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Che fine ha fatto il consultorio?

  • Venerdì, 05 Aprile 2013 13:31 ,
  • Pubblicato in INGENERE
02 04 2013 

Inchiesta - Pensati per essere promotori di progetti di salute pubblica e di servizi per la pianificazione familiare e la maternità, a quasi quarant’anni dalla loro istituzione i consultori sono tra le vittime dei tagli al welfare territoriale. Nel frattempo diverse cose non sono andate come si sperava. Intervista al ginecologo Silvio Anastasio.

Abbandonati, impoveriti, superati?  Da tempo al centro di richieste di riqualificazione, ma anche di roventi polemiche politiche -  com'è successo nel Lazio per la proposta di legge Tarzia, che prevedeva di finanziare associazioni private pro-life –, i consultori familiari sono in prima fila tra le vittime dei tagli al welfare territoriale: erano 2097 nel 2007, e due anni dopo, nel 2009, ne risultavano 1911. Questi i dati contenuti nell’ultima relazione del ministero della salute, dell'anno 2010: da allora, più niente. Cosa succede ai consultori, e cosa si può fare per rilanciarli, a quasi trent'anni dalla legge che li ha istituiti? InGenere.it ha posto la questione a una serie di esperte ed esperti, portatori di pratiche e riflessioni sull'argomento. Cominciamo con un’intervista a Silvio Anastasio, ginecologo alla clinica ostetrica universitaria di Bari dal 1973 al 2005, e da allora primario del reparto di ginecologia-ostetricia dell'ospedale Madonna delle Grazie di Matera.

Qual è lo stato attuale dei consultori?
Cominciamo con un dato di fatto: la legge che ha istituito i consultori prevedeva che vi fossero diverse figure professionali (dal ginecologo all'educatore, dall'assistente sociale allo psicologo), cosa che purtroppo succede in pochi casi. Probabilmente ci sono differenze tra nord e sud, ma per quello che ho potuto osservare direttamente tra Basilicata e Puglia, e per la Calabria e la Campania, di cui ho informazioni indirette ma attendibili, sono rare le strutture in cui operi un’equipe completa, con tutte le figure professionali previste. Inoltre non è stato mai fatto quel lavoro di messa in comune delle conoscenze e delle pratiche, come doveva essere il consultorio nell’idea iniziale.

Qual era la loro concezione originaria?
Il consultorio doveva essere un posto aperto e rivolto all’esterno, capace di portare fuori, nel territorio, il sapere. Doveva essere in grado di guardarsi attorno per intercettare e rispondere ai bisogni di salute, di capire i cambiamenti della società per poi decidere quali interventi fare e come. Inoltre gli operatori non dovevano essere semplici specialisti di qualcosa, ma figure in grado di agire in sinergia.

Com’è andata invece?
Questi propositi non sono stati mai realizzati, di sicuro mai pienamente. Per esempio la figura del counselor, o consulente, non è mai stata sviluppata. Non è mai stata realizzata una metodologia di intervento all’esterno, tra le persone. E quando una struttura non risponde ai bisogni per cui è stata creata finisce per rispondere solo alle proprie esigenze, cioè finisce per avere un atteggiamento corporativo. Il consultorio è diventato un posto utile per lo più a chi ci lavora, e non all’utenza. Oggi la popolazione è composta da una varietà di etnie, tanto per citare un cambiamento evidente, e cosa hanno fatto i consultori per attrezzarsi di fronte alla novità? Oppure chiediamoci: fanno forse informazione nelle scuole? Non mi risulta. Il consultorio è rimasto per lo più un luogo chiuso, che non ha visibilità, e infatti ci vanno o i gruppi più marginali, o le persone molto informate….bisognerebbe provare a contare quante sono le donne e le famiglie che entrano in contatto con queste strutture. Al loro interno non si lavora in gruppo, non si fa rete, non ci sono sistemi di verifica, non hanno relazione con le strutture ospedaliere, e se c’è è conflittuale.

Secondo lei cosa ha impedito uno sviluppo in questo senso?
Il mancato inserimento nel territorio, insieme a altri fenomeni sociali, soprattutto riguardo la gravidanza e come la si segue, la sua progressiva medicalizzazione, l’arrivo di strumenti sofisticati come l’ecografia: tutto ciò ha accentuato la distanza tra il consultorio familiare e i bisogni della popolazione. Un numero sempre più grande di donne ha deciso di far seguire le proprie gravidanze, per altro sempre meno frequenti e sempre più costose, dal suo medico. Questa privatizzazione, questa marcata personalizzazione dell’assistenza, ha determinato una serie fenomeni, tra cui l’impoverimento della funzione dei consultori.

Dunque c’è stato un abbandono di massa?
Le donne e delle loro organizzazioni sembrano aver avuto altre priorità in questi anni. L’attenzione degli anni Settanta non si è mantenuta e non è stata strutturata in modo da diventare attenzione costante verso il mondo dei servizi. Questo avrà le sue ragioni, la società e le priorità cambiano, ma certo una disattenzione globale ha favorito una certa autoreferenzialità dei servizi.

Come si potrebbe intervenire per risolvere questi problemi?
È molto difficile immaginare soluzione spontanea del problema. A mio parere le possibilità sono due: o c’è una radicale ristrutturazione che parta dall’andare a vedere molto da vicino, in ogni singola struttura, cosa funziona e cosa no, per poi ristabilire delle priorità, capire cosa si vuole che i consultori facciano, e metterli in condizione di farlo. Oppure si realizza un movimento dal basso: le persone, le famiglie, donne, uomini e giovani trovano la forza di reclamare quello che gli spetta, perché, come dicono gli americani, I've paid for it. E cominciano a non tollerare più di aspettare, di trovare le porte chiuse, di essere rinviati, di non avere la contraccezione di emergenza eccetera.

Da dove partire per un’eventuale “ricostruzione”?
Innanzi tutto bisogna darsi degli obiettivi ragionevoli e misurabili, e poi capire cosa cambiare e come. Alcuni interventi di messa a punto consultori sono stati fatti, individuando i criteri di accorpamento, le funzioni da svolgere e verificando i compiti. Per esempio in Puglia è stato fatto da Antonio Masciandaro e Rosa Guagliardo: un progetto che ha avuto vita difficile, ma che ha prodotto dei risultati. Inoltre sarebbe interessante capire se si riesce a creare, per il futuro, una figura professionale capace di muoversi indifferentemente tra ospedale, consultorio, ambulatorio, territorio eccetera. Figura che sviluppa una serie di abilità e le pratica in diversi contesti: una cosa è fare il pronto soccorso in ospedale, e una cosa è parlare a un gruppo di donne in un percorso di accompagnamento alla nascita.

Ci sono modelli o esperienze interessanti, che potrebbero essere osservati ed estesi?
Per esempio alcuni ospedali inglesi in cui le donne prima del parto vanno in ospedale e incontrano le ostetriche che le seguiranno. Un modello interessante che però richiede che le ostetriche siano delle figure qualificate e autonome. Potrebbe essere replicato anche in Italia ma è dura.

Perché?
Per conflitto di interessi. E per la difficoltà che possono avere le ostetriche, almeno quelle di una certa generazione, ad assumersi delle responsabilità importanti. In Inghilterra ci sono dei posti guidati dalle ostetriche in cui si va a partorire, alcuni gemellati con ospedali e altri no. Delle donne seguite in queste unità un 30% viene poi trasferito in ospedale. Sono realtà complesse, la presenza di figure in grado di muoversi tra questi diversi “mondi” facilita, e evita la formazione di quei cristalli culturali che fanno sì che ognuno si muova solo nel suo “piccolo mondo antico”.

Lei prima accennava ai rifiuti della contraccezione di emergenza. I dati, altissimi, degli obiettori di coscienza sono noti da tempo.
I medici che attualmente garantiscono l’applicazione della 194 non solo sono sempre meno, ma stanno progressivamente invecchiando, si tratta della vecchia guardia, non c’è il ricambio generazionale. Ci sono voci ricorrenti di ripresa dell’abortività clandestina. Io non sono in grado di verificare se questo è vero, ma quando in una struttura il 95% dei ginecologi è obiettore, in concreto come si fa a garantire il servizio, e con che qualità? Credo che la risposta sia scontata. A questo punto è pensabile che una donna appena appena sveglia scelga di spostarsi lei. Io non studio più il fenomeno da tempo, ma quando anni fa lo abbiamo fatto insieme ad altri colleghi la migrazione era evidente, c’erano due o tre case di cura convenzionate nella regione Puglia che facevano il pieno e hanno risolto i loro problemi economici con le interruzioni di gravidanza in convenzione.

Gina Pavone

Che fine ha fatto il consultorio?

  • Mercoledì, 03 Aprile 2013 08:00 ,
  • Pubblicato in INGENERE

Ingenere
03 04 2013

Inchiesta - Pensati per essere promotori attivi di progetti di salute pubblica e di servizi per la pianificazione familiare e la maternità, a quasi quarant’anni dalla loro istituzione i consultori sono tra le vittime dei tagli al welfare territoriale. Nel frattempo diverse cose non sono andate come si sperava, o semplicemente sono cambiate. Intervista al ginecologo Silvio Anastasio

Abbandonati, impoveriti, superati? Da tempo al centro di richieste di riqualificazione, ma anche di roventi polemiche politiche - com'è successo nel Lazio per la proposta di legge Tarzia, che prevedeva di finanziare associazioni private pro-life –, i consultori familiari sono in prima fila tra le vittime dei tagli al welfare territoriale: erano 2097 nel 2007, e due anni dopo, nel 2009, ne risultavano 1911. Questi i dati contenuti nell’ultima relazione del ministero della salute, dell'anno 2010: da allora, più niente. Cosa succede ai consultori, e cosa si può fare per rilanciarli, a quasi trent'anni dalla legge che li ha istituiti? InGenere.it ha posto la questione a una serie di esperte ed esperti, portatori di pratiche e riflessioni sull'argomento. Cominciamo con un’intervista a Silvio Anastasio, ginecologo alla clinica ostetrica universitaria di Bari dal 1973 al 2005, e da allora primario del reparto di ginecologia-ostetricia dell'ospedale Madonna delle Grazie di Matera.

Qual è lo stato attuale dei consultori?

Cominciamo con un dato di fatto: la legge che ha istituito i consultori prevedeva che vi fossero diverse figure professionali (dal ginecologo all'educatore, dall'assistente sociale allo psicologo), cosa che purtroppo succede in pochi casi. Probabilmente ci sono differenze tra nord e sud, ma per quello che ho potuto osservare direttamente tra Basilicata e Puglia, e per la Calabria e la Campania, di cui ho informazioni indirette ma attendibili, sono rare le strutture in cui operi un’equipe completa, con tutte le figure professionali previste. Inoltre non è stato mai fatto quel lavoro di messa in comune delle conoscenze e delle pratiche, come doveva essere il consultorio nell’idea iniziale.

Qual era la loro concezione originaria?

Il consultorio doveva essere un posto aperto e rivolto all’esterno, capace di portare fuori, nel territorio, il sapere. Doveva essere in grado di guardarsi attorno per intercettare e rispondere ai bisogni di salute, di capire i cambiamenti della società per poi decidere quali interventi fare e come. Inoltre gli operatori non dovevano essere semplici specialisti di qualcosa, ma figure in grado di agire in sinergia.

Com’è andata invece?

Questi propositi non sono stati mai realizzati, di sicuro mai pienamente. Per esempio la figura del counselor, o consulente, non è mai stata sviluppata. Non è mai stata realizzata una metodologia di intervento all’esterno, tra le persone. E quando una struttura non risponde ai bisogni per cui è stata creata finisce per rispondere solo alle proprie esigenze, cioè finisce per avere un atteggiamento corporativo. Il consultorio è diventato un posto utile per lo più a chi ci lavora, e non all’utenza. Oggi la popolazione è composta da una varietà di etnie, tanto per citare un cambiamento evidente, e cosa hanno fatto i consultori per attrezzarsi di fronte alla novità? Oppure chiediamoci: fanno forse informazione nelle scuole? Non mi risulta. Il consultorio è rimasto per lo più un luogo chiuso, che non ha visibilità, e infatti ci vanno o i gruppi più marginali, o le persone molto informate….bisognerebbe provare a contare quante sono le donne e le famiglie che entrano in contatto con queste strutture. Al loro interno non si lavora in gruppo, non si fa rete, non ci sono sistemi di verifica, non hanno relazione con le strutture ospedaliere, e se c’è è conflittuale.

Secondo lei cosa ha impedito uno sviluppo in questo senso?

Il mancato inserimento nel territorio, insieme a altri fenomeni sociali, soprattutto riguardo la gravidanza e come la si segue, la sua progressiva medicalizzazione, l’arrivo di strumenti sofisticati come l’ecografia: tutto ciò ha accentuato la distanza tra il consultorio familiare e i bisogni della popolazione. Un numero sempre più grande di donne ha deciso di far seguire le proprie gravidanze, per altro sempre meno frequenti e sempre più costose, dal suo medico. Questa privatizzazione, questa marcata personalizzazione dell’assistenza, ha determinato una serie fenomeni, tra cui l’impoverimento della funzione dei consultori.

Dunque c’è stato un abbandono di massa?

Le donne e delle loro organizzazioni sembrano aver avuto altre priorità in questi anni. L’attenzione degli anni Settanta non si è mantenuta e non è stata strutturata in modo da diventare attenzione costante verso il mondo dei servizi. Questo avrà le sue ragioni, la società e le priorità cambiano, ma certo una disattenzione globale ha favorito una certa autoreferenzialità dei servizi.

Come si potrebbe intervenire per risolvere questi problemi?

È molto difficile immaginare soluzione spontanea del problema. A mio parere le possibilità sono due: o c’è una radicale ristrutturazione che parta dall’andare a vedere molto da vicino, in ogni singola struttura, cosa funziona e cosa no, per poi ristabilire delle priorità, capire cosa si vuole che i consultori facciano, e metterli in condizione di farlo. Oppure si realizza un movimento dal basso: le persone, le famiglie, donne, uomini e giovani trovano la forza di reclamare quello che gli spetta, perché, come dicono gli americani, I've paid for it. E cominciano a non tollerare più di aspettare, di trovare le porte chiuse, di essere rinviati, di non avere la contraccezione di emergenza eccetera.

Da dove partire per un’eventuale “ricostruzione”?

Innanzi tutto bisogna darsi degli obiettivi ragionevoli e misurabili, e poi capire cosa cambiare e come. Alcuni interventi di messa a punto consultori sono stati fatti, individuando i criteri di accorpamento, le funzioni da svolgere e verificando i compiti. Per esempio in Puglia è stato fatto da Antonio Masciandaro e Rosa Guagliardo: un progetto che ha avuto vita difficile, ma che ha prodotto dei risultati. Inoltre sarebbe interessante capire se si riesce a creare, per il futuro, una figura professionale capace di muoversi indifferentemente tra ospedale, consultorio, ambulatorio, territorio eccetera. Figura che sviluppa una serie di abilità e le pratica in diversi contesti: una cosa è fare il pronto soccorso in ospedale, e una cosa è parlare a un gruppo di donne in un percorso di accompagnamento alla nascita.

Ci sono modelli o esperienze interessanti, che potrebbero essere osservati ed estesi?

Per esempio alcuni ospedali inglesi in cui le donne prima del parto vanno in ospedale e incontrano le ostetriche che le seguiranno. Un modello interessante che però richiede che le ostetriche siano delle figure qualificate e autonome. Potrebbe essere replicato anche in Italia ma è dura.

Perché?

Per conflitto di interessi. E per la difficoltà che possono avere le ostetriche, almeno quelle di una certa generazione, ad assumersi delle responsabilità importanti. In Inghilterra ci sono dei posti guidati dalle ostetriche in cui si va a partorire, alcuni gemellati con ospedali e altri no. Delle donne seguite in queste unità un 30% viene poi trasferito in ospedale. Sono realtà complesse, la presenza di figure in grado di muoversi tra questi diversi “mondi” facilita, e evita la formazione di quei cristalli culturali che fanno sì che ognuno si muova solo nel suo “piccolo mondo antico”.

Lei prima accennava ai rifiuti della contraccezione di emergenza. I dati, altissimi, degli obiettori di coscienza sono noti da tempo.

I medici che attualmente garantiscono l’applicazione della 194 non solo sono sempre meno, ma stanno progressivamente invecchiando, si tratta della vecchia guardia, non c’è il ricambio generazionale. Ci sono voci ricorrenti di ripresa dell’abortività clandestina. Io non sono in grado di verificare se questo è vero, ma quando in una struttura il 95% dei ginecologi è obiettore, in concreto come si fa a garantire il servizio, e con che qualità? Credo che la risposta sia scontata. A questo punto è pensabile che una donna appena appena sveglia scelga di spostarsi lei. Io non studio più il fenomeno da tempo, ma quando anni fa lo abbiamo fatto insieme ad altri colleghi la migrazione era evidente, c’erano due o tre case di cura convenzionate nella regione Puglia che facevano il pieno e hanno risolto i loro problemi economici con le interruzioni di gravidanza in convenzione.

 

L'aborto riguarda la sessualità, non la morale

  • Mercoledì, 27 Marzo 2013 09:32 ,
  • Pubblicato in Il Commento
Lea Melandri, GiULiA
26 marzo 2013

Il 9 marzo 2013 si è svolto a Milano un convegno - "Legge 194. Cosa vogliono le donne"*.
Ne è uscito un Manifesto (in allegato), che contiene alcune proposte concrete riguardanti "i confini del diritto all'obiezione di coscienza", una applicazione della legge che non la snaturi, la centralità dei consultori, la formazione dei futuri medici e degli infermieri.
Repubblica.it
17 03 2013

Un nuovo durissimo colpo alla legge 194. Da domani in tutta Bari e provincia sarà impossibile praticare l'aborto negli ospedali pubblici, ad eccezione del Policlinico. Al San Paolo, l'ultimo presidio della Asl che garantiva con molte difficoltà questo servizio sancito dalla legge, tutti i ginecologi e le ostetriche sono diventati obiettori di coscienza. Si tratta di almeno 6 professionisti che hanno deciso di non praticare più le Ivg, interruzioni volontarie di gravidanza.

Ora una donna che voglia praticare l'aborto nella Asl Bari sarà costretta a recarsi negli ospedali pubblici di Monopoli, Putignano e Corato oppure rivolgersi alle strutture convenzionate private. Certo, c'è anche il Policlinico che però non fa parte della Asl. Ma anche lì le procedure di Ivg vanno a rilento per difficoltà organizzative e scarsa presenza di non obiettori, solo 272 Ivg nel 2011 su un totale di 3676 in tutta la Asl.

Una decisione, quella dei medici del San Paolo, che sembra aver sorpreso sia il primario del reparto Michele Brattoli che la direttrice sanitaria dell'ospedale Angela Leaci: «Non so proprio come risolvere il problema – ha dichiarato quest'ultima – nei prossimi giorni cercheremo di trovare una soluzione con la direzione generale della Asl».

Sorpresa anche sul lungomare Starita nella sede della azienda sanitaria locale. Una sorpresa che però non ha impedito alla direttrice sanitaria Silvana Melli, impegnata nella lotta per far rispettare la 194 nei consultori baresi dopo l'inchiesta pubblicata dal nostro giornale nel dicembre scorso, di prendere le dovute precauzioni per evitare falle nel servizio: «Ho chiesto alla direttrice sanitaria dell'ospedale San Paolo di informarmi al più presto su questo fenomeno improvviso nel reparto – ha dichiarato Melli – le richieste di obiezione sono al vaglio della direzione. In una grande Asl come quella di Bari questa decisione rende più difficile l'applicazione della legge 194 e mette in difficoltà proprio la difficile opera di riforma in atto nei consultori».

Per risolvere temporaneamente il problema la direzione sanitaria ha deciso di mandare al San Paolo un nuovo ginecologo non obiettore. «Era un atto necessario» ha commentato la direttrice Melli.

Intanto la Asl vuole vederci chiaro sulla decisione presa dall'équipe del reparto di ginecologia e ostetricia dell'ospedale barese. Uno dei neo obiettori, il ginecologo Saverio Martella, parla di una scelta «etica e morale, maturata da molto tempo» ed esclude che l'obiezione di massa sia una forma di protesta. Ma non tutti sono d'accordo su questa versione: «Quella fatta dai miei colleghi potrebbe essere una provocazione, che posso anche condividere – dice il ginecologo di un consultorio barese che ha fatto parte dell'équipe del San Paolo fino a pochi mesi fa – le posso assicurare che fino a quando ci sono stato io lì abbiamo avuto seri problemi di carattere logistico».

I medici infatti erano costretti fuori dall'orario di servizio a recarsi al presidio di Triggiano per svolgere le Ivg. «Evidentemente sono arrivati al limite, tanto non gliene frega a nessuno della 194. Per fortuna, ci sono le case di cura private. Almeno loro assicurano il servizio».
MicroMega
07 03 2013

Pochi, sottoposti a mobbing e senza possibilità di carriera. In un paese in cui i ginecologi obiettori sono il 70% del totale, è così che lavora quel manipolo di medici che garantisce l’applicazione della legge 194. Intervista a Silvana Agatone, presidente della Libera Associazione Italiana Ginecologi per l’applicazione della Legge 194 (Laiga), che in questi giorni tiene a Roma il suo secondo convegno nazionale.

Intervista a Silvana Agatone di Ingrid Colanicchia

I numeri parlano chiaro: il nostro è un paese di medici obiettori di coscienza. La relazione del Ministro della Salute presentata al Parlamento il 4 agosto 2011 dimostra che nel 2009, a livello nazionale, il 70,7% dei ginecologi è obiettore e che il trend è passato dal 58,7% del 2005 al 69,2% del 2006, al 70,5% del 2007 e al 71,5% del 2008. Il dato nazionale degli anestesisti obiettori è anch’esso in costante aumento, passando dal 45,7% del 2005 al 51,7% del 2009. Il dato nazionale del personale non medico obiettore è passato dal 38,6% nel 2005 al 44,4% nel 2009.

Dati che trasformano l’obiezione di coscienza in quella che Carlo Flamigni (autore di L'aborto. Storia e attualità di un problema sociale e di La questione dell’embrione) definisce “imposizione di coscienza” o “obiezione di struttura”: vale a dire un sabotaggio in piena regola.

Ma i tentativi di limitare la possibilità di ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza, prevista dalla legge 194 del 1978, non finiscono qui. Piovono anche dall’alto. Nel 2012 sono state presentate in Parlamento diverse mozioni aventi per oggetto la piena attuazione del diritto all’obiezione di coscienza.

Primi in ordine di tempo i parlamentari capitanati da Luca Volontè dell’Udc che nel marzo 2012 hanno depositato una mozione che, richiamandosi a una Raccomandazione del Consiglio d’Europa del 2010 (la quale però sottolineava la necessità di tutelare sia il diritto del medico all’obiezione di coscienza che quello di ogni persona di ricevere dallo Stato i trattamenti sanitari legali), impegna il governo a «dare piena attuazione al diritto all’obiezione di coscienza in campo medico e paramedico e a garantire la sua completa fruizione senza alcuna discriminazione o penalizzazione»; affermando che «il diritto all’obiezione di coscienza non può essere in nessun modo “bilanciato” con altri inesistenti diritti e rappresenta il simbolo, oltre che il diritto umano, della libertà nei confronti degli Stati e delle decisioni ingiuste e totalitarie».

Sempre nel 2012 il Movimento per la vita ha lanciato, insieme ad analoghe associazioni di altri Paesi europei, una raccolta firme affinché all’embrione siano riconosciuti i diritti di essere umano. Iniziativa che ha ricevuto anche l’avallo della Conferenza episcopale italiana.

Una situazione in cui a garantire la possibilità di far valere un diritto riconosciuto per legge, è un manipolo di ginecologi e medici non obiettori come quelli riuniti nella Libera Associazione Italiana Ginecologi per l’applicazione della Legge 194 (Laiga), nata nel 2008, che proprio in questi giorni (l’8 e 9 marzo) ha organizzato a Roma (presso l’aula magna dell’ospedale Forlanini) il suo secondo Convegno nazionale. Della situazione dei ginecologi non obiettori abbiamo parlato con Silvana Agatone, presidente di Laiga.

La legge 194 conferisce alla donna la possibilità di richiedere un servizio e contestualmente consente al medico di sottrarvisi. Come si esce da quello che nel nostro paese si configura sempre più come un vicolo cieco?
Ci sono tante possibili proposte: aumentare i giorni di ferie per i non obiettori e/o aumentare la loro retribuzione (ma se quest'ultima proposta in questi tempi di crisi è poco attuabile; la prima sarebbe molto interessante anche perché molti dei non obiettori sono sottoposti a quel fenomeno che va sotto il nome di burnout); oppure obbligare le ASL ad assumere un numero sufficiente di personale non obiettore, in grado di garantire l’applicazione di una legge dello Stato.
Sarebbe anche estremamente interessante obbligare gli obiettori ad attività extra: per esempio impegnandoli in attività di contraccezione e prevenzione della gravidanza. In fondo coloro che hanno posto obiezione di coscienza al servizio militare hanno pagato un prezzo, essendo stati obbligati al servizio civile, inizialmente per un periodo di tempo persino più lungo di quello del servizio militare. E allora che anche gli obiettori siano obbligati ad impegnare più tempo degli altri nel lavoro! Un lavoro naturalmente coerente con le loro idee. Come per esempio passare più tempo in ospedale o negli ambulatori sparsi sul territorio per la prevenzione delle gravidanze indesiderate.

Quali fattori a suo avviso incidono sull’aumento del numero di obiettori di coscienza che si registra in Italia? Si tratta, come si dice, di una precondizione per fare carriera?
In molti ospedali i primari vengono scelti anche in base alle loro aderenze politiche e la politica in Italia non è assolutamente laica. Quanti primari ginecologi sono non obiettori? È stata una sorpresa incontrarne qualcuno! Non penso arrivino a dieci in tutta Italia. E naturalmente da ciò deriva l’impostazione di un reparto. Mentre dovrebbero essere impegnati a far rispettare una legge dello Stato - obiettori o meno che siano dovrebbe essere un loro preciso dovere - i primari ottemperano invece ad ordini di scuderia politica. Non parliamo poi dei primari che provengono da emanazioni di università cattoliche (grandi centri di potere che stanno invadendo gli ospedali).
Nei reparti gestiti da questi ultimi, i non obiettori che rimangono coerenti con il loro impegno civile e sociale hanno una vita lavorativa sfibrata, stressante, subiscono un feroce mobbing. Per gli altri, vivere e lavorare è decisamente più facile. In effetti il medico che oltre ad essere un buon medico coniuga gli aspetti sanitari agli aspetti sociali, cioè il medico che si occupa delle donne a tutto tondo, il medico che, una volta che viene fatta una diagnosi di malformazione di un feto in gravidanza, non lascia la donna da sola, ha decisamente una vita lavorativa molto più faticosa.

A quali possibili conseguenze vanno incontro a livello professionale i pochi medici e operatori sanitari che garantiscono l’interruzione volontaria di gravidanza?
Le ore da passare in ospedale per lavorare sono uguali per tutti i medici. Tutti i medici devono impegnarsi in diversi servizi: sala operatoria, sala parto, ambulatorio, ecc. Gli obiettori svolgono il loro lavoro alternandosi in tutti questi punti operativi. E tutti dovrebbero fare a turno su questi servizi. Ma i pochi medici non obiettori, essendo l’unica risorsa per garantire il servizio stabilito dalla 194, finiscono per vedere il loro lavoro ridursi all’interruzione di gravidanza, hanno meno accesso alle sale operatorie.
Spesso il mantenimento del servizio di interruzione di gravidanza, dipende esclusivamente dal loro impegno. Per esempio se a Napoli il ginecologo non obiettore del policlinico Ferdinando II muore sarà impossibile praticare interruzioni di gravidanza per due settimane… Se a Bari va in ferie l’unico medico non obiettore viene sospesa la somministrazione della RU486. Pensa che sia facile per i non obiettori andare in ferie, andare a convegni di aggiornamento? E chi allora manda avanti questo servizio?

Dalla mozione Volontè all’iniziativa del Movimento per la vita si susseguono i tentativi, nel nostro Paese, di limitare la possibilità di avvalersi della legge 194. A suo avviso simili iniziative trovano corrispondenza nel sentire della maggioranza dei cittadini e delle cittadine italiani/e?
No. Penso che la popolazione viva sonni tranquilli pensando che questa legge sia cosa acquisita che nessuno toccherà più. Non è consapevole di queste continue lotte per abrogarla. Non sanno che tante forze politiche invece di impegnarsi seriamente in tante altre battaglie, come la crisi alimentare che affama buona parte della popolazione mondiale, la crescente povertà in tutti i Paesi, le guerre che insanguinano questo Pianeta… si ostinano a voler abrogare questa legge. Sono pro life ma non li vedo altrettanto pervicacemente impegnati su questi terreni. Eppure sono tanti e potrebbero veramente fare molto. Se i/le rappresentanti di queste forze non vogliono abortire, nessuno li obbliga a farlo, mentre loro vogliono obbligare gli altri a non abortire.

Quali proposte la Laiga ha intenzione di presentare al nuovo ministro della Salute?
Oltre a quelle già accennate all’inizio, tante bollono in pentola. Verranno esaminate e condivise nel Convegno nazionale della nostra associazione dell’8 e 9 marzo e poi le porteremo sul tavolo del nuovo ministro per la Salute.

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