Affari italiani
28 05 2014
Venerdì 23 maggio l'epilogo: l'amministratore delegato della società Nuovo Paese Sera ha comunicato alla redazione l'avvio delle procedure di liquidazione della società editrice. Per la storica testata romana, si apre l'ennesima stagione terribile con 5 giornalisti che rimarranno senza stipendio e senza neanche il diritto agli ammortizzatori sociali.
Un'icona della sinistra romana, un quotidiano che ha dato i natali ad un'intera generazione di giornalisti, si prepara aa chiudere. E con esso una delle voci della città. Dietro il fallimento del mensile con versione quotiodiana on line, già frutto si un salvataggio, resta l'ombra dell'ex direttore editoriale Alessio D'amato, chiamato da Nicola Zingaretti a presiedere la cabina di regia della sanità regionale. D'Amato, proprietario del logo, aveva dato nuova vita al giornale con un'iniezione di “pubblicotà amica”, proveniente dalla Regione e dalla Cna romana ma così come era entrato, ha mollato tutto lasciando debiti.
A dicembre era partita l'ennesima operazione di salvataggio. La divisione multimedia di Parsitalia, la società di costruzioni che fa capo al brillante e giovane imprenditore romano Luca Parnasi, si era innamorata della testata, costruendo così una società ad hoc, affidata a Riccardo Pugnalin (ex Sky) che l'avrebbe dovuta rilevare nel tempo. Prima iniezione di liquidità con circa 150 mila euro che servivano a garantitre gli stipendi, poi un progetto di rilancio affidato ad un grupo di consulenti tra cui Giovanni di Giore, già a capo de qiuotidiano Libero. L'impegno economico aveva un duplice obiettivo: assicurare la continuità del giornale, predisporre i piani di sviluppo e aprire una trattativa con dipendenti e creditori per chiudere la partita dei debiti. Invece qualcosa si è inceppato tra contratti e creditori, ragion per cui Parsitalia ha preferito fare un passo indietro, mandando una lettera di disdetta del contratto e l'amministratore della società, Giuseppe Deiana, venerdì scorso ha riunito la redazione e ha comunicato l'imminente chiusura. Ora è conto alla rovescia per la cessazione delle pubblicazioni del quotidiano firmato ancora da Enrico Fontana, che ha voluto garantire sino ad oggi la testata, pur essendo da tempo fuori dal giornale.
Lipperatura
27 05 2014
“Consentitemi un riferimento a una delle grandi, forse la più grande, delle tragedie classiche, Antigone: non combattere battaglie che non sono le tue battaglie. Nella mia idea di Antigone, abbiamo Antigone e Creonte. Sono solo due sette della classe dirigente. Un po’ come Pasok e Nuova Democrazia. Nella mia versione di Antigone, mentre i due membri delle famiglie reali stanno combattendo tra loro, minacciando di mandare in rovina lo Stato, mi piacerebbe vedere il coro, le voci delle persone, uscire da questo ruolo stupido di mero commento saggio, impadronirsi della scena, costituire un comitato pubblico di potere del popolo, arrestare entrambi, Creonte e Antigone, e dare vita al potere del popolo”.
Così Slavoj Žižek due anni fa, in un intervento alla convention di Syriza ad Atene. L’auspicio è bello, ma quale è il lavoro da fare per arrivare a far sì che il coro sia in grado di darsi voce invece di essere contrappunto alle voci principali?
“Te lo si conta noi, com’è che andò. Noi che s’era in Piazza Rivoluzione”, direbbero i Wu Ming (e per motivi comprensibili non ho ancora parlato de L’Armata dei sonnambuli, che molto ha a che fare con i nostri tempi).
Ve lo conto io, allora, da oggi: o almeno ci provo, a giudicare da quanto ho visto in queste settimane.
C’è dunque una parte del coro che sembra parlare molto. E che anzi sembra non fare altro. E che anzi ancora piomba a capofitto dove si parla di più, gridando più forte fino a che non si riesce a cogliere una sola parola, ma che importa? Che importa se la discussione si perde, e la complessità viene ridotta a slogan, che importa visto che più del bersaglio conta quell’istante in cui verrà percepita la mia voce?
Questa è una delle problematiche più dolenti. Riguarda molto da vicino anche i femminismi, da ultimo: che in queste settimane, almeno in molti casi, hanno visto ridursi la complessità del pensiero appunto a slogan, e che dei narcisismi son stati, in alcuni casi, preda. Per il tempo e il modo, non per i contenuti: ma dal momento che tempo e modo contano assai, i contenuti stessi hanno perso forza. Almeno in rete, perché dal vivo (ve lo posso contar io, memore di una discussione non dimenticabile al Maurice di Torino) così non è. E su questo si tornerà, fatalmente e, visto che le apparenti libere scelte sono spesso una questione di potere, foucaultianamente.
Poi c’è un coro che tace perché nessuno ascolta, o se ascolta dimentica subito. Penso alle due anziane donne del Villaggio Lamarmora a Biella. Case popolari, una chiesa, slarghi con erba gialla. Due donne che sono salite da Salerno, anni e anni fa, e in famiglia siamo sette, e il lavoro, signora, non c’è. Penso alla ragazza di Novara, che pone una mano sul mio braccio e dice che sì, Amazon mette i braccialetti ai magazzinieri, ma anche qui, c’è un ipermercato sai?, fa la stessa cosa. I braccialetti che contano i passi, e valutano il ritmo, e se il ritmo cala, ciao, sei fuori. Penso a Maria Baratto di Acerra, anni 47, operaia in cassa integrazione del reparto logistico Fiat a Nola, suicida sette giorni orsono mentre noi si contava, e con noi tutti gli altri - inclusi i responsabili - che si è persa la dignità del lavoro. Penso al film dei fratelli Dardenne, e alla fabbrichetta di pannelli solari che deve ristrutturare, e dunque licenzia la dipendente e chiede ai colleghi di votare a favore del provvedimento in cambio di un bonus di mille euro. Due giorni, una notte, e la nostra fotografia: condannati a dire grazie in cambio delle briciole che cadono dalla tovaglia, e pensa se non ci fossero neanche le briciole, e poche fisime, per favore, che siamo in crisi.
Allora, per ridare parole a quella parte del coro che non le possiede, e per far sì che quella che dice di parlare in suo nome infranga lo specchio in cui viene condannata a riflettersi, il lavoro è lungo. E per proseguirlo bisogna ripulire l’aria dai veleni che siamo così abituati a respirare da considerarli la più fresca delle brezze. Fine primo capitolo, fine dell’Antigone originale:
I gran vanti
dei superbi, da duri castighi
colpiti, ammaestrano
troppo tardi, a far senno, i vegliardi.
Il Manifesto
20 05 2014
L’Europa non cambia verso. Più forti della propaganda delle cancellerie sono i numeri. E i dati Eurostat diffusi ieri non lasciano scampo: il tasso di occupazione nel Vecchio continente è diminuito nel 2013 per il quinto anno consecutivo. Nonostante le «riforme» tanto care a Bruxelles, Berlino e Franconforte, la tendenza generale all’abbassamento delle tutele per i lavoratori non produce risultati positivi: l’incidenza di persone con un impiego sul totale della popolazione continua a ridursi.
Il dato complessivo sui 28 Paesi Ue è negativo (68,3%, pari a –0,1% rispetto all’anno precedente), ma lo è molto di più quello riferito all’Italia, dove il calo è dell’1,2%. Il tasso del 2013 ammonta al 59,8%, che rappresenta un ritorno ai livelli di occupazione del 2002. Nel 2008, all’inizio della «grande crisi», a lavorare erano 63 cittadini italiani su 100. Peggio del Belpaese stanno soltanto la Grecia (ultima in classifica con il 53,2%), la Croazia (53,9%) e la Spagna (58,2%).
Commentando questi numeri, il premier Matteo Renzi (che ha ricevuto in visita ufficiale il collega polacco Donald Tusk) ha rilevato che nel 2013 «sul lavoro si è toccato un punto molto basso», ma inizia «a vedere i segni di una ripresa». Dove, è un mistero.I dati diffusi ieri dall’isituto ufficiale di statistica della Ue fanno il paio, infatti, con quelli resi noti la scorsa settimana in relazione alla crescita del primo trimestre 2014 (-0,1%) e alla disoccupazione che non accenna a diminuire in modo considerevole.
I Paesi dell’Unione in miglior stato di salute sono Svezia e Germania, con tassi rispettivamente del 79,8 e del 77,1%. Positivo è anche il dato del Regno Unito, dove la percentuale di occupati è cresciuta lo scorso anno dello 0,7. Un impercettibile miglioramento si è registrato in Francia (+0,1), dove il tasso era cresciuto di poco già l’anno precedente. Tra i migliori della classe, Repubblica ceca, Estonia, Irlanda dove la cifra degli occupati è cresciuta di oltre l’1%. La performance migliore è quella del più piccolo stato della Ue, Malta: le statistiche fanno registrare un incremento della percentuale di persone al lavoro di quasi 2 punti.
Rispetto agli obiettivi fissati dalla strategia della Commissione di Bruxelles «Europa 2020», proprio la piccola isola-stato è uno dei due Paesi ad averli centrati: l’altro è la Germania. Certo, questi numeri sono una spia dello stato di salute macroeconomico, ma non dicono molto (anzi, nulla) della qualità del lavoro che viene «misurato»: dall’impiego a tempo indeterminato a quello intermittente e precario tutto finisce nello stesso calderone. Un dato disaggregato offerto da Eurostat è quello relativo al tasso di occupazione delle persone tra i 55 e i 64 anni: in quel particolare segmento, l’Italia cresce. L’aumento rilevato è consistente: +2,3%, oltre la media Ue, che è pari all’1,3%. Che sia una buona notizia, è tutto da dimostrare: bisognerebbe chiedere ai lavoratori che hanno subito gli effetti della «riforma» Fornero che cosa pensino al riguardo.
E a proposito di età pensionabile, ieri in Germania è arrivato il via libera definitivo, sul piano politico, alla modifica della normativa che riguarda i lavoratori con maggiore anzianità. Dopo il salario minimo legale a 8,5 euro l’ora, è un’altra promessa elettorale dei socialdemocratici della Spd che si realizza: le persone che hanno alle spalle 45 anni di lavoro potranno ritirarsi a 63 anni. Si tratta di una deroga al principio «sacro» della pensione a 67 anni, che arriva dopo anni di battaglie dei sindacati (molto soddisfatti della novità) e dopo una difficile trattativa fra i partiti della grosse Koalition.
Il Manifesto
13 05 2014
Tre anni fa, nel giugno 2011, la maggioranza assoluta del popolo italiano votò un referendum per dire che l'acqua e i beni comuni essenziali alla vita delle persone e garanzia dei diritti universali, dovevano essere sottratti alle regole del mercato e riconsegnati alla gestione partecipativa delle comunità locali ...
Il Fatto Quotidiano
07 05 2014
“Liste di proscrizione, minacce di licenziamenti e contratto nazionale non rispettato. Siamo pronti alla lotta”. La sintesi è del sindacato Si Cobas, che è tornato a protestare al magazzino Ikea di Piacenza, portando davanti ai cancelli circa 200 lavoratori. Una manifestazione, iniziata alle 5 del mattino, che si era da subito radicalizzata con gli operai che hanno cercato di bloccare la produzione ma l’intervento delle forze dell’ordine, in stato anti sommossa, ha fatto desistere. Non sono mancate le manganellate, che hanno lasciato a terra alcuni lavoratori contusi. “Perché ci hanno picchiato?” si sono chiesti in molti. “Stiamo solo cercando di far valere i nostri diritti e invece siamo stati caricati con violenza”.
Sembra di essere tornati indietro nel tempo all’Ikea di Piacenza, il più grande centro di smistamento per il sud Europa della multinazionale svedese, che aveva già conosciuto in passato le proteste e gli scontri con le forze dell’ordine. Il focolaio è riesploso a causa della decisione, da parte della cooperativa San Martino (che gestisce il personale insieme alla Sigma, ndr) di sospendere 33 lavoratori. Un provvedimento che la coop ha giustificato adducendo ad una occupazione da parte di alcuni facchini di un reparto all’interno dello stabilimento per alcune ore, a seguito del cambio di mansione di un collega al quale era scaduta il patentino da carrellista. I lavoratori, per timore di vedere escluso il compagno, avrebbero bloccato l’attività del reparto. Differente la versione del sindacato di base, non riconosciuto dalla dirigenza ma maggioritario in quanto rappresentanza: “Vogliono escludere i nostri tesserati e ci hanno inviato delle lettere di sospensione non motivate”, hanno detto i sindacalisti Bruno Scagnelli e Roberto Luzzi.
E così è tornato il braccio di ferro tra Ikea e le coop che gestiscono i facchini da una parte e i Cobas dall’altra. “Ci lasciano a casa per pause caffè troppo lunghe”, avevano detto alcuni lavoratori appena erano stati raggiunti dal provvedimento. “La costante azione antisindacale svolta dalle cooperative San Martino e Sigma torna ad esprimersi con liste di proscrizione e minacce di licenziamenti con la copertura del colosso multinazionale del mobile low cost”, hanno risposto i Si Cobas in un comunicato stampa, redatto dopo l’incontro con la cooperativa che ha portato all’ennesimo nulla di fatto: “Non c’è stata trattativa, perché la coop si è presentata senza responsabile sindacale e a chi ci ha parlato ha detto di non avere autorità di dare risposte. Hanno difeso le sospensioni che però è illegittimo senza sentire i lavoratori come prevedono le norme” ha chiarito Roberto Luzzi del Si Cobas.
A prendere posizione contro questa versione è stato il presidente regionale di Confcooperative, Francesco Milza: “A un carrellista era scaduto il patentino utile a guidare il mezzo e, per la sua sicurezza e quella degli altri, era stato destinato ad altra attività. I loro compagni, invece, hanno colto l’occasione per occupare un intero reparto bloccando la produzione per alcune ore. E’ un atteggiamento che non possiamo tollerare” ha spiegato. Il quale ha aggiunto, volendo essere molto chiaro: “In un momento così delicato per il mondo del lavoro non ci sogneremmo mai di sospendere qualcuno per pause caffè o perché non ha il patentino rinnovato. Molto semplicemente per certe attività è necessario un documento rilasciato dopo visita medica. Il dipendente non avrebbe perso giorni di lavoro o lo stipendio ma sarebbe solamente stato cambiato di mansione in attesa di vedersi rinnovato il documento”.
La vicenda è stata richiamata ieri anche in Consiglio comunale, con il consigliere comunale di sinistra Carlo Pallavicini che si è schierato a favore dei facchini. “Ancora una volta – ha detto – Piacenza ha perso un’occasione per sviluppare la logistica che si conferma sempre più terreno di sfruttamento”. Ora il sindacato di base, a seguito di un’assemblea davanti ai cancelli, ha deciso di inviare le proprie richieste in forma scritta alla cooperativa in attesa di una risposta. Se non dovesse arrivare, hanno assicurato, “siamo pronti a protestare ad oltranza e a cacciare queste cooperative da Ikea”.