Il Fatto Quotidiano
16 05 2013
I media lanciano, periodicamente, allarmi e i politici cavalcano l’onda proponendo soluzioni improbabili (come l’introduzione del braccialetto elettronico per le vittime di stalking, ma la verità è che in Italia non esiste un’emergenza per quanto riguarda la violenza contro le donne. La situazione, infatti, è strutturalmente grave. Per affrontare il problema nella sua complessità, Dire (Donne in rete contro la violenza) ha organizzato il convegno “Dai centri antiviolenza azioni e proposte per rafforzare la libertà delle donne” che si terrà oggi 16 maggio a Roma. Interverrà anche la presidente della Camera Laura Boldrini. Una presenza importante, visto che l’obiettivo di Dire è proprio il confronto con le istituzioni. “La violenza è una costante di tutte le società in cui predomina ancora un modello patriarcale nella relazione tra i sessi e in famiglia. Non è un fatto privato – spiega Titti Carrano, presidente di Dire – Quel che serve è l’assunzione di responsabilità, con conseguenti risposte efficaci, da parte dello Stato”
I dati raccolti dai centri antiviolenza aderenti a Dire – quindi parziali rispetto al fenomeno nel suo complesso – illustrano la gravità della situazione: nel 2012 sono state circa 15mila le donne che hanno chiesto aiuto perché vittime di abusi da parte di uomini. Il loro numero è in aumento rispetto agli anni scorsi: nel 2011 sono state 13.140, nel 2010 13.696, nel 2009 13587, nel 2008, 11.805. La maggioranza di queste donne, quasi il 70 per cento, sono italiane e nel 90 per cento dei casi hanno subito maltrattamenti all’interno della famiglia.
Per cambiare la situazione servono interventi mirati e strutturati. Come quelli previsti dal protocollo di intesa tra Anci (Associazione nazionale comuni italiani) e Dire che verrà stipulato oggi, durante il meeting, e che stabilisce una collaborazione con gli enti locali per sviluppare azioni e progetti di prevenzione e contrasto alla violenza contro le donne. Tra questi: inserimento dei centri antiviolenza nei piani di zona, formazione della polizia municipale, elaborazione di linee guida rivolte agli operatori del servizio sociale. Inoltre l’Anci si impegna a sensibilizzare i Comuni ad esaminare attentamente le pubblicità invitandoli a non dare l’autorizzazione a cartelloni che diano un’immagine mercificata o denigratoria delle donne.
Verrà poi affrontata anche la questione dei dati sulla violenza contro le donne: come ha più volte denunciato anche Linda Laura Sabbatini dell’Istat, che sarà presente al convegno, non esistono rapporti adeguati. E la carenza di numeri rende difficile la conoscenza esatta del fenomeno. Un deficit tutto italiano visto che la maggior parte dei Paesi Europei invece monitora capillarmente la situazione. Ci distinguiamo dal resto dei Paesi civili anche per quanto riguarda la quantità dei centri: il Consiglio d’Europa ha raccomandato 1 centro antiviolenza ogni 10mila persone, ma noi ne abbiamo in tutto 130 e soltanto meno della metà hanno la possibilità di ospitare donne.
L’economista Antonella Picchio, che interverrà nell’arco della giornata, sottolinea che per capire la violenza fisica e psicologica contro le donne è necessario svelare alcuni aspetti profondi della realtà del sistema economico. “Viviamo in un sistema che è sostenibile soltanto grazie al lavoro sommerso delle donne, che viene fatto nel chiuso delle case – dice Picchio – Sono ancora le donne, infatti, che si prendono cura dei compagni e mariti, maschi adulti che abusano delle loro energie per risolvere i problemi della vita quotidiana. Quando le donne si ribellano a questo sistema e cercano una maggiore autonomia alcuni uomini non reggono la propria insicurezza e mettono in atto molte forme di violenza, fino alle più estreme”. Ci troviamo, secondo Picchio, di fronte a una drammatica questione maschile, inserita in un sistema economico in cui responsabilità e risorse non vengono suddivise equamente. Non ci sono quindi le condizioni perché le donne possano, quotidianamente, lavorare e vivere in modo sostenibile.
Giovedì 16 maggio, ore 9.30
Istituto della Enciclopedia Italiana
Piazza della Enciclopedia Italiana, 4 - Roma
Programma
Il Fatto Quotidiano
15 05 2013
“Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano (Cadmi) che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo i dati presentati il 14 maggio, durante la conferenza stampa alla Libreria delle donne, su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia (articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di archiviazione; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto. Una tendenza che si conferma costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state 1.070 richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce, 542 sono state archiviate.
“La tendenza è di archiviare, spesso ‘de plano’, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di ‘conflittualità familiare’ – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano”. Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: “Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio”.
Scarsa anche la presa in considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo 612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era migliore: 360 richieste di archiviazione e 324 archiviazioni su 867 denunce nel 2011, 235 richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783 denunce nel 2010. I numeri forniti dalla Cadmi sono consultabili sul sito della procura di Milano, nel rapporto “Bilancio di responsabilità sociale 2011-2012”.
Come stupirsi, dunque, che ci sia poca fiducia nella giustizia da parte delle donne? Manuela Ulivi, presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in attesa di separazione, non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a vivere con il compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla presenza dei figli: su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159) ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini. “Nonostante le forti critiche, il nostro confronto con le autorità competenti resta aperto – sottolinea Ulivi – Anche perché la sottovalutazione della gravità delle denunce è solo uno dei problemi che ci troviamo ad affrontare quando parliamo di violenza contro le donne. Non dimentichiamo, infatti, che mancano i fondi per le case di accoglienza, che quando ci sono vengono distribuiti a casaccio e che quindi la maggior parte del nostro lavoro resta basato sul volontariato”.