La Stampa
19 04 2015
«Siete lenti, la gente vuole prendere il treno in fretta, fatevi da parte». Questo si sono sentiti dire un gruppo di sette ragazzi portatori di sindrome di Down mentre erano in fila alla biglietteria della stazione di Conegliano, in Veneto. I giovani, di età compresa tra i 24 e 31 anni, sono stati costretti a prendere il regionale successivo, quasi due ore dopo. Giunti a Mestre, lo spiacevole bis. «Non posso farvi il biglietto per Venezia, perderei solo tempo», avrebbe detto un operatore di Trenitalia. Lo stesso dipendente, invece di stampare i biglietti ai ragazzi, si è poi rivolto all’accompagnatrice: «Lasci perdere, mi ascolti. Ho più esperienza di lei: questi ragazzi non sono in grado di imparare. Se fate voi il biglietto per loro fate un favore alla comunità».
Un sabato di ordinaria discriminazione. Che la Onlus- la sezione marchigiana dell’Associazione Italiana Persone Down - ha deciso di denunciare pubblicamente diffondendo anche le foto dei giovani coinvolti. «I ragazzi dovevano comprare i biglietti da soli perché questa azione faceva parte del percorso di autonomia che stanno seguendo: avrebbero fatto un weekend a Venezia coi nostri operatori e volontari», racconta la coordinatrice Eliana Pin. Che si dice amareggiata e indignata: «Sono troppe le persone che si prendono il diritto di giudicare il nostro lavoro, senza conoscerlo e senza sapere che per praticarlo ci vogliono dei titoli di studio, degli aggiornamenti e dei corsi continui, oltre che esperienza». Oltre il danno, la beffa: per legge i ragazzi disabili dovrebbero saltare la fila. «Ma loro si sono messi in coda - conclude Eliana - chiedevano solo di essere trattati come tutti gli altri passeggeri».
«Sono Down, mica scemo», dice Michele, 25 anni, uno dei novanta ragazzi seguiti dalla Onlus. Stando alla denuncia dell’Associazione, però, qualcuno ha preferito discriminare la comitiva. Trenitalia si dice pronta a condannare quanto accaduto. «Se gli approfondimenti confermeranno tali atteggiamenti irrispettosi e offensivi non mancheremo di sanzionarli, come previsto dalle proprie norme interne», si legge in una nota inviata dalla compagnia.
Il Manifesto
18 05 2015
La prima volta che Maria ha vissuto un episodio di discriminazione sulla sua pelle era ancora una bambina. «Con i miei genitori giravamo con le carovane, ma dovunque ci fermavamo ci mandavano via. Neanche ai bambini permettevano di mangiare», racconta. Oggi che ha 76 anni e qualche ruga sul viso frutto forse anche dei tanti rospi che è stata costretta a mandare giù, Maria Bertani, sinti da Mirandola, in provincia di Modena, all’idea di non essere considerata una cittadina come tutti gli altri non si è ancora abituata. «Se ho subito discriminazioni?», chiede sorridendo di fronte a una domanda che evidentemente considera ingenua. «Mio marito ha sempre lavorato, ma sempre in nero, a noi contratti non ne fanno. Oggi forse le cose sono cambiate, ma non credo».
Di storie così al corteo che ieri ha attraversato le strade di Bologna se ne potevano sentire a decine. E per quanto assurdo ti viene da pensare che, per quanto odiose, le discriminazioni subite da Maria sembrano poca cosa di fronte agli insulti, le minacce, le intimidazioni divenute ormai il pane quotidiano di rom e sinti. Violenze che le due comunità subiscono in un Paese che — ci tengono a sottolinearlo — è il loro Paese. E proprio per questo forse fanno ancora più male. «C’è il rischio che contro di noi si verifichi un nuovo Olocausto», ripete da giorni Davide Casadio, presidente dell’associazione sinti italiani che ha promosso la manifestazione. Il giorno scelto non è casuale: il 16 maggio del 1944 rom e sinti si ribellarono nel capo di Auschwitz ai nazisti che volevano sterminarli.
Oggi, dicono, si sentono le stesse parole e si vedono gli stessi comportamenti che precedettero in Italia il varo delle leggi razziali. L’elenco è lungo. Si va dal leghista Gianluca Buonanno che insulta in tv l’attrice e attivista rom Dijana Pavlovic — anche lei al corteo — definendola «feccia dell’umanità» alla trasmissione che paga un attore perché si finga un rom e dica che va a rubare al tentativo di impedire ai bambini di un campo alla periferia di Roma di andare a scuola. E Matteo Salvini propone di spianare i campi rom con le ruspe. «C’è dell’odio che gira» sintetizza bene Alessandro Bergonzoni. «Rom e sinti hanno paura perché c’è una situazione di grande degrado interiore della politica. Ricordare l’Olocausto per un giorno non significa niente, dovrebbe essere sempre con noi. Si può istituire un giorno per ricordarsi di respirare? No. Si stima che siano 500 mila i rom e i sinti sterminati nei campi di concentramento, dovrebbe essere normale avere paura che il nazismo prenda piede. Allora noi siamo qui perché il cittadino deve essere allertato».
Prima della manifestazione in via Gobetti viene deposto un mazzo di fiori davanti al ceppo che ricorda due sinti uccisi dalla banda della Uno bianca. In testa al corteo i musicisti suonano l’inno d’Italia, Bella ciao e musiche da chiesa. Ci saranno un migliaia di persone, ma il numero non conta. «Ci sono rappresentanti delle comunità di tutta Italia», spiega Casadio. C’è da crederci, a sentire i vari accenti che dialogano lungo il corteo al quale partecipano anche diversi gagé. Oltre a Bergonzoni c’è Ivano Marescotti. La politica è rappresentata solo da Pd (la deputata Sandra Zampa, i senatori Luigi Manconi e Sergio Lo Giudice). Non c’è Sel. Alcune persone portano cartelli con scritti articoli della Costituzione: diritto allo studio e al lavoro, libertà di circolazione, tutela della salute. Diritti che — spiegano — non sono riconosciuti a rom e sinti. Ci sono poche donne, per paura di contestazioni da parte di Forza Italia e Forza Nuova che hanno organizzato presidi di protesta. Ma si avverte anche una certa sottolineatura di troppo dell’identità sinti rispetto a quella rom: «Siamo due popoli differenti, ma oggi vogliamo dire a tutti che non siamo ladri come veniamo descritti».
Non capita tutti i giorni che rom e sinti decidano di indire una manifestazione nazionale per difendere i propri diritti. L’ultima volta fu nel 2008, quando l’allora ministro degli Interni Maroni propose di prendere le impronte digitali a tutti i «nomadi». Rispetto ad allora, però, le cose oggi sembrano molto peggiori. In Italia, certo, ma anche in Europa i segnali di allarme per una crescente intolleranza verso le minoranze, rom e sinti in testa, non mancano. Solo pochi giorni fa l’ong European network against racism ha denunciato l’aumento dei crimini a sfondo razziale: più di 47 mila nel solo 2013, la maggior parte contro ebrei, neri, musulmani, rom e asiatici. Ma questa sarebbe solo la punta dell’iceberg: molte volte le aggressioni non vengono denunciate. Casi di violenza e abusi contro i rom crescono in quasi tutta l’Ue.
«Attaccare rom e sinti e la cosa più facile, perché non sono organizzati, non hanno uno Stato che li difenda», spiega Dijana Pavlovic, che ha promosso un disegno di legge di iniziativa popolare per il riconoscimento dello stato di minoranza storico-linguistica di rom e sinti. «Certo, ora siamo in campagna elettorale e i razzisti pensano che tutti questi attacchi servano a raccogliere voti. Ma poi le elezioni passano, invece l’odio rimane» dice. Le fa eco Casadio: «Salvini è un razzista, perché il razzismo è sentire gli altri meno importanti. Ma noi abbiamo combattuto per la Resistenza e il Paese. Siamo d’accordo per la chiusura dei campi, ma non con le ruspe. Noi non li abbiamo mai voluti i campi, siamo stati costretti a viverci dalle varie politiche».
Il corteo si chiude a piazza XX Settembre. «Credo di sapere da dove nasce l’odio che si avverte in giro — dice Manconi in rappresentanza del presidente del Senato Pietro Grasso -: dall’oblio, dalla smemoratezza, dalla cattiva memoria di tanti su ciò che siamo stati. Solo chi dimentica ciò che siamo stati può odiare i sinti e i rom. La violazione dei diritti di uno di voi è una violazione del popolo italiano».
Ingenere
18 05 2015
Perché una donna transessuale nei bagni delle donne viene percepita come una violenza? Alla vigilia della giornata mondiale contro le omotransfobie, un'analisi sul potere normativo degli spazi rispetto ai corpi.
Brunella Casalini e Stefania Voli
Era il 2006 quando l'onorevole Elisabetta Gardini dichiarava di essere rimasta traumatizzata dall'incontro nei bagni della Camera con Vladimir Luxuria. La notizia arrivò allora fino a BBC News che, dopo aver ricordato i momenti salienti della vicenda, citava queste parole della Gardini: "L'ho vissuta come una violenza sessuale, mi sono veramente sentita male".
Perché una donna transessuale nei bagni delle donne viene sentita come una minaccia di violenza sessuale? Perché fa così paura la discordanza tra il genere con il quale una persona si identifica e quello con il quale viene riconosciuta dagli altri? Perché la transfobia si manifesta in modo violento sul piano morale, e, talvolta persino fisico, quando l'incontro con il corpo trans avviene in un bagno pubblico? Si ricorderà la grave aggressione avvenuta ai danni di una transessuale da parte di due adolescenti afro-americane nelle toilet di un McDonald a Baltimora nel 2011, diventata virale su Youtube.
Ci spinge a tornare a riflettere su toilet e transessualismo ciò che sta accadendo in questi ultimi mesi in Canada e in diversi stati degli Stati Uniti d'America, dove è in corso una vera e propria battaglia legale per cacciare i transessuali dai bagni degli uomini e le transessuali dai bagni delle donne. In Arizona, in un parlamento dominato dai repubblicani, il 21 marzo è stata presentata una proposta di legge per riconoscere come reato l'uso di bagni, docce, toilet e spogliatoi riservati a un sesso da parte di persone di sesso diverso da quanto indicato nel certificato di nascita: le pene suggerite arrivano fino a sei mesi di carcere. Analoghe proposte di legge sono state presentate in Kentucky, Florida, California, Nevada e Texas. Gli oppositori della proposta di legge avanzata in Kentucky, che riguarda persino i bagni scolastici, parlano di bathroom bully bill, ovvero di un progetto di legge che favorirebbe il bullismo, abituando i bambini a giudicarsi sulla base del sesso biologico e delle discrepanze rispetto al modo, percepito come “normale”, di esprimere il genere sentito. Teagan Widmer – una donna transessuale amministratrice di una app che ha lo scopo di fornire una mappa dei bagni unisex in tutto il mondo – sostiene che dietro queste iniziative legislative c'è una vera e propria cultura della paura rispetto all'uso del bagno pubblico, una paura ricondotta al pericolo della violenza sessuale in modo irrealistico e pregiudiziale, in quanto non è di certo un cartello con l'indicazione “uomini” o “donne” ad allontanare eventuali aggressori.
Prendendo spunto da queste ultime osservazioni vorremmo soffermarci prima sulle particolari caratteristiche di quello spazio che è la toilet pubblica e quindi tornare a riflettere sulla natura delle paure suscitate dalle persone non conformi al binarismo di genere.
Le toilet pubbliche sono luoghi dove pubblico e privato si intersecano e si sovrappongono, luoghi immaginati per corpi segregati dal punto di vista biologico in maschi e femmine, e adibiti, nel rispetto di precise norme di privacy, all'esercizio di quelle funzioni escrementizie intorno alla cui regolazione ruota una parte importante dei processi di disciplinamento e controllo sociale. La trasgressione dei confini di genere potrebbe, allora, risultare ancora meno accettabile nei bagni, per due ordini di motivi: da una parte, perché questa mette “in discussione l’applicazione di genere sull’/uso/dei genitali”; dall'altra, perché mette in discussione i confini stessi del corpo[1].
Poiché dai saperi medici deriva la consuetudine di sovrapporre l’identità individuale con la forma dei genitali, e poiché l’uso che dei genitali si fa seguire un preciso copione di genere, l’ingresso di persone dal genere (e dai genitali) indefiniti, è foriero di sensazioni di disordine e ansia in uno degli spazi dove convenzionalmente l’ordine discorsivo e corporeo eterosessuale è affermato con più forza. Inoltre, qui la perdita dei fluidi corporei è già di per sé percepita come una minaccia ai confini stessi del corpo: “In altri termini, laddove i corpi si mostrano come instabili e porosi, la fluidità tra i generi può essere più minacciosa; quando un confine (quello corporeo) viene contravvenuto, altri (uomo/donna) devono essere più intensamente protetti”[2].
Persone intersessuali, transessuali, transgender e in generale tutte le persone la cui immagine di genere appare come non conforme alla norma, hanno difficile accesso a questo spazio per il loro destabilizzare il binarismo sessuale e la corrispondenza sesso/genere. Per esempio, come l’accesso di un corpo femminile al bagno delle donne costruisce, attraverso la sua ripetizione, una relazione di potere socio-spaziale che conferma il binarismo sessuale, così l'ingresso di lesbiche butch mascoline o donne transessuali viene percepito come una trasgressione che mette in pericolo il regime che sostiene e struttura la finzione naturalizzata della distinzione maschi/femmine. Parliamo di finzione perché anche dal punto di vista strettamente biologico – come da tempo riconosce la scienza – la naturalità della distinzione maschio/femmina non è solo negata dall'esistenza delle persone intersessuali, ma dalla stessa incertezza sul criterio ultimo in base al quale viene stabilito e assegnato il sesso “naturale” (cromosomi, anatomia, ormoni, gonadi).
Le omo-lesbo-trans-fobie non agiscono dunque solo per escludere. L'esclusione è l'effetto più immediato ed evidente dell’esercizio di controllo e disciplinamento dei corpi su cui si fonda l'eteronormatività e il binarismo sessuale. La paura della perdita di tale esercizio si costituisce come la prova dell’instabilità di quelle stesse norme. Mettendo in dubbio con la propria presenza la naturalità della distinzione maschio/femmina, mascolinità/femminilità il corpo trans diventa (s)oggetto di violenza fisica, commenti aggressivi e atteggiamenti di disgusto.
Le omo-lesbo-trans-fobie, come sottolinea Lingiardi, presentano caratteristiche particolari rispetto ad altre forme diffuse di fobia (come, per esempio, la paura degli spazi aperti o chiusi o la paura dei ragni). Chi è affetto da questo genere di paura fobica, infatti, non ha dubbi sulla normalità della propria reazione, non prova disagio e non sente bisogno di liberarsi da questa paura. Se chi ha paura degli spazi aperti o dei ragni reagisce attraverso una reazione di evitamento, nel caso delle omotransfobie la reazione può consistere nell'evitamento o in comportamenti deliberatamente aggressivi. Considerate queste differenze, si può dire che dietro la transnegatività, così come dietro l'omonegatività, non si dia solo la paura, ma anche un giudizio negativo fondato sul pregiudizio e sulla disapprovazione. Il corpo trans o il corpo dell'omosessuale (che non riesce o non vuole nascondere il proprio orientamento sessuale) vengono investiti di accuse di perversione, sporcizia e persino immoralità, che la loro presenza nello spazio della toilet pubblica sembra evocare anche per la stessa collocazione di questo spazio all'intersezione di discorsi che hanno a che fare con la sessualità, la moralità, il corpo e l'igiene.
Se le proposte di legge avanzate in molti stati americani chiedono un uso del bagno pubblico segregato sulla base del sesso indicato sul certificato di nascita, possiamo bene immaginare quali conseguenze ciò avrebbe per i/le persone trans. Del resto, lo ha mostrato in modo eloquente Brae Carnes, una ragazza canadese transessuale di 23 anni, che ha dato il via a una protesta a colpi di autoscatti postati sui social media, che la ritraggono mentre si trucca nel bagno dei maschi, per dimostrare quanto il suo corpo sia fuori luogo e, potenzialmente, in pericolo, in quello spazio tanto quanto nel bagno delle donne. Dopo di lei, persone trans in tutti gli Stati Uniti hanno iniziato a postare – con il tweet #WeJustNeedToPee – immagini di sé nei bagni del genere loro assegnato alla nascita, per mettere in evidenza non solo le ragioni della loro presenza in quel luogo (“Abbiamo solo bisogno di pisciare”), ma anche e soprattutto il paradosso rappresentato dalla loro immagine riflessa negli specchi dei bagni per “donne” o per “uomini”.
Da un sondaggio condotto a Washington D.C. nel 2013 emergeva che al 18% dei transessuali intervistati era stato negato almeno una volta l'accesso ai bagni pubblici, il 68% aveva sperimentato almeno una volta aggressioni verbali e il 9% almeno una volta aggressioni fisiche. Date queste difficoltà ad usare le toilet pubbliche, molti transessuali confessano di cercare di evitarle il più possibile e alcuni hanno persino dichiarato di soffrire di problemi ai reni o di infezioni urinarie derivanti dal trovarsi spesso a non poter ricorrere al bagno pubblico (si veda anche il film documentario di Sylvia Rivera, del 2010). Oltre che un comportamento che alla lunga crea anche possibili danni alla salute, l'uso dei bagni pubblici è quindi un fattore importante dello “stress da minoranza” e l'impossibilità di ricorrervi per evitare aggressioni verbali e fisiche può costituire una limitazione nella libertà di movimento nei luoghi pubblici e nel posto di lavoro e, in altre parole, nell’accesso ad una piena cittadinanza.
Sally R. Munt scrive che, nella sua esperienza di lesbica butch, le toilet pubbliche sono diventate “uno spazio di disagio”, un luogo da evitare cercando rifugio nelle toilet per disabili, “uno spazio queer e privo di stress”[3]. In questa prospettiva è chiaro che la diffusione di toilet unisex, neutre rispetto al genere, può essere ritenuta sempre più una questione di equità dalle persone che si collocano al di fuori del binarismo di genere. Considerato che il nostro paese si conferma in Europa in fondo a tutte le classifiche in tema di atti di intimidazione, bullismo e intolleranza verso le persone lgbtqi - secondo l'ultimo rapporto ILGA trentaquattresimo su quarantanove paesi rispetto alla categoria "hatecrime e hatespeech"[4] - parlare di queste cose, e ricordare che esistono anche buone pratiche consigliate per le aziende in materia di bagni pubblici, non è affatto superfluo.
Le toilet unisex, d'altra parte, potrebbero essere un modo per superare un’altra evidente discriminazione connessa alla rappresentazione dei bagni pubblici: quella dei bagni riservati alle persone disabili, dal punto di vista iconografico ridotte all’immagine di una carrozzina. Come se la disabilità fosse un tratto talmente potente da obliterare genere, sesso e sessualità, escludendo a priori chi ne usufruisce delle questioni sopra discusse.
NOTE
[1] Crocetti 2012: 296
[2] Browne 2004: 338
[3] Munt 2001: 102-103
[4] Per un approfondimento sulla situazione delle persone trans, si veda anche il sito Trans Respect versus Transphobia
Bibliografia
Browne Kath 2004, Genderism and the Bathroom Problem: (re)materialisting sexed sites, (re)creating sexed bodies, in “Gender, Place, Culture”, 11, 3, pp. 332-346.
Butler Judith 2013, Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell'identità, Laterza, Bari.
Clarke-Billing Lucy 2015, Brae Carnes: Trans woman launches protest over law that would force her to use men's bathrooms – 'It's disgusting and dangerous', Indipendent, 9 March:
Crocetti Daniela 2012, Che cosa fanno realmente i genitali?, in E. Bellè, B. Poggio, G. Selmi, Attraverso i confini del genere. Atti del Convegno, Centro di Studi Interdisciplinari di Genere, Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale, Università di Trento.
Di Pietro Lorenzo 2014, "Omofobia, la mappa dell'odio in Europa. E l'Italia è il paese che discrimina di più", L'Espresso, 28 luglio
Fausto-Sterling Anne 1993, The Five Sexes: Why Male and Female are Not Enough, in “The Sciences”, March/April, pp. 20-25.
Herman Jody L. 2013, Gendered Restrooms and Minority Stress: The Public Regulation of Gender and its Impact on Transgender People’s Lives
Holliday Ruth e Hasard John 2001, "Contested Bodies. An Introduction", in R. Holliday e J. Hasard (a c. di), Contested Bodies, Routledge, London-New York, pp. 1-17.
Lingiardi Vittorio, 2007, Citizen Gay. Famiglie, diritti negati e salute mentale, il Saggiatore, Milano.
Munt, Sally R. 2001 "The butch body". In: Holliday, Ruth and Hassard, John (eds.) Contested bodies. Routledge, London and New York, pp. 95-106
Taylor Marisa 2015, "The growing trend of transgender ‘bathroom bully’ bill", Aljazeera America, 1 April
Il Manifesto
05 05 2015
Terre di Mezzo. La campagna mediatica del governo cinese contro le donne single emancipate e per il loro ritorno in famiglia in nome della pace sociale. Un recente saggio sulle «Leftover».
«Il mio libro suggerisce che le campagne mediatiche sponsorizzate dal governo a proposito delle donne leftover, fanno parte di un complesso ritorno alla diseguaglianza di genere nella Cina post socialista. Una tendenza particolarmente evidente negli ultimi anni di riforme di mercato». È una frase di Leta Hong Fincher tratta dal libro, recentemente pubblicato, che ha come titolo Leftover Women, the resurgency of gender inequality in China (Asian Arguments, 16,21 euro) nel quale la società cinese viene analizzata attraverso numerose interviste e indagini, arrivando alla conclusione che la Cina vive ancora oggi una profonda diseguaglianza tra uomini e donne, essendo una società basata su fondamenta tipicamente maschiliste. Alcune delle travi che reggono questa tendenza a una rinnovata diseguaglianza di genere appartengono alla storia e alla tradizione culturale del paese. Ma quello su cui l’autrice insiste è che proprio questa «rinnovata» diseguaglianza sia promossa dallo stesso Stato cinese, alla luce delle riforme che hanno portato la Cina ad aprirsi ai capitali «stranieri».
Nel rigoroso libro di Leta Hong Fincher c’è una critica profonda nei confronti di una società che è spesso «manovrata» dalla propaganda di Stato, un ingranaggio perfetto messo in campo per «suggerire» alla popolazione comportamenti specifici su questo o quel tema. A questo va aggiunto un atteggiamento di ostilità statale per chi «devia» dal retto cammino riscontrato anche nel recente caso delle cinque attiviste femministe arrestate l’8 marzo scorso. In Cina ogni vicenda sociale, viene fatta rientrare all’interno della complessa questione del «mantenimento della stabilità». In questo senso, questioni precise, come quelle relative alla diseguaglianza di genere, sono trattate alla stessa stregua di un attivismo che mira a «complicare» la vita ai guardiani del Paese.
La questione di genere viene dunque catalogata all’interno della logica che mira al mantenimento della stabilità e della presunta armonia sociale di una Cina, paese che nel terzo millennio si ritrova ancora intrisa di confucianesimo (e preda di alcuni suoi concetti retrogradi e conservatori). Potremmo evidenziare tre direttrici nel volume: l’analisi del concetto di «leftover», la diseguaglianza di genere, sancita dalla diseguaglianza economica tra i sessi, «promossa» secondo l’autrice dalle politiche del governo; a corollario di ciò c’è la indubbia capacità mediatica del governo cinese di fare presa sulle donne, con lo scopo di mantenere le differenze di genere.
La nozione di «leftover» è complessa. Con il termine si indica solitamente una donna «che avanza», cioè è una donna single in età non più «da marito» perché ha privilegiato altri aspetti della vita. Il tutto contribuisce a creare un quadro nel quale le donne «leftover» vengono descritte in preda al più bieco carrierismo e soggiogate dall’avidità e dall’opportunismo. In realtà, secondo l’autrice, le donne «leftover» altro non sono che una costruzione mediatica per spingere le donne al matrimonio, in un paese che ha un grave disequilibrio tra numero di uomini e donne, anche a causa delle passate politiche di controllo delle nascite, che Pechino ha cercato di modificare solo recentemente con la riforma della legge del figlio unico, in base alla quale le coppie sposate possono avere avere più di un figlio a differenza del passato.
In Cina gli uomini sotto i 30 anni di età sarebbero 20 milioni in più delle donne con le stesse caratteristiche anagrafiche. Uno squilibrio pericoloso per una società percorsa da tante tensioni sociali (la famiglia viene vista come il riparo da strane idee politiche). Non a caso il nuovo presidente Xi Jinping ha insistito molto sul concetto di «famiglia» che finisce per ancorare il ruolo della donna a quello del passato: custode della casa e responsabile dell’educazione dei figli. Un ritorno al passato che non coincide con l’avvenuta emancipazione di molte donne nella società cinese, ma che costituisce la coordinata seguita dal governo per tutto quanto concerne le politiche sulla famiglia. «In un certo senso, scrive l’autrice, le donne «leftover» (shengnu) non esistono. Sono una tipologia di donne sottolineata dal governo per raggiungere i propri scopi demografici e per promuovere i matrimoni, pianificare le politiche della popolazione e mantenere la stabilità sociale».
La campagna governativa contro le shengnu è stata durissima, fatta da editoriali, trasmissioni televisive (con plot prestabiliti), nelle quali era sottolineato che la società cinese non ha alcuna «sintonia» con queste donne e che diventare una «leftover» equivaleva a una sciagura. Nelle sue ricerche e interviste l’autrice arriva al punto: la campagna mediatica e di propaganda del governo ha funzionato. Molte delle donne che la giornalista ha intervistato, si sono dette terrorizzate dall’idea di diventare «leftover», un avanzo della società, nonostante una posizione economica e lavorativa di tutto rispetto (e questo spiega il grande successo delle agenzie di matchmaking cinesi, un mercato immenso). Ma anche sulle questioni economiche, l’autrice del volume non si è fermata alle apparenze. Secondo Leta Hong Fincher, infatti, il vero discrimine tra uomini e donne nella società contemporanea non si riscontra solo e soltanto analizzando la questione economica, bensì insistendo proprio sul «nuovo» concetto – per la Cina — di proprietà. Sono gli uomini, infatti, a porre il proprio nome quando viene comprata, anche in coppia, una casa.
L’appartamento, il bene più prezioso per i cinesi, oggi, è proprietà per lo più maschile. E se la crescita cinese si è basata proprio sullo sviluppo del mercato immobiliare, le vere escluse da questo processo di arricchimento, sarebbero proprio le donne (parliamo di un giro d’affari, quello immobiliare in Cina, che a fine 2013 era di circa 30 triliardi di dollari e che ha finito per creare gran parte di quella schiera di uomini etichettati come i «nuovi ricchi cinesi»). A questa situazione avrebbe contribuito e non poco la legislazione cinese (e l’ufficiale All China Women’s Federation, che svolge per le donne lo stesso ruolo che svolgono sui luoghi di lavoro i sindacati) che nelle leggi che regolano il matrimonio consentire all’uomo di detenere il diritto di proprietà, rendendo la vita difficile alle donne che, in caso di divorzio, avessero voluto dimostrare la propria partecipazione all’acquisto della casa. Da quanto emerge dalle ricerche presenti nel volume, però, è un fatto diverso. Grazie anche alla rinnovata presenza delle donne nel mercato del lavoro i patrimoni con cui vengono acquistate le case sono «partecipati» proprio in virtù del salari e dei risparmi delle donne sposate.
Nel capitolo conclusivo del volume, Leta Hong Fincher si concentra sulle «donne che resistono», muovendosi nei meandri lasciati impercettibilmente liberi da uno Stato che pare in grado di controllare tutto. Un capitolo che consente all’autrice di tornare su un argomento che viene trattato in altre parti del libro: le violenze domestiche. Molte delle ong – che in Cina hanno in ogni caso un riconoscimento governativo, pena il rischio di arresti e repressione – e gruppi indipendenti hanno organizzato negli ultimi tempi molte azioni (xingdong) per denunciare il numero spaventosamente alto di violenze domestiche. Sono le stesse donne a preferire l’uso del termine «azione» invece di «proteste», dimostrando che sanno benissimo di avere a che fare con un forte potere statale. Un monolite che talvolta viene scosso nel modo giusto. Ad esempio, un paio di anni fa aveva provocato molto imbarazzo alla Cina la denuncia di una donna americana sposata con un cinese di aver subito ripetute violenze domestiche dal marito, un uomo divenuto una celebrità per le sue particolari lezioni oceaniche di inglese (è soprannominato Crazy English). Fu un caso molto seguito dalla stampa locale, macchiato da un gretto nazionalismo (contro l’«americana») e da maschilismo, ma che ha finito per dare linfa, e speranza di riuscire a denunciare certe situazioni, alle «azioni» di tante donne cinesi.
Cronache di ordinario razzismo
29 04 2015
E’ stato sospeso in via preventiva l’autista del bus 98, accusato di aver aggredito, picchiato e insultato con offese razziste una studentessa. La decisione è stata presa dall’azienda di trasporto pubblico Tper (Trasporto Passeggeri Emilia Romagna), dopo la denuncia sporta dalla ragazza, e “in attesa delle risultanze della commissione d’inchiesta interna che è già stata nominata”, come si legge nel comunicato dell’azienda.
Il grave episodio è avvenuto a Bologna, la sera del 25 aprile, intorno alle 19.45. La vittima è una studentessa di 18 anni, italiana, nata a Bologna, con origine marocchine. L’aggressore, il conducente dell’autobus.
“Stavo andando con mia cugina da mia zia – racconta la ragazza ai quotidiani locali – quando la corriera è arrivata al capolinea, io sono scesa per ultima. Mentre già avevo un piede sulla scaletta, l’autista ha prima accelerato e poi inchiodato. Gli ho chiesto stupita cosa stesse facendo e lui mi ha detto: ‘La prossima volta ti muovi, tr…’». Il conducente non si è limitato agli insulti: “Quando mi sono girata me lo sono trovato addosso. Era sui cinquant’anni, corporatura media. Mi ha dato due schiaffi, ma li ho parati con le braccia. Allora ha preso la rincorsa e mi ha sferrato un calcio potentissimo con lo scarpone antinfortunistico all’addome, all’altezza del basso ventre. Mentre lo faceva mi ha insultata: ‘Brutta scimmia, torna nel tuo paese. Ti mando all’ospedale‘. Ho sentito un male terribile, sono caduta, ho sbattuto la schiena sul marciapiede e non sono più riuscita a muovermi».
Sul posto sono intervenuti i Carabinieri, che non hanno trovato l’aggressore, visto che nel frattempo era fuggito a bordo del bus, come testimonierebbero alcuni video girati con i telefonini dagli altri passeggeri. “Oltre a mia cugina c’erano altri 6 passeggeri che hanno assistito a tutta la scena e che ci hanno lasciato i loro nomi e cognomi dicendo di essere disponibili a testimoniare” prosegue la ragazza, che ha formalizzato la denuncia dopo essere uscita dall’ospedale con 40 giorni di prognosi per contusione alla rachide e all’addome con emorragia sottocutanea.