Contropiano
09 09 2014
Manifestazione questa mattina a Milano delle “Madri nella crisi”, le operatrici socio-sanitarie precarie rimaste senza lavoro dopo anni di contratti di precariato e somministrazione al Policlinico. Le lavoratrici interinali, che occupano il tetto del Padiglione Alfieri all'interno dell'Irccs di via Sforza ormai dal 30 giugno, hanno spostato oggi il teatro della protesta davanti a Palazzo Marino, sede del Comune di Milano. Con un mini-corteo partito verso le 11.30 dal Policlinico, hanno raggiunto piazza della Scala. Le attiviste, sostenute dal sindacato Usb, avevano annunciato l'iniziativa nei giorni scorsi. Questa mattina hanno percorso il tratto dal Policlinico a piazza della Scala con bandiere dell'Usb e striscione con il logo delle Madri nella crisi. In mano dei tubi di metallo colorati con cui hanno poi costruito in piazza una grande croce alta più di 4 metri, "simbolo della sofferenza della precarietà",con su i cartelli delle innumerevoli tipologie di contratti precari. Le attiviste lanciano un appello alla città: "Chiamiamo a raccolta i precari, e quelli che come noi sono rimasti senza lavoro. Li invitiamo a venire a lasciare una testimonianza tangibile della loro presenza, affiggendo alla croce un pensiero sulla loro condizione. La croce è il simbolo della nostra sofferenza.
La lasceremo qui fino a quando non troveremo ascolto da chi ha il dovere di trovare una soluzione al nostro dramma di lavoratrici espulse dalla sanità pubblica, dopo aver lavorato da precarie e da sfruttate per molti anni". Con tutta probabilità rimarranno lì per tutta la notte.
Il tetto del Policlinico, comunque, continua ad essere presidiato
Dinamo Press
28 07 2014
Una riflessione verso le sfide autunnali a partire dalla città di Roma : "Come difendersi dalla "lotta di classe" scatenata dall'alto e come affermare il diritto alla città nel tempo della fine del "buon governo" saranno i terreni principali di verifica dei rapporti di forza nella tempesta neoliberale"
A un anno di distanza dalle elezioni comunali, il bilancio della giunta Marino assume i contorni del disastro. Una politica miope, subalterna ai dikat dei vincoli di bilancio europei (e al suo corollario nazionale), zelante con i poteri forti della città. Possiamo parlare di emergenza abitativa, degli spazi culturali autogestiti o del sistema di welfare locale, ma il tic di Marino e soci è sempre lo stesso: girarsi dall'altra parte per far passare indisturbati i carri armati della rendita, i tagli indiscriminati, gli sgomberi su commissione.
Le previsioni più fosche, di chi intravedeva nella "disobbedienza" alle politiche di austerità l'unica pratica possibile di "governo", sono tutte confermate. La gestione autolesionista e provinciale della vertenza del Teatro Valle dà la misura sia del profilo della "strategia culturale" del Campidoglio che dell'incapacità di immaginare politiche di cambiamento anche quando si presentano, come regali, a costo zero.
In tre anni di occupazione, forse per la prima volta nella sua lunga storia, il Valle è stato attraversato da migliaia di persone, ospitato una programmazione di qualità e popolare, promosso un modello produttivo-gestionale all'avanguardia e in controtendenza rispetto al panorama desolante del teatro italiano. Un laboratorio culturale e una sperimentazione di autogoverno che, dalla morte annunciata del vecchio carrozzone Eti (Ente teatrale italiano), ha saputo costruire un prototipo "istituzionale" attorno al concetto e alla pratica dei "beni comuni". Ma invece di diventare il fiore all'occhiello di una città che guarda all'Europa, il Valle è diventato campo di contesa tra ipotesi di restaurazione artistica e vendette questurine.
Un'estate trascorsa tra rigurgiti legalitari e autogol spettacolari, sgomberi coatti (il Volturno occupato) e assedi alle esperienze di welfare autogestito, come accaduto recentemente al centro sociale Corto Circuito di Cinecittà (e prima all'Angelo Mai). La storia è nota: pochi giorni fa, l'Acea provvede al distacco del servizio idrico, bloccando di fatto tutte le attività e la stessa agibilità dello spazio. Un atto provocatorio che ricorda più un'azione di guerra che un procedimento amministrativo, nei confronti di un patrimonio culturale, sociale e di servizio da venti anni parte integrante della città. Il tutto mentre, parallelamente, viene istituito un tavolo istituzionale sugli spazi sociali, presieduto dal vice sindaco e assessore al patrimonio Luigi Nieri.
La mano destra interloquisce, la mano sinistra si fa complice della guerra.
In questa cartolina triste e sbiadita, in cui si smarrisce definitivamente il significato della parola "sinistra", ecco che spunta un raggio di sole e di speranza. L'assessore Nieri stavolta conquista la scena tra fotografi, giornalisti e cittadini, formalizzando una evento straordinario: la nascita di un parco pubblico, con al centro un lago venuto fortunosamente alla luce, nella area della ex Snia Viscosa, tra via Prenestina e via di Portonaccio, zona est della capitale a due passi dal centro.
Una gigantesca operazione speculativa, ad opera di uno tra i più noti re del mattone (Pulcini), viene bloccata e rovesciata grazie a una grande battaglia pubblica, messa in piedi da comitati di quartiere, centri sociali, associazioni e liberi cittadini. Una lotta testarda contro le collusioni della giunta Alemanno prima e contro le timidezze e i mal di pancia del centroisinistra poi, caratterizzata da un chiaro profilo autonomo e plurale. Ma anche per la sua maturità e capacità di parlare a tanti e diversi, senza alcuna paura reverenziale nei confronti della "statura" degli avversari.
Una conquista che forse, in una qualsiasi città del nord Europa, sarebbe stata garantita dal buon senso di un'amministrazione locale, ma che nel nostro paese e nella nostra città assume i contorni di una vittoria inaspettata.
Questa vicenda rappresenta la perfetta sintesi del riformismo (im)possibile ai tempi dell'austerità e della fine della politica intesa come espressione di interessi pubblici. Dopo dodici mesi di piccolo cabotaggio, provvedimenti spot (pseudo pedonalizzazioni e interventi di cosmesi urbana) e posizionamenti da risiko nell'aula Giulio Cesare, assistiamo forse al vero primo atto di discontinuità politica, figlio però della determinazione di una lotta e di un progetto nati e cresciuti nei movimenti metropolitani.
Una "rigenerazione urbana" che si è misurata nei territori e non nelle stanze ammuffite del Campidoglio, capace di scuotere dal torpore una giunta ineffabile. Un prototipo di "autogoverno" già intravisto nelle lotte dei movimenti per il diritto all'abitare (unici ad offrire un'alternativa concreta, seppur parziale, ai senza casa e agli sfrattati), nelle reti culturali informali (un'estate romana fatta di festival autogestiti e autofinanziati popolati all'inverosimile, disseminati nelle stesse periferie abbandonate dalla giunta), nei miracoli materialissimi della cooperazione sociale e del terzo settore non "embedded" che ha difeso la dignità dei servizi pubblici e dei lavoratori.
La crisi economica globale e il suo specchio politico - crisi della sovranità statale, un simulacro quella continentale - certificano la fine dei "riformismi" per come li abbiamo conosciuti, anche a livello locale. Senza un "no" costituente alle politiche di bilancio, non c'è spazio di manovra per le istituzioni cittadine, ridotte al ruolo di esattrici delle tasse e braccio armato dei tagli. Ma la lezione non vale solo per chi, nella rappresentanza, immagina ancora un ruolo non residuale, ma anche per i movimenti sociali, costretti, nolenti o volenti, a misurarsi fino in fondo con la sfida dell'autogoverno e del diritto alla città.
All'orizzonte si profilano le sfide autunnali attorno ai due fronti prinicipali dell'offensiva neoliberale di Renzi & co.: da una parte, il Jobs Act, che si propone di rendere la precarietà, i salari da fame e lo sfruttamento condizioni standard e "istituzionali" della forza lavoro contemporanea; dall'altra, il decreto Lupi e il suo corollario di tagli e privatizzazioni dei servizi locali e delle società partecipate (come emerge chiaramente dalla lettura dei piani di spending review presentati dal commissario Cottarelli), che vogliono trasformare le città in un campo docile di valorizzazione per la rendita e la speculazione.
Come difendersi dalla "lotta di classe" scatenata dall'alto e come affermare il diritto alla città nel tempo della fine del "buon governo" saranno i terreni principali di verifica dei rapporti di forza nella tempesta neoliberale.
Il Manifesto
20 08 2014
La rivolta di Ferguson, in Missouri, sarà un punto di svolta nella lotta contro l’ingiustizia razziale, oppure una piccola nota a piè di pagina in qualche tesi di dottorato sulle sollevazioni civili nei primi anni del XXI secolo?
La risposta può essere trovata nel maggio del 1970. Avrete sentito parlare della sparatoria della Kent State: il 4 maggio 1970 la guardia nazionale dell’Ohio aprì il fuoco sugli studenti in protesta alla Kent State University. In 13 secondi di sparatoria, sono stati uccisi quattro studenti e nove sono rimasti feriti.
Lo shock e il clamore sfociarono in uno sciopero nazionale di quattro milioni di studenti che chiusero più di 450 campus. Cinque giorni dopo la sparatoria, 100.000 manifestanti si riunirono a Washington: la gioventù del paese si mobilitò energicamente per porre fine alla guerra in Vietnam, al razzismo, al sessismo e alla fiducia cieca nelle istituzioni politiche.
Probabilmente non avete sentito parlare della sparatoria a Jackson State. Il 14 maggio, dieci giorni dopo che la Kent State aveva infiammato la nazione, alla Jackson State University nel Mississippi, in prevalenza nera, la polizia uccise a fucilate due studenti neri (un liceale e il padre di un bambino di 18 mesi) e ne ha feriti altri dodici.
Non c’è stato alcun clamore nazionale. Il paese non si è affatto mobilitato. Quel leviatano senza cuore che chiamiamo Storia ha inghiottito l’intero evento, cancellandolo dalla memoria nazionale. Se non vogliamo che anche l’atrocità di Ferguson sia inghiottita e diventi niente più che un’irritazione intestinale della storia, dobbiamo affrontare la situazione non solo come un altro atto di sistematico razzismo, ma come ciò che è: guerra di classe.
Focalizzandosi solo sull’aspetto razziale, la discussione diventa se l’assassinio di Michael Brown (o quelli degli altri tre uomini neri disarmati uccisi dalla polizia negli Stati Uniti nel giro di un mese) riguarda la discriminazione o se la polizia è stata giustificata. Allora discuteremo se non c’è negli Stati uniti tanto razzismo dei neri contro i bianchi quanto ce n’è dei bianchi contro i neri. (Sì, c’è. Ma, in generale, quello dei bianchi contro i neri ha pesanti conseguenze sul futuro della comunità nera. Quello dei neri contro i bianchi non ha quasi nessun impatto sociale misurabile.) (…)
Questo distrae l’America da una questione più ampia, cioè che gli obiettivi di eccessiva reazione poliziesca sono meno basati sul colore della pelle e più su una calamità che è perfino peggio dell’ebola: l’essere poveri. Ovviamente, per molti in America essere una persona di colore è sinonimo di essere poveri, ed esseri poveri è sinonimo di essere un criminale. Ironicamente, questa errata percezione è vera anche tra i poveri. Ed è quello che lo status quo vuole.
Il rapporto sul censimento degli Usa sostiene che 50 milioni di americani sono poveri. 50 milioni di elettori costituiscono un potente blocco se fosse organizzato nel tentativo di perseguire comuni obiettivi economici. Dunque, è cruciale per l’1% più ricco mantenere i poveri divisi distraendoli con questioni emotive come l’immigrazione, l’aborto e il controllo delle armi, in modo che non si fermino a chiedersi come siano stati fregati per così tanto tempo. Un modo per tenere divisi questi 50 milioni è la disinformazione. (…) Secondo il rapporto del 2012 del Pew Research Center, solo la metà delle famiglie americane sono a medio reddito (meno 11% rispetto agli anni ’70). La cosa sconvolgente è che meno che mai gli americani credono nel mantra dell’American Dream, per cui se lavori duro ce la farai.
*Pubblicato su time.com, tradotto da commonware.org
Dinamo Press
20 08 2014
Pochi giorni dopo la conclusione del Festival Anti-Razzista di Atene, DINAMOpress ha intervistato Nikos Iannopoulos, militante della Rete per i Diritti Politici e Sociali (Diktio) attivo da molti anni per il sostegno dei detenuti politici e nelle reti di solidarietà con i migranti.
Abbiamo posto alcune domande riguardanti il blocco delle mobilitazioni di massa degli ultimi 2 anni, la prospettiva europea delle lotte e il complesso rapporto tra SYRIZA e i movimenti sociali.
La Grecia è stata l’epicentro della crisi economica, il principale laboratorio europeo delle politiche di austerity e l’esempio più significativo delle profonde trasformazioni sociali imposte dal neoliberalismo in questi anni. Allo stesso tempo, è stata teatro di movimenti di massa estremamente radicali che, tra il 2010 e il 2012, hanno occupato la scena politica del Paese e rappresentato un punto di riferimento fondamentale nell’immaginario politico europeo. Cosa rimane oggi di quei movimenti e quali sono le principali cause che ne hanno prodotto il blocco?
La Grecia entra ufficialmente in crisi, e nelle mani dell’FMI, a partire dal 2010. È in quell’anno che la società e i lavoratori iniziano a subire attacchi feroci. In modo molto schematico possiamo dividere questo periodo in due parti. La prima va dalla primavera del 2010 fino a quella del 2012: è il periodo dei grandi scioperi generali e dei grandi movimenti delle piazze, in cui milioni di persone partecipano alla lotta. Una tale quantità di manifestanti non si vedeva dal crollo della dittatura, nel 1974. Questo movimento ha combattuto una lotta durissima per sconfiggere il memorandum. Non è riuscito a vincere, ma ha provocato una crisi nel sistema politico dei partiti borghesi PASOK e NEA DEMOKRATIA. Molte persone hanno capito che la causa della crisi non era la mala amministrazione del sistema politico, ma la speculazione del capitale globale.
Questi due elementi, grande partecipazione e mancanza di vittorie, caratterizzano la seconda parte del periodo della crisi, dalla primavera del 2012 fino ad oggi. In questa fase, molta gente è disillusa e non crede più di poter vincere alcuna battaglia. Inoltre, una parte della popolazione vive in modo molto difficile a causa degli effetti della gestione della crisi (licenziamenti, disoccupazione, etc.). Allo stesso tempo, questa gente vuole allontanare chi governa. A causa di questa situazione, il centro della lotta si sposta dalle strade alle elezioni. Così, nelle elezioni del 2009 c’era un piccolo partito [SYRIZA, ndr] che aveva ottenuto circa il 5% e che nel 2012 è balzato al 27%, la percentuale più alta mai ottenuta dalla sinistra in Grecia.
Nell’ultimo periodo al movimento è accaduto quanto segue. Ci sono alcune lotte molto forti, come lo sciopero dei dipendenti amministrativi delle università, o la lotta delle donne delle pulizie dei ministeri, o quella dei lavoratori dell’impresa elettrica pubblica DEI. Però non c’è un movimento generale, permanente e più ampio capace di far cadere il governo. Questa situazione ha incontrato la politica di SYRIZA e di altri partiti della sinistra greca. Il risultato è stato una normalizzazione del movimento… anche se, per fortuna, la lotta di classe non è mai prevedibile. Al momento, possiamo dire che il governo non è così forte, nonostante non sia ancora stato sconfitto. Tutti gli attori del capitale globale, le istituzioni internazionali, la TROIKA, i media greci vogliono che questo governo continui ad esercitare il potere. Intanto, la polarizzazione all’interno della società greca non smette di aumentare.
Il governo prova, e in un certo grado è riuscito, a raccogliere il supporto non solo dei ceti medi e dei ricchi, ma anche di alcuni settori dei poveri, di quei settori dei poveri che cercano stabilità. Con lo strumento principale della paura, il governo riesce a ottenere un supporto sociale ampio, perché in Grecia la destra rappresenta una componente sociale radicata e diffusa. La sinistra capitalizza questa polarizzazione in un grado più basso, perché la destra sfrutta la paura e fa leva contemporaneamente su interessi e stereotipi. Nonostante la sinistra sia la prima forza tra i disoccupati, i giovani, i più poveri, non può gestire la prospettiva di una speranza politica come sta facendo la destra. Così, rispetto al movimento greco, la situazione è estremamente instabile. Il movimento da solo non è in grado di costruire una strategia e una dinamica di speranza, rimane frammentato proprio in un periodo in cui ci sarebbe bisogno di risposte coordinate e generalizzate. Questo fatto provoca un doppio problema: concede lo spazio a SYRIZA per fare compromessi in una direzione da centro-sinistra; rende il movimento, inteso in senso ampio, impreparato a sferrare una battaglia decisiva, perché rimane immaturo.
Nella nostra analisi, i movimenti degli ultimi anni sono stati incapaci di ottenere vittorie decisive perché nei diversi Paesi europei hanno avuto temporalità, strutture organizzative, scadenze di mobilitazione principalmente nazionali, mentre la governance neoliberale attacca e agisce su un piano immediatamente europeo. Esiste un ragionamento nel movimento greco sulla necessità di innescare processi organizzativi e mobilitazioni direttamente nello spazio europeo?
Nel movimento greco, questa discussione rispetto a una prospettiva maggiormente europea è limitata. Esistono alcune ragioni oggettive, dovute alla situazione critica che c’è in questo momento in Grecia, ed altre ragioni storiche, relative alla tradizione della sinistra greca. Rispetto alle ragioni oggettive posso citarne due. La prima è che ci sono delle differenze tra l’attacco e la risposta nei diversi Paesi europei, e anche tra quelli dell’Europa del Sud. Ci sono alcuni settori del movimento, particolarmente avanzati, che sono consapevoli che ciò che è successo in Grecia riguarda anche Italia, Spagna e Portogallo. Ma per la gran parte della gente che partecipa al movimento essere coinvolti in una logica di questo tipo rappresenta una specie di lusso.
La seconda ragione è un fenomeno più generale: negli ultimi 10 anni – e da molto prima – sul livello dei poteri sono state create delle reti, dei centri, delle istituzioni di coordinamento tra i governi. A sinistra, nel movimento dei lavoratori, invece, non esiste alcun centro reale, radicato, che possa svolgere questo lavoro di coordinamento. Certo, negli ultimi 10 anni ci sono state le esperienze dei Social Forum, del movimento anti-globalizzazione, che sono stati dei passi in avanti importanti. Però queste esperienze non sono riuscite a stabilizzare strutture capaci di essere centri di riferimento per alcuni settori del movimento in una base più stabile e permanente, come strumento di organizzazione delle lotte.
Oltre alle ragioni oggettive, ci sono delle ragioni soggettive. Ne esporrò due. La prima: in Grecia molto prima della crisi c’era già un nazionalismo ampio e un certo sentimento anti-europeo. Ci sono alcune basi reali per questi sentimenti, come le esperienze di occupazione da parte degli inglesi e dei nazisti. In Grecia, c’è una sinistra e perfino alcune componenti anarchiche che hanno caratteristiche patriottiche, non dico nazionaliste ma patriottiche. Per questo la sinistra e il movimento greco sono piuttosto auto-centrati. Noi, come Rete per i Diritti Politici e Sociali (Diktio), insieme ad altri gruppi della sinistra internazionalista siamo stati accusati da altre parti della sinistra greca di essere poco realisti, perché sosteniamo la necessità di una lotta e di un’organizzazione internazionale. Questo è molto evidente rispetto ad alcuni temi politici, come la questione delle minoranze che vivono nel nord della Grecia o quella dei migranti. Ad esempio, la richiesta di frontiere aperte viene rivendicata solo da poche componenti della sinistra greca.
Rispetto al tema dell’organizzazione nello spazio europeo, la nostra opinione è che tra i diversi Paesi esistono delle differenze sociali e politiche. Probabilmente, quando un nuovo forte movimento esploderà, questa esplosione accadrà in un territorio nazionale. Nonostante ciò, siamo sicuri che per costruire le condizioni di una vittoria la lotta deve essere organizzata necessariamente a livello internazionale. Oggi, ciò è particolarmente evidente perché subiamo le condizioni di un capitalismo globale, ma era evidente anche prima.
La seconda domanda riguarda la prospettiva politica dei prossimi mesi. Sebbene sia sempre impossibile prevedere quando, dove e a partire da cosa nuovi movimenti sociali potrebbero nascere, vorremmo chiederti quali sono, secondo te, le questioni più importanti che dal prossimo autunno potrebbero innescare nuove lotte.
Risponderò in modo generale, perché vorrei evitare di dire cose di cui non posso essere sicuro. Prima, però, vorrei fare una piccola introduzione sulla differenza di significato che la definizione di “movimento sociale” assume tra Italia e Grecia. In Grecia, dopo il crollo della dittatura nel 1974 c’è stato un forte movimento di operai, agricoltori e studenti. Il movimento, però, è rimasto sotto il controllo assoluto dei partiti di sinistra e del PASOK. Questo controllo politico da parte dei partiti è stato estremamente maggiore rispetto a quello che in Italia il P.C.I. ha provato a esercitare sui movimenti autonomi.
In Grecia, ad esempio, non esiste nemmeno qualcosa di simile all’esperienza dell’ARCI. Non importa quanto moderata sia questa esperienza, perché l’ARCI riflette comunque un certo tipo di esperienza di base e di relativa indipendenza dai partiti che qui da noi non è mai esistita. Il fenomeno dei movimenti controllati dai partiti è stato sfruttato al massimo dal PASOK, che non è un classico partito socialdemocratico europeo. È una cosa paradossale, ma il PASOK è una via di mezzo tra un populismo latinoamericano, tipo peronismo, e la socialdemocrazia tedesca dell’SPD. Dico questo perché il PASOK, quando è stato in grado di concretizzare alcune rivendicazioni dei movimenti, come l’aumento dei salari o il riconoscimento della resistenza nazionale, lo ha fatto integrando i movimenti nella struttura dello Stato. In questo modo, li ha distrutti. Nello stesso tempo, ha implementato e realizzato alcune rivendicazioni della classe dei lavoratori, ma solo attraverso politiche di sostegno sociale clientelari e corrotte.
Possiamo dire che in Grecia i movimenti sociali, cioè quelli radicati nella società, a carattere spontaneo e senza l’egemonia dei partiti, sono un fenomeno che riguarda quasi esclusivamente gli ultimi anni, quando sono esplose mobilitazioni animate da gente comune con l’obiettivo di creare un progetto di lotta condiviso e un nuovo modo di fare politica. È la prima volta, con l’eccezione di alcune esperienze di sindacalismo militante degli anni ’70. In Grecia, prima della crisi c’erano 10 case occupate e 10 centri sociali, adesso ci sono più di 100 occupazioni. Si tratta di un fenomeno di massa, che coinvolge strutture di base, di solidarietà, centri sociali.
Poi, c’è il fenomeno del sindacalismo dal basso, con oltre una decina di esperienze simili, anche se a volte di natura settaria. Inoltre, c’è l’esperienza della VIO.ME., la prima fabbrica autogestita. E ancora, sono nate più di 100 cooperative, anche se non tutte politicamente radicali, e ci sono reti per comprare il cibo senza intermediari. Noi diamo un’attenzione grandissima a questo movimento delle reti di solidarietà. È un movimento che può raccogliere ed educare la gente e può integrare componenti sociali diverse, a livello intergenerazionale. Lo consideriamo come un giardino in cui si possono coltivare nuove esperienze. Allo stesso tempo, non crediamo che queste esperienze possano diventare un soggetto politico rivoluzionario. Siamo convinti che ci sia bisogno di rotture, di trasformazioni, di cambiamenti all’interno della sinistra e crediamo che una simile dinamica di movimento sociale, da sola, non sia sufficiente.
Qui si pone la grande questione. Nessuna parte di questo movimento, né della sinistra politica, è in grado di fare questo passaggio necessario, di cercare questa rottura. Ad esempio, si possono vedere assemblee popolari con centinaia di persone che però funzionano come piccoli parlamenti e che in questo modo allontanano molta gente, perché non è questo ciò che la gente cerca. Ad esempio, quando si tratta di organizzare una lotta su un tema specifico, come la privatizzazione delle spiagge, molte forze della sinistra e degli anarchici vogliono dettare tutta la linea politica. Questo allontana nuove forme di partecipazione.
Per concludere, crediamo che ci siano alcuni spazi di estensione per il movimento sociale e lottiamo perché la sinistra stia in questi spazi. Questo collegamento della sinistra con i movimenti sociali, però, non si può fare in modo tradizionale, cioè dicendo al movimento cosa deve fare e provando a rappresentarlo. La sinistra deve imparare ad adattarsi ai movimenti. Sul come deve farlo non posso aggiungere maggiori dettagli, né indicazioni concrete più precise, perché è un tema su cui anche noi ci stiamo interrogando molto e su cui c’è una discussione in corso.
Ultima domanda. La crescita di SYRIZA ha attirato l’attenzione di tutti i partiti europei della sinistra radicale e anche di quei gruppi che rivendicano la propria autonomia dal sistema della rappresentanza politica e dei partiti, ma si pongono comunque il problema di un rapporto critico e conflittuale con le istituzioni statali. Come sta cambiando SYRIZA dopo le elezioni del 2012? O meglio, come l’assenza di movimenti di massa sta incidendo sul partito? E ancora, che tipo di ruolo strategico SYRIZA si propone di giocare rispetto agli altri partiti della sinistra europea?
Per prima cosa voglio sottolineare che io non sono membro di SYRIZA, ma gli sono vicino e per questo ho consapevolezza di quello che è successo al partito. Perciò, quello che dirò viene da una prospettiva sui generis. Vorrei dire schematicamente alcune cose rispetto alle caratteristiche di SYRIZA. Per storia politica e struttura organizzativa SYRIZA è un partito riformista. A causa delle trasformazioni degli ultimi anni, forse è diventato il partito riformista più radicale. Credo che SYRIZA nei termini programmatici e di pratica politica sia più radicale del Front de Gauche (Francia), o del Bloco de Esquerda (Portogallo) o della Die Linke (Germania). Ci sono due elementi di questa radicalizzazione.
Il primo è che SYRIZA rimane un partito aperto alle pressioni dei movimenti: è questa la causa principale della percentuale raggiunta nelle ultime elezioni. Il secondo elemento è che ha un numero importante di dirigenti medi e alti, e anche di membri ordinari, che sono propensi a realizzare una politica di rottura, non dico rivoluzionaria, ma almeno che rifiuti i compromessi e segua un percorso radicale. Allo stesso tempo, però, SYRIZA rimane un partito molto verticistico, in cui un numero limitato di dirigenti sostituisce perfino il Comitato Centrale del partito, che spesso funge solo da organo di facciata. Oggi, mentre si pone la questione del potere governativo, questa contraddizione è più che mai evidente. Tsipras, ad esempio, da un lato può andare negli USA o ad un incontro con la Confindustria greca, e dall’altro può parlare nel Comitato Centrale di SYRIZA e avere un discorso molto radicale.
Questa contraddizione non riguarda solo alcune idee o una sorta di mentalità, ma attiene anche a un conflitto sulle strategie e sugli interessi. All’interno di SYRIZA ci sono conflitti di interessi su diversi temi, come ad esempio l’energia, le questioni ambientali o anche la costruzione del nuovo stadio dell’AEK. Negli ultimi giorni, all’interno di SYRIZA si è palesata una nuova tendenza composta da 53 firme – tra cui 42 membri del comitato centrale e 11 parlamentari – che hanno cercato di mettere in luce alcune di queste contraddizioni e frenare gli evidenti compromessi che il partito sta realizzando nel tentativo di andare al governo. Secondo me SYRIZA rimane una questione aperta, ma sono molto preoccupato per il possibile risultato finale. Parlerò ora in modo schematico. SYRIZA nell’ultimo periodo parla meno della necessità di un governo di sinistra e più di un governo di salvezza nazionale.
Questo discorso ha conseguenze molto pratiche. Invece di rafforzare la sua politica rispetto ai giovani e alle classi lavoratrici, che secondo me sono gli unici soggetti sociali che possono portare SYRIZA al governo, il partito cerca di moderare la propria retorica politica, farla apparire meno “pericolosa” e tenta di trovare alleanze con altri partiti della sinistra greca. Parentesi, la forza organizzativa di SYRIZA è piccolissima rispetto, ad esempio, al partito comunista [KKE, ndr], ai sindacati o al movimento studentesco. Invece di creare radici sociali e dispositivi organizzativi negli spazi di lavoro e della riproduzione sociale, SYRIZA cerca di aumentare il proprio consenso nella società principalmente attraverso la comunicazione e i media.
Ad esempio, ultimamente i dirigenti di SYRIZA parlano continuamente di “patria”. Noi del Diktio siamo un gruppo piccolo, ma siamo stati i primi a parlare della necessità di un governo di sinistra. Abbiamo detto che solo un governo di sinistra può realizzare una salvezza sociale, non nazionale. Abbiamo anche proposto ad alcuni membri della nostra organizzazione che sono anche membri di SYRIZA un programma transitorio che possa rispondere ad alcune rivendicazioni del movimento, tenendo conto anche del livello della discussione interna a SYRIZA. Ad esempio, abbiamo proposto una legge che vieti i licenziamenti nelle aziende che sono in attivo, perché grazie alla crisi ci sono molte imprese del settore privato che hanno fatto molti licenziamenti. SYRIZA ha rifiutato questa proposta. Questo è solo un esempio.
Per chiudere, ci sono tre possibilità rispetto a SYRIZA. La prima è quella di una sconfitta tragica, in cui il partito finisce per adottare e implementare il programma del nemico, magari abbellendolo un po’. Se ciò dovesse avvenire, il risultato sarebbe l’ennesima vittoria della destra, anche con elementi della destra estrema. La secondo possibilità è una sconfitta dignitosa, cioè l’adozione di un programma più o meno popolare, ma impossibile da realizzare a causa del contrattacco delle classi dirigenti, attraverso i media e le manifestazioni dei crumiri, per scongiurare una possibile vittoria elettorale della sinistra.
La terza possibilità, quella che noi sosteniamo, è la pratica di una discussione aperta e continua con i cittadini, a partire da oggi, in cui SYRIZA affermi chiaramente che vuole implementare un determinato programma e vuole portare avanti un dibattito direttamente con la gente, rafforzando e sostenendo ciò che noi definiamo autorganizzazione popolare e contropotere popolare. Siamo realisti, non abbiamo illusioni, però crediamo che alcune strutture autorganizzate potrebbero tentare di aprire un discorso simile nei confronti di SYRIZA e cercare i modi per organizzare una pressione in questa direzione. Ci sono alcune forze che vogliono lavorare su questa prospettiva politica, anche se credo che SYRIZA non voglia seguire questa linea. Per questo sono molto preoccupato.