Huffington Post
19 09 2013
Il governo delle larghe intese ci ha abituato ai decreti omnibus, veri e propri zibaldoni dai contenuti più diversi. Lo ha fatto anche con il femminicidio che sta dentro un decreto "sicurezza" che contiene incomprensibilmente anche norme sulle proteste contro la Tav, sugli stadi, l'organizzazione delle Province, l'inasprimento delle pene per furti di rame. Un quadro ancora più indigeribile del solito.
E questo perché quando si vuole legiferare sul corpo delle donne il simbolico gioca un ruolo primario: pensare di utilizzarlo, come si fa in questo decreto "sicurezza", come specchietto per le allodole per far passare tutto il resto è molto grave. Per una ragione di forma e di sostanza: perché ci restituisce in maniera plastica l'idea di come la politica istituzionale in questi anni sia rimasta cieca e sorda davanti alla denuncia pubblica delle donne.
Colpevolmente. Perché, come hanno giustamente ribadito tutti i soggetti ascoltati nelle audizioni delle commissioni parlamentari, "nessuno poteva non sapere": i fatti di questi anni dimostrano in maniera inequivocabile che la violenza contro le donne non si contrasta con un approccio securitario, ma attraverso la prevenzione, la formazione e il rafforzamento delle strutture già esistenti. E invece in questo decreto non c'è la scuola, non ci sono i servizi sociali, non c'è la rete dei centri antiviolenza (che è in grave difficoltà, come sto verificando nel tour #restiamovive) e e dei centri per gli uomini maltrattanti (com'è stato sperimentato a Torino e in altre città italiane). Piuttosto è un insieme di maggiori poteri alla polizia giudiziaria e di aggravanti processuali.
Su un punto in particolare, e mi riferisco alla "irrevocabilità della querela" spacciata per una rivoluzione positiva, non si tiene in nessun conto della volontà della donna che, invece, viene lasciata sola ad affrontare quello che è molto simile a un "inferno". Perché gli uomini denunciati dalle donne sono compagni, mariti, padri. E quindi, se non si interviene sul sostegno economico, sull'assistenza e le si vincola, si crea un effetto contrario: farle decidere di non denunciare per la paura della finitezza di questo gesto. L'impossibilità di poter cambiare idea mette ancora più angoscia: la paura di "rovinare" le vite dei loro uomini.
Tutto ciò alla luce ha ancora più valore se si pensa che il 75% dei casi di femminicidio era stato preceduto da segnalazioni alle istituzioni. Cosa ha fatto lo Stato per queste donne? E come sarà accanto a loro se dovesse passare questo decreto "sicurezza"?
Bisogna allora intervenire a sostegno di chi deve operare ed opera insieme alle donne vittime di violenza per capovolgere questo sguardo. Sapendo che non è facile perché interviene dentro una relazione sentimentale. Anche per questo motivo sarebbe stato importante introdurre, già in questo decreto, l'educazione sentimentale nelle scuole (proposta di legge che ho già depositato), il potenziamento dei centri antiviolenza, l'istituzione dei centri per uomini maltrattanti, il rafforzamento delle politiche sociali territoriali e la formazione continua per magistrati e forze dell'ordine. Tutti strumenti che intervengono da una parte sulla prevenzione del fenomeno e dall'altra sulla protezione della vittima nel suo percorso di liberazione dalla violenza.
È necessario allora - come chiedono anche tutte le donne impegnate contro la violenza - cambiare radicalmente questo decreto. Non potremo votare un provvedimento in cui violenza sessuale, stalking, violenza di genere sono usati come se fossero sinonimi. Senza neppure distinguere livelli e i piani del linguaggio. Oppure continueremo, come sempre, a non ascoltarci e a parlare con lingue incomprensibili e avremo soltanto l'ennesima - e inutile per le donne - legge spot per questo governo.
Celeste Costantino
Antiviolenza
17 09 2013
Si parla molto, e se ne parlerà ancora, del decreto sul femminicidio che la prossima settimana approda in aula. Se ne parla perché finalmente c’è una partecipazione della società civile che lavora con indefessa volontà alla costruzione di un percorso politico e che non solo è riuscita a far mettere in agenda la questione della violenza di genere da un parlamento che ha ratificato la Convenzione di Istanbul subito dopo il suo insediamento, ma vuole partecipare direttamente a questo processo di costruzione. Una società civile fatta soprattutto di donne che non si sono svegliate una mattina e si sono accorte che esisteva la violenza di genere, ma che da tempo lavorano su questo e soprattutto hanno alle spalle il pensiero e la pratica femminista che rende possibile, oggi, un livello di discussione politico più alto, e che incoraggia le stesse istituzioni su quello che si deve fare. La violenza maschile contro le donne o femminicidio – come la si vuol chiamare basta che la si nomini in maniera contestuale e senza confondersi – non nasce dal nulla, non proviene da una improvvisa illuminazione, ma da una elaborazione politica e culturale, che non può essere trascurata. E questo a partire dai centri antiviolenza che in Italia sono stati messi in gran parte in piedi dalle donne del movimento femminista italiano, donne che hanno voluto affrontare un fenomeno strutturale attraverso la pratica e la politica delle donne stesse, costruendo sapere e professionalità sull’esperienza. Con circa 120 centri antiviolenza sparsi su tutto il territorio nazionale, di cui 64 riuniti della rete DiRe (Donne in rete contro la violenza), l’Italia non è un modello da seguire, anche se in realtà il lavoro di questi centri potrebbe insegnare molte cose.
La scorsa settimana la rete “DiRe”, che è stata ascoltata dalle Commissione Giustizia e Affari costituzionali della camera sul DL femminicidio, ha mosso forti critiche al decreto stesso, facendo poi sapere, attraverso un suo comunicato, che “DiRe ha evidenziato come nel decreto legge manchi qualunque riferimento al riconoscimento del ruolo che i centri antiviolenza svolgono da anni in Italia grazie ad interventi e a progetti di contrasto alla violenza contro le donne”. Del decreto sul femminicidio, la Rete non condivide “il riferimento ad un Piano nazionale straordinario di contrasto della violenza contro le donne”, in quanto “gli interventi nei confronti del fenomeno non debbono rispondere a misure eccezionali perché la violenza contro le donne non è un fenomeno straordinario ma culturale che ha sempre avuto ampia diffusione”.
“Il decreto legge – scrive DiRe – persegue una politica di intervento emergenziale del problema, non risponde alle richieste della Convenzione di Istanbul recentemente ratificata dal Parlamento, di svolgere un intervento sistemico e di realizzare delle politiche globali ed integrate per affrontare il problema della violenza maschile”. E per questo la Rete chiede al Governo e al Parlamento “il rinnovo ed il miglioramento del Piano Nazionale esistente, e di attuare pienamente la Convenzione di Istanbul, riconoscendo in modo inequivocabile il valore storico-culturale e professionale dei Centri antiviolenza appartenenti a D.i.Re e il loro coinvolgimento in tutti i tavoli tecnici che si occupano di violenza, e lo stanziamento di specifici e adeguati fondi definiti nella legge di stabilità”. Insomma, agli stessi centri antiviolenza il decreto non piace, tanto che nella stessa relazione all’audit la presidente Titti Carrano, ha precisato che non solo questo DL “non risponde a quanto richiesto dalla Convenzione di Istanbul” ma che i centri si aspettavano ”una legge organica e finanziata, che affrontasse tutti gli aspetti civili, amministrativi, penali, con un adeguato sostegno ai Centri antiviolenza”, mentre questo DL “contiene solo norme penali e ha un contenuto eterogeneo” e che se “il ricorso allo strumento penalistico è stato finora la forma privilegiata per contrastare la violenza contro le donne, non c’è alcuna relazione tra questa politica legislativa e la libertà delle donne”.
Ma che cosa è veramente un centro antiviolenza, qual è il suo percorso e la sua politica, e soprattutto come deve essere strutturato e perché è così importante che sia fatto in un certo modo? Insomma, perché i centri antiviolenza sono importanti ma non sono tutti uguali.
L’occasione per capirlo in profondità è stato l’incontro con Luisanna Porcu* (di cui riporto qui sotto l’intervento), durante il convegno “Al sicuro dalla paura, al sicuro dalla violenza”, il 2 luglio 2012 a Nuoro (organizzato dall’associazione Rete rosa e dal consorzio Satta). Un evento moderato dalla scrittrice Michela Murgia, e con interventi di Barbara Spinelli, avvocata dei Giuristi democratici, e la sottoscritta, in qualità di giornalista, in cui si spiega non solo il funzionamento dei centri antiviolenza di DiRe ma anche la loro nascita, da dove vengono e cosa hanno fatto finora.
Il ruolo dei centri antiviolenza a sostegno delle donne
di Luisanna Porcu*
“Buon pomeriggio a tutte e a tutti, con questo mio intervento mi propongo di illustrare qual è il ruolo dei Centri Antiviolenza a sostegno delle donne. In Italia esistono circa 100 Centri Antiviolenza, in questo intervento mi riferisco ai 64 Centri afferenti all’associazione nazionale D.i.Re (Donne in rete contro la violenza), degli altri non conosco le metodologie e le teorie a cui fanno riferimento. I Centri nascono in Italia agli inizi degli anni ’90. Fino a quel momento le donne non avevano dei luoghi dove rivolgersi per essere ospitate o semplicemente ascoltate e sostenute nei propri diritti. L’origine dei Centri si colloca nei gruppi di autocoscienza femminista ed è stato proprio merito del movimento femminista se la violenza domestica è stata portata alla luce, nominata e definita nella sua complessità, e se sono state create strutture di aiuto alle donne e posta la questione alle istituzioni come un vero e proprio problema sociale. Negli anni 90 sono nati in Italia 70 Centri Antiviolenza, ci siamo riuniti nel 1998 a Ravenna per creare una piattaforma di pratiche condivise. In questi anni i Centri hanno dibattuto su come creare servizi indipendenti e attenti a rispondere ai bisogni delle donne e dei bambini, vittime della violenza maschile, ma soprattutto come obbligare le istituzioni a mettere al centro della loro agenda politica azioni contro la violenza. I Centri non sono infatti attivi solo per l’accoglienza, non sono servizi, rappresentano luoghi di progettualità e protagonismo femminile; sono veri e propri laboratori sociali dove si produce sapere ed esperienza e dove, grazie alla sinergia delle donne, si è costruita in anni ed anni una cultura nuova.
Alla base del lavoro dei centri ci sono alcuni punti cardine. Primo: parliamo di violenza di genere, quindi di violenza contro le donne da intendersi come qualsiasi atto di violenza sessista, che produca o possa produrre danni o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche, ivi compresa la minaccia di tali atti, la coercizione o privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica che nella vita privata. Secondo: il personale è tutto femminile, perché una donna che ha subito una violenza da un uomo, nel momento in cui chiede aiuto, interpella nell’altro una rappresentazione di se stessa, quindi di una persona di sesso femminile. In teoria si parla di relazione sessuata. Il concetto di violenza contro le donne ha a che fare con le relazioni di coppia, con le rappresentazioni sociali dei rapporti di genere e con il potere. Dobbiamo partire da questo concetto per capire quanto è differente essere donne o uomini nella propria professione, perché non è vero che esiste una neutralità nel ruolo rivestito (avvocata/o, psicologa/o, ecc.). Terzo: la violenza alle donne è un problema strutturale e non un’emergenza, un problema politico-culturale. Cosa significa che è un problema politico? Significa che affrontare il problema della violenza sulle donne diventa legittimo solo in un contesto che mette in discussione la subordinazione all’uomo di donne e bambini. Quarto: il rifiuto dell’atteggiamento di responsabilizzazione o colpevolizzazione delle donne. Infine, noi non lavoriamo mai con il maltrattante: la violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani, un crimine e noi lo affrontiamo come tale, quindi lavoriamo solo con chi la subisce e mai, in nessun caso, con il maltrattante.
Per la metodologia si parte dalla considerazione che il Centro Antiviolenza è un luogo di transito verso l’autonomia, un luogo per sottrarsi alla violenza, è un luogo di avvicinamento alla libertà. Questo concetto implica il superamento di approcci tecnici standardizzati e aprioristici, a favore di un metodo che parte dal dare credito al racconto di chi soffre e dalla fiducia costruita nella relazione. Le donne che subiscono violenza, la violenza stessa e le sue conseguenze, così come i sintomi, non possono essere considerate un oggetto a cui sovrapporre le professionalità. L’operatrice, la psicologa, la legale, varcando la porta del Centro sono capaci di spogliarsi del loro ruolo, proprio per utilizzare al meglio, nella relazione, saperi e professionalità. Su questa base instauriamo un rapporto di reale reciprocità con la donna, che in quel momento è in una posizione fortemente asimmetrica, infatti si presenta non con un ruolo professionale o sociale, ma solo con il disagio e la sofferenza. Tra noi c’è una disparità che però è positiva: non siamo uguali ma possiamo esserci utili, noi non diamo forza alle donne ma ci scambiamo la forza. Le donne che hanno subito violenza sono in stato temporaneo di disagio, sono cioè donne che stanno male oggi ma potranno stare bene domani: quindi non facciamo mai una fotografia sempre negativa, sempre limitante, sempre come un destino delle donne. La donna che si rivolge a noi è un soggetto agente, è attrice principale del suo percorso di uscita dalla violenza, un percorso che la porta a riprendere in mano la sua esistenza. L’equipe del centro struttura con lei e non per lei, un progetto di ridefinizione, riorganizzazione della propria vita, e mai ci sostituiamo a lei. Il tipo di aiuto fornito alla donna non è di tipo assistenziale, in quanto la sola assistenza anche se fornisce risposte immediate, lascerebbe la donna in una situazione passiva. Lo scopo del nostro lavoro è invece quello di aiutare la donna affinché aiuti se stessa a ritrovare il coraggio e la forza per costruirsi un progetto di vita futura concreto che tuteli se stessa e suoi figli. Un lavoro che parte dall’analisi della propria storia personale, dei sensi di colpa, del vissuto di violenza al fine di riacquistare un livello di autostima e assertività tali che le permettano di gestire e superare le difficoltà.
Nello specifico il centro di Nuoro fa accoglienza telefonica, che in genere è il primo contatto perché il telefono è un mezzo molto efficace per superare il senso di vergogna connesso alla violenza e permette di rimanere anonime. Ed è durante la prima telefonata che cerchiamo di “agganciare” la donna trasmettendole fiducia credibilità e dimostrandole che conosciamo a fondo il problema. Questo aspetto motiva la donna a presentarsi al centro a fare dei colloqui. Facciamo accoglienza presso il Centro, che consiste in una serie di colloqui di durata variabile, in base alle esigenze delle donne: ci sono donne che vengono per un anno intero a cadenza fisse e donne che frequentano il centro qualche mese o qualche volta. I colloqui hanno l’obiettivo di aprire uno spazio alla donna per parlare di sé, per elaborare il suo vissuto di violenza e superare il danno da trauma. E la metodologia prevede che ogni azione (attivazione di servizi, denunce, separazione, ecc.) venga intrapresa solo con il consenso della donna e che si lavori sempre per il suo vantaggio secondo i presupposti della protezione, della riservatezza e anonimato e del non giudizio. L’ospitalità nella casa di accoglienza, in base alla legge regionale che prevede 120 di gratuità, valutabili dall’equipe, e i progetti con i bambini vittime di violenza assistita. Le donne molto spesso hanno infatti dei figli che a loro volta sono delle vittime di violenza diretta o assistita. Il Centro mette a punto dei percorsi di riparazione del danno per i bambini e per le donne come “madri”, in quanto la violenza danneggia fortemente anche la relazione madre-bambino. La letteratura scientifica sul trauma afferma che come un’esperienza negativa danneggia il funzionamento di un bambino, altre esperienze positive e riparative, possono ridare una funzionalità corretta a delle aree che si sono messe a lavorare scorrettamente. È da qui che parte la nostra metodologia di lavoro, mettiamo quindi a punto azioni di buon trattamento come alternativa multiforme al maltrattamento all’infanzia, partendo dal presupposto che per contrastare il maltrattamento non basta individuarlo e fermarlo, come spesso si fa, ma bisogna sostituirlo con altro. Purtroppo, molto spesso, i bambini all’interno del centro fanno percorsi eccellenti di elaborazione del danno, sperimentano altri modelli di pensiero e di comportamento, stabiliscono un forte rapporto di fiducia e alleanza con la madre, unico genitore protettivo, ma poi c’è lo scontro con la realtà giudiziaria dove, per legge, nei casi di separazione l’affido è condiviso. Nei casi di violenza non dovrebbe essere così, ma poiché in Italia molto spesso si confonde la violenza con il conflitto, quando le donne chiedono la separazione viene contemplato l’affido condiviso anche se il padre è violento: eventualità che mette a rischio il bambino che verrà usato per continuare a maltrattare ed esercitare potere e controllo sull’ex partner. Casi in cui nessuno sembra tenere in considerazione che la violenza alle madri e ai bambini non si ferma con la separazione tanto che, quando i bambini chiedono di non vedere più il padre, ci sono psicologi, psichiatri e avvocati che si appellano alla cosiddetta PAS (Sindrome di alienazione parentale): una “sindrome psichiatrica” inventata dallo psichiatra americano Richard Gardner, il quale afferma che il bambino malato di Pas è un bambino manipolato dalla madre nel rifiutare il padre, e che eventuali denunce di abusi e maltrattamenti paterni, in caso di Pas, sarebbero falsi. La terapia che Gardner propone è una terapia coatta, dove il bambino deve essere allontanato dalla madre (genitore alienante) al fine di agevolare il rapporto con il padre (genitore alienato). Il bambino per Gardner non deve essere creduto e prescrive al terapeuta di ignorare le sue lamentele e di adottare tecniche per forzare il bambino a vedere il padre, come per esempio dirgli che la madre andrà in prigione finchè lui non si deciderà ad incontrare il padre. Tale sindrome non è provata da alcuna ricerca scientifica, non è mai stata integrata nelle varie edizioni dei DSM e l’associazione degli psicologi americani mette in guardia gli psicologi forensi dall’utilizzarla. In Italia però si fanno ancora molte diagnosi di PAS.
Ma chi sono le donne che si rivolgono al centro? Nel 97% dei casi si tratta di donne che hanno subito violenza in famiglia dal proprio partner o ex, e sono donne che hanno subito violenza fisica, psicologica, economica, sessuale o stalking. Provengono da tutte le classi sociali e con differenti livelli di istruzione e molte hanno un lavoro, mentre altre lo avevano ma sono state costrette a lasciarlo perché il proprio partner non le permetteva di andarci. Tuttavia c’è da chiarire una volta per tutte che anche l’indipendenza economica delle donne non costituisce una garanzia di libertà dalla violenza, vi sono meccanismi psicologici e culturali complessi per cui una donna rimane con il partner violento.
E chi è il maltrattante? Il maltrattante è un uomo normale, con una vita sociale e relazionale normale, nel 99% dei casi con un lavoro. L’uomo violento per sfuggire alle sue responsabilità, tenta con qualunque mezzo di favorire il silenzio della donna ma se non riesce ad ottenerlo attacca la credibilità della stessa: è pazza, non è vero, si è inventata tutto, mi vuole rovinare perché le ho detto che non la amo più, ecc.
Naturalmente nel centro si svolgono attività di formazione, prevenzione e sensibilizzazione, ma anche gruppi di auto e mutuo aiuto, interventi per le donne migranti, consulenza legale, orientamento e accompagnamento al lavoro, attività di rete, raccolta ed elaborazione dati, raccolta di materiale in tema di violenza. Mentre le figure professionali presenti sono l’operatrice di accoglienza, la psicologa, l’assistente sociale, la collaboratrice amministrativa, educatrici per le bambine/i, legali, ricercatrici/documentariste, progettiste e formatrici (alcune figure sono volontarie altre hanno regolari rapporti di lavoro).
Ma a essere continuamente messa a dura prova è anche la credibilità di chi lavora per far emergere e contrastare la violenza sulle donne: ci troviamo molto spesso sottoposte a un isolamento professionale e a una squalifica personale. Per esempio io molto spesso non vengo nominata con il mio nome ma come la figlia di Antonietta Davoli, come a voler minimizzare o annullare le mie competenze professionali e attribuire il mio ruolo solo perché figlia di una femminista che prima di me ha lavorato per le donne – quindi in qualche modo figlia d’arte – e non perché donna capace di lavorare per altre donne a prescindere da chi è o non è mia madre.
In questi 17 anni di lavoro la solitudine professionale è stata svalutante e a tratti veramente pesante da tollerare, ma poiché partiamo dal presupposto che per ogni donna offesa siamo tutte parte lesa, vedere le donne che possono scegliere della loro vita ci ha fatto arrivare sino ad oggi, fiere di essere donne che lavorano per altre donne. Grazie”
*Luisanna Porcu è presidente di Rete rosa di Nuoro e socia della Rete nazionale dei centri antiviolenza “DiRe”.
Huffington Post
12 09 2013
I telefoni squillano in continuazione. Una professionista quarantenne chiama perché è tormentata dalle telefonate di uno sconosciuto che ora vorrebbe trascinare in tribunale per stalking. Una casalinga invece si abbandona ai singhiozzi: picchiata da anni dal marito già denunciato alla polizia, ora spera di trovare aiuto in un centro antiviolenza. E poi una madre anziana che vorrebbe sapere come aiutare il figlio a liberarsi da una ex fidanzata che pretende di ricucire una relazione a suon di minacce e pedinamenti.
Il centralino del 1522, il numero governativo contro la violenza di genere, si trova in una città che deve rimanere segreta.
“L'ultima minaccia seria l'abbiamo ricevuta lo scorso weekend” ci racconta una psicologa che chiameremo Maddalena, una delle due incaricate a rispondere al telefono durante la nostra visita. Era la telefonata di un uomo in collera che promette di trovare l'indirizzo e denunciare il servizio. E Maddalena, come le altre professioniste che ruotano giorno e notte a turni di otto ore, ha compilato come ogni volta il modulo per registrare le molestie.
Disponibile ventiquattr'ore su ventiquattro comprese le festività, il 1522 capta come un radar sottomarino quello che per lungo tempo rimane invisibile perché nascosto dalle mura domestiche o dalla apparente normalità delle relazioni famigliari e sentimentali. E basta dare una cifra per comprendere l'entità del fenomeno: dal 19 dicembre scorso, ossia da quando il 1522 è gestito dall'associazione Telefono Rosa, quei telefoni sono squillati 46mila volte, circa 170 al giorno. Tutti gli squilli finiscono in questa unica stanza dove tre-quattro operatrici per turno rimangono incollate alla cornetta.
“La maggioranza sono donne che vogliono ottenere informazioni per uscire da storie di abuso di genere”, spiega Silvia, collega di Maddalena. E dunque alle chiamanti viene fornito l'indirizzo e il numero di telefono della struttura consona più vicina: un'associazione di donne che può fornire assistenza legale e psicologica, una caserma dei carabinieri, un Pronto soccorso, i servizi sociali, un istituto religioso che accoglie persone in difficoltà. Alla signora preoccupata per il figlio vittima di stalking viene data l'indicazione di uno dei rari centri di ascolto per uomini maltrattati.
Una donna chiama proprio mentre il marito la sta riempiendo di botte. Si chiude a chiave in camera da letto oppure nel bagno e digita tremante il 1522. E allora le operatrici si collegano direttamente con le forze di polizia e inviano una volante all'indirizzo della vittima. Salvataggi in extremis dei quali spesso non conoscono la seconda parte, se non quando quegli stessi agenti allertati richiamano per raccontare il finale.
L'apparecchio squilla nuovamente. Come poi racconterà Silvia, era un signore che segretamente è uscito di casa, si è seduto in macchina e con le lacrime agli occhi ha chiamato perché la figlia è stata violentata ma non vuole andare in ospedale per il referto, né vuole denunciare. Poco più tardi, una ragazza telefonerà per esporre il suo problema con l'ex fidanzato che non vuole rassegnarsi alla fine della storia d'amore. E allora il consiglio, fornito con gentilezza e professionalità, è quello di troncare ogni contatto con l'uomo. La ragazza però dice che questo le sembra impossibile e preferisce prendere tempo. “Cerchiamo di spiegare che gli stalker sono come vampiri che si nutrono del fastidio che provocano”, dicono le psicologhe. “Perché non tutte le donne che chiamano comprendono il pericolo che corrono e non sempre vorrebbero denunciare”.
Le operatrici rispondono mentre siedono davanti a un monitor. Sono abituate a ritmi sostenuti, ma la vera difficoltà è quella di ascoltare storie dolorose con empatia senza cedere al pietismo. Ogni 40 giorni possono chiedere la visita di un professionista psicologo supervisore al quale esporre i dubbi e le ansie.
A coloro che chiamano non viene mai chiesto il nome e cognome, e nemmeno la città di provenienza, una delicatezza che consente alle vittime di sentirsi sicure. Ogni giorno in una fascia oraria precisa interviene una psicologa che conosce l'inglese, il francese l'arabo o lo spagnolo per accogliere le richieste delle straniere: sono queste le donne più impaurite perché temono che denunciando un marito violento potranno perdere l'affidamento dei figli.
Per ognuno dunque viene compilato un modulo nel quale vengono raccolti dati essenziali: la fascia d'età anche dell'autore della violenza, il tipo di relazione, i sentimenti legati agli abusi, se alle botte assistono anche i bambini della coppia.
“È proprio questo a spingere molte donne a chiamarci”, racconta Maddalena. “Il fatto di venire picchiate quasi di nascosto, lontano dagli occhi dei famigliari, viene sopportato anche per molto tempo. Quando però la violenza si trasferisce anche sui figli, o viene praticata davanti ai bambini, allora scatta una molla”.
Rispettando comunque la privacy degli utenti, vengono così raccolte migliaia di storie, ognuna diversa, piccoli tasselli di un mosaico terribile. “Chiamano donne di tutte le età, ricche, povere, istruite, non istruite, dalle città del Nord e dalle città del Sud, giovani, anziane”, riassumono le operatrici abituate a ricevere a volte chiamate che non riguardano direttamente la violenza di genere: anziane maltrattate dalle badanti, genitori soli alle prese con un figlio malato psichiatrico, persone disagiate in cerca di ascolto. Racconti che finiscono nei moduli, poi inviati periodicamente al Dipartimento per le Pari Opportunità, senza che il governo in questi anni abbia pensato di farne una statistica esaustiva.
“Se queste informazioni venissero pubblicizzate racconterebbero cos'è davvero la violenza domestica”, commenta la presidente del Telefono Rosa Gabriella Moscatelli. “Il 1522 è un servizio unico in Europa ma non possiede ancora un sito autonomo. Bisognerebbe dargli maggiore centralità e maggiori finanziamenti per renderlo ancora più utile”.
Moscatelli, esperta ormai decennale sulla violenza di genere, è appena tornata dall'audizione alla Commissione giustizia della Camera dove è cominciato l'esame del cosiddetto “dl femminicidio” presentato dal governo nei primi giorni di agosto e che piace molto poco alle associazioni impegnate da decenni contro la violenza domestica. Quanto aiuterà questo decreto un servizio come il 1522? La risposta di Moscatelli è pronta: “Nulla”.
Laura Eduati