inGenere
15 09 2015
In questi giorni stanno circolando (veicolate non solo dai media tradizionali, ma anche da catene di mail e attraverso i social network) una serie di informazioni apocalittiche rispetto alla diffusione di quella che viene impropriamente chiamata “teoria del gender” o “ideologia del gender”.
Dietro questa temibile ideologia – che si dice sia promossa dalle istituzioni europee, dal governo e finanche dalla nostra amministrazione provinciale - si celerebbe una forza occulta, le cui finalità ultime sarebbero la distruzione delle famiglie, il controllo demografico e l’estinzione dell’umanità.
Sotto accusa, perché considerati tra i principali strumenti di questa strategia, sono soprattutto i corsi sull’educazione di genere che da alcuni anni vengono realizzati nelle scuole, descritti come attività mirate a trasformare i bambini in esseri mutanti (“bisex omo lesbo misto chi più ne ha più ne metta… includendo anche il genere pedofilo afferma uno dei documenti diffusi), tramite l’iniziazione alla masturbazione e alla pornografia.
L’extrema ratio proposta per sottrarsi alle forze oscure è il ritiro dei bambini dalle scuole pubbliche e il ricorso all’educazione parentale (ovvero quella realizzata dai genitori, tenendo i bambini a casa).
A prima vista, la lettura di questi messaggi, così ossessivi e quasi surreali, potrebbe indurre a facili ironie, tuttavia sono sempre più convinta che quanto sta avvenendo vada letto con attenzione, perché le conseguenze possono invece essere molto serie.
Il primo elemento da considerare è la paura. Questi messaggi, anche quando invitano a informarsi, non sono in realtà pensati per produrre consapevolezza, ma costruiti ad arte per generare ansia e preoccupazione. Possono sembrare incredibili, certo, apparire morbosi e bigotti, è vero... però parlano dei nostri figli e delle nostre figlie, toccano corde sensibili (e se poi ci fosse un fondo di verità?). Parlano alle pance e non alle teste. Insinuano dubbi, generano insicurezza, producono sfiducia. E ci rendono così più manipolabili. Come hanno capito bene le forze politiche che li stanno cavalcando.
La seconda questione riguarda la visione dell’educazione scolastica che viene veicolata da questa campagna: una educazione ripiegata sui modelli e le culture interne alle famiglie e non aperta al mondo e al riconoscimento dell’altro; un processo mirato a trasferire contenuti e nozioni asettiche e non a sviluppare le molteplici potenzialità delle ragazze e dei ragazzi (secondo appunto la radice etimologica di educare: “e-ducere”, tirare fuori), e a stimolare la loro coscienza civica e sociale.
La scelta di riferirsi all’espressione “teoria del gender”, utilizzando una parola inglese, esprime efficacemente la paura nei confronti di ciò che viene da fuori, visto sempre come potenziale pericolo e mai come possibile risorsa.
Peraltro, sostenere che dimensioni come le relazioni affettive e la sessualità debbano restare all’interno delle mura domestiche (quelle stesse dove, peraltro, talvolta hanno luogo gravi episodi di violenza e sopraffazione sulle donne) e non possano essere oggetto di confronto e di dibattito in un’aula scolastica, significa anche limitare le occasioni per ragazze e ragazzi di sviluppare una coscienza critica e difendersi dalle banalizzazioni e dalle strumentalizzazioni mediatiche, così come per sviluppare anticorpi rispetto alle situazioni problematiche.
La terza conseguenza è il consolidamento degli squilibri di genere. Il principale nemico di queste campagne è infatti il concetto di “genere”. Ma cosa si intende quando si parla di genere? Perché questa parola fa così paura, tanto che ormai in molti suggeriscono che sia meglio non usarla? Gli studi di genere dicono semplicemente che buona parte delle differenze che caratterizzano l’esperienza di donne e uomini non è inscritta nei nostri geni, ma è prodotta dalla società. È forse scritto nel DNA delle donne che debbano subire passivamente violenza da parte degli uomini? È un destino biologico che debbano svolgere lavori meno prestigiosi degli uomini o essere pagate di meno, o che non possano affermarsi nei percorsi scientifici o nel mondo della politica? È naturale che le donne debbano indossare il burqua o viceversa esibire il proprio corpo sulle copertine dei giornali o sul web? O d’altra parte, è legge naturale che gli uomini non possano prendere il congedo per occuparsi dei figli o non siano in grado di occuparsi delle attività domestiche o della cucina (quando non è quella di Master Chef)? È forse parte del loro corredo biologico non trattenersi dal fare commenti volgari nei confronti delle donne che camminano per strada o dal praticare molestie nei confronti delle colleghe? Gli studi di genere ci parlando di questo. E la forza di questo discorso è dirompente. Perché nel momento in cui affermiamo che queste differenze (e le disuguaglianze che ne conseguono) non sono naturali, diciamo anche che è possibile cambiarle. Che è possibile pensare ad una società diversa, dove gli uomini e le donne non siano riconosciuti e valutati in base al loro corpo, ma piuttosto alle loro singole (e diverse) individualità. La campagna contro la “teoria del gender” è una battaglia contro la possibilità che il mondo cambi e diventi meno squilibrato, perché il superamento delle asimmetrie preoccupa chi di esse si nutre.
In tutto questo c’è però una buona notizia: queste crociate si scatenano di solito quando il cambiamento è ormai in corso. E, con buona pace delle milizie anti-gender, e del personale politico che insegue il consenso soffiando sul loro fuoco, non saranno le campagne di disinformazione, né gli allarmismi gratuiti, né i tentativi di censura a fermarlo.
(Questo articolo è stato pubblicato su “Trentino” e “Alto Adige”, sabato 12 settembre 2015)
Il Fatto Quotidiano
23 06 2015
“Ora la preside deve inviare una lettera di scuse alle famiglie”. Così dice Miur, contattato da ilfattoquotidiano.it, dopo che ieri ha convocato la dirigente scolastica dell’istituto “Via Micheli” di Roma, Anna Maria Altieri nell’ufficio scolastico del Lazio per chiederle di annullare la circolare contro la teoria del gender inviata ai genitori dei suoi studenti lo scorso 17 giugno. La comunicazione è stata ritirata e oggi non ha più alcuna validità. Nel mirino l’articolo 2 del ddl sulla riforma della scuola in discussione al Senato. Quello che si richiama alle linee guida dell’educazione di genere, messe a punto dal Miur insieme alle Regioni, e prevede di includere nei programmi scolastici i temi dell’uguaglianza, delle pari opportunità, delle differenze di genere e della violenza contro le donne basata sul genere.
“Visto il silenzio della maggior parte degli organi di stampa” su quanto sta avvenendo, si legge sulla nota firmata dalla dirigente, le famiglie sono invitate “ad approfondire la questione” sul sito internet difendiamoinostrifigli.it, sito in cui si promuove anche il Family Day di piazza San Giovanni a Roma. “La realtà che si prefigura nell’immediato futuro (già dal settembre 2015, se passasse la legge attualmente in discussione) è l’introduzione nella scuola di ogni ordine e grado dell’educazione alla parità di genere”, continua la preside, che tira poi in ballo presunte “Linee guida dell’organizzazione mondiale della Sanità per l’educazione sessuale nelle scuole“.
CircolareTra i vari punti contenuti, secondo lei, ci sarebbe “da 0 a 4 anni: masturbazione infantile precoce” e “da 4 a 6 anni: masturbazione, significato della sessualità: il mio corpo mi appartiene. Amore tra le persone dello stesso sesso, scoperta del proprio corpo e dei propri genitali“.
Un discorso che su Facebook il sottosegretario all’Istruzione Davide Faraone, alla vigilia dell’intervento del Ministero, ha giudicato “inaccettabile”. “La dirigente scolastica non deve essersi informata a dovere – continua Faraone -: non c’è alcun emendamento su nessuna teoria del gender. Il ddl in esame al Senato in questi giorni parla di educazione alla parità tra i sessi, prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni. Non vedo come questo potrebbe danneggiare gli studenti, i docenti e le famiglie italiane. Sono cose che le scuola dovrebbe insegnare a prescindere, per sua natura, se vuole educare cittadini consapevoli“.
Il Miur non è disposto ad accettare compromessi: “È opportuno che la preside spieghi alle famiglie che l’iniziativa è partita da lei e il ministero non c’entra niente”, precisano dal ministero a ilfattoquotidiano.it, aggiungendo che nella circolare non solo è stata dichiarata una falsità, quella sull’articolo 2 del ddl sulla “Buona scuola”, ma contiene anche un messaggio politico, poiché il sito web suggerito per documentarsi è proprio quello del Comitato “Difendiamo i nostri figli” che ha organizzato il Family day, la manifestazione in piazza San Giovanni contro “l’ideologia gender” a scuola e in difesa della famiglia tradizionale.
(La circolare dal blog Abbattoimuri)
La 27ora
26 04 2015
Perché ripetiamo ancora ai maschi «non piangere come una femminuccia»? E come mai le femmine si sentono dire da parenti e insegnanti «una bambina non fa questo» se strillano troppo? Noi adulti non consentiamo ai bambini ed alle bambine di crescere secondo le loro inclinazioni; ma li ingabbiamo nei nostri schemi di virilità e femminilità. Sembriamo sicuri che sia utile dividere i giochi, i colori e le collane letterarie per maschi da quelle per femmine. Spesso indirizziamo i nostri figli persino nella scelta degli studi come quando scoraggiamo le femmine che vorrebbero occuparsi di fisica nucleare e i maschi attratti dall’insegnamento. Eppure il meglio che possa accadere nella vita è scegliere senza condizionamenti e che le scelte siano il frutto dei nostri desideri e non di pregiudizi e gabbie predefinite per sesso, orientamento sessuale, età ed etnia.
Da queste ipotesi è partita l’inchiesta della rivista di politica e cultura delle donne Leggendaria, arrivata al numero 110 della sua lunga e libera storia editoriale: il 19 maggio sarà presentata a Milano in un incontro intitolato «Anatema sul gender: la scuola sotto tiro» (Casa delle donne, ore 18, via Marsala 8. Saremo a Genova, il 15 e a Trieste il 21 maggio). E subito ci siamo misurate con le polemiche che in questi mesi hanno investito e travolto, in alcuni casi, i formatori, i genitori e i docenti impegnati a portare a scuola l’educazione alle differenze sessuali.
Forse ricorderete in marzo lo scandalo scoppiata quando una materna di Trieste ha sperimentato un progetto ludico educativo finanziato dalla Regione che prevedeva, insieme a molte altre tappe, lo scambio dei ruoli e la possibilità per bimbi e bimbe di scambiarsi i costumi di principessa e cavaliere. Si è parlato di «giochi morbosi all’asilo», come in altri casi si è accusata una fantomatica «lobby omosessuale» di voler «convertire i giovani all’omosessualità» (La27ora ne ha scritto qui) solo perché il ministero per le Pari Opportunità nel 2014 aveva fatto preparare all’istituto Beck gli opuscoli informativi «Educare alla diversità a scuola» per arginare il bullismo omofobico dilagante.
Gli opuscoli sono stati precipitosamente ritirati e sono scomparsi, ma purtroppo sappiamo quanto soffrano molti ragazzi i cui comportamenti paiono non virili ai loro compagni e compagne. Magari attraversano solo una fase di passaggio adolescenziale, ma accade che, messi alla berlina sui social media, si ritirino da scuola e vadano in crisi. Alcuni dopo essere stati insultati perché gay, si sono anche uccisi. Non sarebbe ragionevole insegnare il rispetto delle differenze per prevenire la violenza e la discriminazione basata sul sesso o l’orientamento sessuale? Ci sono molti studi che dimostrano (la rivista Hamelin ne ha scritto spesso e con competenza) che oltre il 97 per cento di ragazze e ragazzi, dai 13 anni in su, hanno visto siti porno, dove imperversa una sessualità rozza e spesso violenta, dove trionfano gli stereotipi dell’uomo macho e della donna oggetto. L’Europa ha spesso sollecitato l’Italia a portare l’educazione dei sentimenti nelle classi fin dai primi anni di vita dei bambini, come accade in quasi tutti i Paesi dell’Unione, anche per sottrarli alla pornografia oggi accessibile a tutti.
La scuola pubblica, che pure è afflitta da tanti problemi, è diventata da noi un campo di battaglia tra chi vuole introdurre questi temi sia nella formazione degli insegnanti sia all’interno delle classi e chi li ostacola rivendicando esclusivamente alla famiglia l’educazione dei figli a temi così delicati e intimi. Ci sono le sentinelle in piedi e le associazioni che mandano petizioni e decine di migliaia di firme al presidente della Repubblica perché non si insegni quella che chiamano teoria o ideologia del gender ai loro figli. La Conferenza episcopale italiana, L’Osservatore Romano e perfino la moderata Famiglia Cristiana hanno scatenato una lotta senza quartiere alla dittatura del gender, che altro non sarebbe se non la manipolazione dell’infanzia. E che segnerebbe la fine della differenza tra i sessi e della stessa famiglia naturale.
La posta in gioco è evidentemente alta: in Parlamento giacciono da tempo vari disegni di legge. Leggendaria ha intervistato le firmatarie delle tre leggi di Pd, Sel e M5S, che spiegano cosa intendono per educazione all’affettività a scuola (nessuno la chiama più sessuale). Non si intende affatto azzerare le differenze tra i sessi, piuttosto si vogliono prendere in considerazione tutte le differenze: si vuole fare della scuola non «un campo di rieducazione», come temono alcuni, ma una palestra per abbattere i pregiudizi che alimentano o giustificano violenza o bullismo, disparità tra i generi, omofobia. Su questo stesso blog Monica Ricci Sargentini ha scritto che la teoria del gender vuole azzerare le differenze, ma credo confonda il pensiero di una accademica come Judith Butler e la pratica degli studi di genere di cui si parla nella scuola italiana, studi che vogliono appunto far discutere sulle differenze a partire da quelle uomo-donna.
Il fronte favorevole conta associazioni e singoli che vogliono far sì che le differenze non si tramutino in diseguaglianze. La spinta viene «dal basso», molti docenti hanno desiderio di formazione e di condivisione perché si trovano a essere la prima linea delle nuove frontiere delle differenze tutte, comprese quelle religiose e etniche. Negli ultimi anni pedagogisti, genitori e, appunto, tanti docenti di ogni ordine e grado hanno moltiplicato, da nord a sud, progetti e percorsi formativi per prendere confidenza con temi come la relazione tra i sessi, l’affettività, l’omofobia, le diversità nella composizione delle famiglie di oggi che hanno spesso genitori separati con nuovi compagni o compagne e meno spesso (ma accade) genitori dello stesso sesso.
Scrive su Leggendaria Monica Pasquino presidente di S.co.s.s.e (Soluzioni Comunicative Studi servizi editoriali), associazione che lavora nel Lazio al progetto «Educare alle differenze», che gli attacchi subiti sono stati fortissimi da parte della diocesi di Roma e di vari movimenti politici cattolici che hanno diffuso volantini nelle scuole in cui loro lavoravano per far boicottare i corsi a genitori e insegnanti. Sotto accusa, secondo Pasquino, è la scuola pubblica e la sua autonomia di trasmettere alle nuove generazioni i valori della cittadinanza plurale e principi più ampli, non necessariamente migliori, di quelli trasmessi nella famiglia di appartenenza. Dopo tante polemiche S.co.s.s.e. ha convocato a Roma, lo scorso anno, chi condivide il progetto. Sono arrivati in 600 da tutta Italia: prof e genitori, associazioni di donne e di omosessuali, funzionari delle istituzioni, tutti autofinanziati. Un successo. Tanto che in ottobre si replica.on basta. Serve un lavoro culturale, attento, costante e profondo”.
Redattore Sociale
19 05 2015
Meno visibile di quella sul precariato e sulla riforma, è iniziata con la diffusione di testi sull’identità di genere e l’orientamento sessuale in attuazione di una strategia antidiscriminazioni. Tra accuse di censura e rifiuto della “teoria del gender”.
Da un po’ di tempo è in corso una battaglia dietro le quinte della scuola, meno visibile di quella sul precariato e la riforma, quella sui libri da leggere sin dall’infanzia. Apparsa come notizia di proteste e censure di singoli testi in asili e scuole sparsi per l’Italia, non si capisce se non se ne conosce l’origine: il Consiglio d’Europa sollecita (da anni) l’adozione di misure contro la discriminazione basate sull’identità di genere e l’orientamento sessuale, il dipartimento in Italia predisposto a questo scopo (l’Unar) elabora nel 2013 una strategia nazionale, dopo un lungo processo di consultazione e concertazione, da cui derivano un documento organico, opuscoli informativi da usare nelle scuole e consigli di lettura.
Così in classe, sotto forma di “progetto” come sempre avviene in una scuola che non riesce altrimenti ad affrontare la contemporaneità, compaiono fra il 2013 e il 2014 i primi segni di questa campagna di sensibilizzazione: si leggono libri in cui le famiglie hanno un solo genitore, si sentono storie in cui ad amarsi sono persone dello stesso esso, si discute di quanto uno si senta maschio o femmina al di là dell’anagrafe.
A questo punto scatta la contraerea: il Comitato Articolo 26 denuncia come intollerabile la relativizzazione della famiglia formata da mamma papà e figli e teme la “confusione sessuale” per storie di quel genere; un cartello di associazioni lancia una petizione contro la diffusione a scuola di quella che viene chiamata “teoria del gender” – che non esiste in letteratura; persino il Papa cade nell’equivoco di questa teoria anche se alla fine intende difendere il peso delle donne nella società; si diffondono ovunque gli appuntamenti delle “Sentinelle in piedi” in difesa della famiglia; il senatore Carlo Giovanardi lancia l’allarme in parlamento ecc. Ne consegue che alcune amministrazioni bocciano i progetti di sensibilizzazione, da qualche parte i libri e gli opuscoli vengono ritirati, alcuni insegnanti rinunciano a quelle letture, ma contemporaneamente le scelte di quei libri altrove sono sostenute, contro la censura intervengono bibliotecari e scrittori, se ne discute nelle librerie e nelle piazze, nascono contromovimenti come i “Sentinelli di Milano” contro la discriminazione Lgbt ecc.
Insulti
Chiunque frequenti i bambini della scuola primaria e i ragazzi della secondaria di primo grado avrà sentito il loro gergo, oggi “gay!” è uno dei primi insulti che ci si scambia da piccoli, esattamente come “finocchio” e “ricchione” lo era nella Milano di anni fa, e chissà cos’altro nelle varianti regionali e generazionali. Si usa – e si usava - per offendere, nell’ingenuità e nella crudeltà di quell’età, senza sapere e capire granché, così come da qualche mese è comparso “Isis!” nello slang dei bambini, per dire violenza, con ancora più incoscienza.
In tasca, sui loro smartphone, che hanno quasi tutti i bambini e le bambine dagli 11 o 12 anni, c’è tutta la pornografia che un tempo e a fatica toccava sbirciare in edicola. Quegli stessi bambini e quelle stesse bambine, fuori dalla scuola primaria almeno nelle grandi città, sono attese assai più da nonni e colf che da mamme e papà, mentre le organizzazioni scolastiche vanno in tilt nel raccogliere le deleghe di tutti gli adulti autorizzati ad andare a prendere ogni singolo alunno, nel terrore degli sconosciuti ma anche del genitore separato che preleva all’insaputa dell’altro. Ricordo la prima riunione all’asilo nido dei miei figli, su 15 bambini le coppie erano pochissime, così che le educatrici un po’ in difficoltà si trovavano a spiegare il programma pedagogico a single, nonni e colf di varie nazionalità.
Questi pochi indizi fra i tanti possibili ci restituiscono non tanto la “teoria del gender” ma quella del funzionamento della quotidianità: le cose ai figli non arrivano dal setaccio dei genitori ma dal mondo, perché sono figli del loro tempo almeno quanto di quei genitori, il filtro protegge a malapena l’ambiente domestico, ma il flusso degli incontri e dei discorsi è inevitabilmente esposto e i bambini hanno le antenne, implacabilmente captano i segnali nuovi. L’altro principio è quello della deformità: l’autoapprendimento, nobile per spirito e inevitabile nei fatti, non produce di per sé l’esito migliore, l’esposizione alla violenza abbassa l’empatia, quella alla pornografia sconcerta e disorienta, il conflitto fra i genitori spaventa se non si sa a cosa approda, ecc. Non resta, da adulti, che provare a dare una forma al mondo, ovvero spiegare lo spiegabile, rassicurare su ciò che fa paura, aprire all’immaginazione, prendere le distanze dall’intollerabile ecc. Ma se c’è una cosa perdente, è tacere.
Le parole e i regimi
Possono le parole cambiare la realtà, incidere sul mondo? Intendo oggi, nell’ipertrofia dei mezzi di comunicazione, nel regno delle immagini, nella proliferazione delle fonti e nella rottura delle regole sulla loro autorevolezza? Il filologo tedesco Victor Klemperer, all’indomani della seconda guerra mondiale, decide di analizzare puntigliosamente il linguaggio del Terso Reich per spiegare come funziona il dominio attraverso la parola, e racconta di averlo deciso dopo aver parlato con una donna di Berlino, reclusa in quel periodo “per delle parole” contrarie a Hitler e al nazismo. Nei suoi taccuini Klemperer ci spiega che il regime agisce non con l’introduzione di nuovi concetti, ma riducendo il lessico, forzando il significato di alcune parole e ripetendo all’infinito, fino a normalizzare le sue idee chiave. La neolingua di cui parla George Orwell è simile, riduce, semplifica, banalizza, fino a rendere impossibile l’espressione di concetti complessi, o diversi da quelli diffusi. Come a dire che tutte le volte che notiamo la reiterazione di parole, l’insistenza del messaggio, la ricorsività dei contenuti, la semplificazione rispetto alla varietà del reale dovremmo stare attenti.
Di più. Sappiamo che nelle carriere devianti di molti ragazzi c’entra il rapporto con il linguaggio, ovvero a minor patrimonio lessicale acquisito corrisponde il rischio di “finire nel penale”. Perché se non hai parole per dirlo – il tuo malessere, il tuo senso di ingiustizia, il tuo dolore o il tuo amore – fai fatica ad elaborarlo, a fartene una ragione, a dargli un senso e un posto nel mondo, a trovare consolazione. Sarà più facile “passare all’agito”, fare qualcosa che dia sfogo o risarcimento, e se così accade farai poi fatica di fronte ad un’autorità a dare spiegazioni, a dire le tue ragioni, a difenderti.
Non resta che dar nome alle cose, raccontare le differenze, ridurre l’enfasi del “normale” per non innescare sensi di inadeguatezza o non favorire la crudeltà fra ragazzi, anche attraverso i libri, perché si sa che le storie aiutano a costruirsi rappresentazioni del mondo. Si racconta che Hitler contattò Disney per averlo dalla sua parte, ma che questi, per fortuna, rifiutò.
Lipperatura
05 05 2015
Così, nonostante tutti i chiarimenti sulla clamorosa bufala che ha trasformato narrativamente un progetto educativo come Il gioco del rispetto in un'iniziativa soft-core nelle scuole materne, nascono comitati di genitori "anti-gender" che trovano anche un bel po' di spazio sulla stampa.
A volte penso che non ce la faremo mai: giusto ieri, gli emendamenti sull'educazione sentimentale proposti da Celeste Costantino alla legge sulla Buona Scuola sono stati respinti, tutti.
L'Italia è in ostaggio, letteralmente, di chi impedisce che nelle scuole si parli di educazione sessuale e affettiva: obbligatoria in quasi tutti i paesi dell’Unione, come si legge nel report pubblicato nel 2013 dalla direzione generale per le politiche interne del parlamento europeo, è insegnata nei paesi scandinavi, Francia e Germania. E’ assente in Bulgaria, Cipro, Lituania, Polonia, Romania, Regno Unito. E Italia.
Una proposta di legge sull’educazione sessuale è ferma in Parlamento dal 1975. Un’altra, sull’educazione sentimentale, è appunto quella presentata da Costantino, e che chissà quando verrà discussa (di certo, la bocciatura degli emendamenti non aiuta).
Mi chiedo, ogni volta, perché. Mi chiedo se chi si oppone a quella che viene chiamata ideologia in nome della libertà di educazione sia consapevole che l'educazione, per quanto rigurda genere e appartenenza, non è affatto libera, e che quelle gabbie si chiudono già ora sulle bambine e sui bambini.
Nulla. Si impugna come una sciabola la posizione espressa il 10 gennaio 2011 da Papa Benedetto XVI: “non posso passare sotto silenzio un'altra minaccia alla libertà religiosa delle famiglie in alcuni Paesi europei, là dove è imposta la partecipazione a corsi di educazione sessuale o civile che trasmettono concezioni della persona e della vita presunte neutre, ma che in realtà riflettono un'antropologia contraria alla fede e alla retta ragione”.
La retta ragione dovrebbe dirci che nei paesi dove da anni si parla ai bambini di reciproco rispetto e di educazione affettiva le cose vanno meglio. E dovrebbe dirci anche che questo non è un problema secondario. E dovrebbe dirci infine che non ha affatto senso piangere l'ennesima donna uccisa dall'ex compagno se non si fa qualcosa prima che quelle donne e quegli uomini crescano.
Ma le priorità, ci vien detto, sono altre, come sempre. E in questi tempi oscuri tocca anche andarci pianino con le proteste, ché si passa, se va bene, per radical chic e, se va male, per collusi con le forze del caos.
Passerà, certo: ma solo se lo vogliamo.