la deten­zione usata come misura puni­tiva, invece che come misura inve­sti­ga­tiva», aggiun­gendo che «que­sta vio­la­zione dei diritti umani è un’ulteriore testi­mo­nianza della com­pli­cità degli appa­rati di sicu­rezza dello Stato con il sistema eco­no­mico neoliberista».

«Soli­dale con lui» si è espresso Noam Chom­sky, che ha chie­sto a tutti «una forte e coor­di­nata pro­te­sta». Appello rac­colto subito dal coor­di­na­mento tede­sco della coa­li­zione Bloc­kupy, dalla reda­zione del maga­zine on line «Daily Storm» con cui Anni­bale col­la­bora e dalla SOAS Stu­dents’ Union, il sin­da­cato stu­den­te­sco dell’università lon­di­nese che denun­cia «un arre­sto poli­ti­ca­mente moti­vato e uti­liz­zato come stru­mento di inti­mi­da­zione», notando come ad ora «non sia stata nep­pure fis­sata la data di un’udienza».

Il caso di Fede­rico Anni­bale approda infine anche nelle aule par­la­men­tari. Il depu­tato di SEL Era­smo Palaz­zotto ha pre­sen­tato un’interrogazione urgente al mini­stro degli Esteri Gen­ti­loni, chie­dendo alla diplo­ma­zia ita­liana di «atti­varsi per la sua imme­diata scar­ce­ra­zione». Intanto, al Par­la­mento Euro­peo, è Eleo­nora Forenza (Altra Europa con Tsi­pras — Gue/Ngl) a sol­le­vare di fronte alla Com­mis­sione Ue una que­stione cru­ciale: se, di fronte alla gior­nata di lotta di Bloc­kupy, gli appa­rati di sicu­rezza della can­cel­liera Mer­kel abbiano o meno «rispet­tato i prin­cipi san­citi dalla Carta dei diritti fon­da­men­tali dell’Unione». Giu­sto per sapere se, a chi chiede un’Europa dei diritti sociali, si con­trap­ponga invece la costru­zione di un’Europa delle polizie.

 

"Meno detenuti, ma celle ancora troppo affollate"


Il calo dei detenuti, dopo tre anni di provvedimenti, è innegabile. Ma il sovraffollamento c'è ancora. E il sistema costa tanto, troppo. Con un tasso di affollamento del 118% e un costo per detenuto di 150 euro al giorno - di cui l'83% per il personale - il sistema penitenziario italiano ha bisogno ancora di un profondo rinnovamento, perché la reclusione resta "una risposta costosa e non efficace". È il messaggio che traspare con chiarezza dal Rapporto 2015 dell'associazione Antigone per i diritti delle persone detenute.
Luca Liverani, Avvenire...

L’Espresso
17 03 2015

Stefano Cucchi non è morto di fame e di sete. Per questo, secondo i familiari assistiti dall'avvocato Fabio Anselmo, il reato su cui deve indagare la procura di Roma è omicidio preterintenzionale. Lo scrivono in una memoria depositata pochi giorni fa in cui chiedono al procuratore capo Giuseppe Pignatone di valutare questa ipotesi di reato.

In pratica, sostiene la famiglia Cucchi, Stefano è morto per il pestaggio subito. Una tesi che le motivazione della sentenza di secondo grado della corte d'appello rafforzerebbe. «Questo verdetto offre concreti riscontri per affermare che nel caso di specie si tratta propriamente di omicidio preterintenzionale». In altre parole, qualcuno ha picchiato Cucchi subito dopo l'arresto: non voleva ucciderlo, ma quelle lesioni hanno poi provocato la sua morte.

Nel frattempo, parallelamente alla seconda inchiesta sulla morte del giovane geometra romano, la procura generale e i Cucchi hanno presentato il ricorso in Cassazione contro l'assoluzione degli imputati nel processo di secondo grado. I medici e le tre guardia penitenziarie prosciolte dalle accuse ora dovranno passare per la suprema Corte.

Il documento inviato al capo della procura capitolina, Giuseppe Pignatone, è invece un'analisi delle conclusioni a cui sono giunti i giudici di secondo grado. E sulla base di queste l'avvocato Anselmo darà battaglia. «La corte d'assise d'appello non ha mai negato che la morte di Stefano Cucchi è legata alle lesioni che ha subito e che sono attribuite agli agenti di polizia penitenziaria imputati. Per non riconoscere l'eccepita nullita bastava sostenere che la sua morte non ha alcun legame con le percosse subite», si legge nella memoria.

Per questo i giudici hanno trasmesso gli atti, così come richiesto da Anselmo durante il dibattimento, in procura. Lo hanno fatto con questa motivazione: «Al fine di accertare eventuali responsabilità di persone diverse dagli agenti di polizia penitenziaria giudicati da questa Corte». Ma non c'è solo questo nelle motivazioni della Corte.

Un passaggio riguarda la relazione dei periti del giudice di primo grado in cui sostenevano che la morte fosse dovuta a «inanizione», privazione, cioè, di acqua e di cibo. «La tesi dei periti deve ritenersi senza fondamento», scrivono nella memoria, e citano le parole del collegio giudicante: «La tesi della sindrome da inanizione seguita dal primo giudice non può essere condivisa, poiché si basa su elementi di fatto che non hanno trovato riscontro nelle risultante del processo».

I giudici di secondo grado quindi ritengono contrastante la tesi degli esperti con quanto emerso nel dibattimento. Contestano, per esempio, la misurazione del peso di Stefano: « La valutazione del peso all'ingresso in carcere deve considerarsi frutto di superficialità nelle rilevazioni e peraltro osserva la Corte che la morte per inanizione non può essere la conseguenza di un digiuno protratto per soli sei giorni, perciò gli stessi periti hanno dovuto sostenere che la sindrome era insorta già da diverso tempo, quanto meno a partire dal 2009».

Affermazioni, scrivono nel memoriale, non supportate da dati concreti. E nemmeno gli organi del geometra presentavano le caratteristiche tipiche di chi muore per fame e per sete. Non solo, anche per quanto riguarda l'insorgenza dei primi sintomi mancavano riferimenti bibliografici, e si faceva riferimento alla sola «esperienza personale di uno dei componenti del collegio peritale».

La sentenza di secondo grado e l'atto di accusa della difesa di Cucchi, dunque, indeboliscono la tesi del decesso per fame e sete di Stefano. E rafforzano l'ipotesi delle lesioni alla base della morte. Una pista che i familiari chiedono di seguire ai pm che hanno in mano il nuovo fascicolo

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