Il Fatto Quotidiano
23 09 2015
Ebbene sì, mi avete scoperto. Io sono una delle streghe che diffonde il Gender. A parte riunirci in notturna per un Sabba, sacrificando fanciulli sull’altare dedicato al diavolo, poi ho da confidarvi qual è il curriculum di una come me.
Le streghe del Gender insegnano a figli e figlie a pretendere l’uguaglianza in ogni campo. So che è un’indecenza ma dovrete perdonarmi se, inizialmente, oserò essere un po’ restia al pentimento di fronte alle vostre pacate ed equilibratissime accuse.
Per prima cosa non siamo rimaste stupite quando bimbi e bimbe, ciascun@ per proprio conto, hanno cominciato a curiosare all’altezza dei propri genitali. Non abbiamo pensato che si trattasse di una mostruosità, giacché la sessualità non ci sembrava elemento da censurare, e non abbiamo compreso che sarebbe stato meglio far vergognare e sentire molto in colpa, fino alla fine dei loro giorni, quelle creature. Non abbiamo mai censurato quei figli neanche quando hanno chiesto di giocare a fare il pistolero, essendo femmina, o la parrucchiera, essendo maschio.
Poi non ci siamo opposte alle loro richieste quando hanno dichiarato di voler intraprendere studi non adeguati – adesso lo capisco – al loro genere. Maschi che si realizzano studiando materie umanistiche e femmine che si laureano in ingegneria. Abbiamo perfino osato pagare la scuola guida per fare prendere la patente anche alle figlie femmine, e già, capisco che questo potrà sconvolgervi, anche se so che non è questa la più cattiva azione che abbiamo compiuto.
Abbiamo risposto con chiarezza alle domande dei nostri figli a proposito di sessualità. Non ci è sembrato scandaloso informarli sui metodi per evitare il contagio di malattie sessualmente trasmissibili o una gravidanza indesiderata. Pensate che qualcuna di noi ha perfino insegnato a figli e figlie come si srotola correttamente un preservativo senza romperlo. Chissà perché ma eravamo convinte che le corrette informazioni e la conoscenza fossero il principale strumento per saperli in grado di difendersi da soli.
Abbiamo sempre cresciuto i nostri figli senza pensare a una educazione divisa tra maschi e femmine. Non abbiamo inibito i maschi che lavano i piatti, puliscono la propria stanza e si fanno il bucato o le femmine che smanettano con motori e giochi d’ingegno, piccolo chimico, futuro da pilota di jet supersonici o da camionista, chi lo sa. Non ci è sembrato opportuno neppure trattarli malissimo, né da malati e né da depravati, quando ci hanno spiegato di preferire persone dello stesso sesso per farci l’amore.
Se un figlio ha sempre desiderato essere donna, siamo spiacenti ma, non siamo riuscite a gettarlo nell’immondizia o, peggio, a consegnarlo alle terapie curative di qualche prete tanto volenteroso. Ci siamo sempre dette che l’obiettivo era vedere figli e figlie felici, a prescindere da tutto. Abbiamo trattato figli maschi e figlie femmine allo stesso modo perché avevamo quest’idea malsana di voler dare a entrambi uguali possibilità e prospettive.
Abbiamo investito risorse per farli studiare. Abbiamo fatto sacrifici per farli proseguire. Abbiamo dimenticato quell’usanza per cui le femmine dovevano soltanto diventare donne da marito e gli uomini mariti responsabili delle donne. Non abbiamo insistito per vederli sposati e non abbiamo imposto alcun rito che non fosse a loro congeniale. Non abbiamo insistito neppure affinché diventassero genitori perché pensavamo – lo so, ora me ne vergogno – che per essere una “vera” donna non bisognasse fare figli e per essere un “vero” uomo non bisognasse dimostrare di avere lo spermatozoo più virile della contea.
Per sentirci supportate in queste nostre bieche intenzioni abbiamo chiesto alla scuola di essere all’altezza del proprio compito: basta col monopolio e la violenta colonizzazione culturale con libri in cui figlio, padre e madre, lui falegname, lei casalinga e il figlio che apprezza i sacrifici del genitore ma putacaso se ne frega di quelli della genitrice. Abbiamo preteso che si parlasse anche di molte religioni e non soltanto di una, perché abbiamo sperato, così facendo, che i nostri figli, a prescindere dalle convinzioni di ciascun@, fossero in grado di poter ricevere le informazioni adeguate così da poter scegliere.
Abbiamo preteso che non si discriminasse in base al sesso in nessun posto, sui banchi di scuola o nei posti di lavoro, abbiamo preteso che figli e figlie, con i propri partner, fossero pronti a condividere in tutto e per tutto il ruolo genitoriale. Non abbiamo sgridato una figlia perché osava leggere un quotidiano e non abbiamo sgridato un figlio perché non voleva avere nulla a che fare con gli eserciti e le guerre.
Pensate – ed è davvero imperdonabile – che abbiamo insistito affinché le figlie si sentissero importanti al di là del proprio aspetto fisico e i nostri figli ben oltre la lunghezza del loro pene. Abbiamo intrapreso con loro un cammino difficile, tra tante obiezioni e tanti saggi consigli. Avremmo dovuto smettere, lo so, ma più che altro ci premeva dare ai nostri figli e alle nostre figlie possibilità che forse alcune tra noi non hanno mai avuto. Quella di essere accettat* in ogni caso, di avere il diritto di opporci ai ruoli di genere a noi imposti sulla base di quel che avevamo in mezzo alle cosce.
È brutto – sapete? – essere giudicat* per il tuo sesso biologico e non per quel che rappresenti in tutta la tua straordinaria differenza, assieme alla libertà di scegliere il genere che ti senti addosso, perché pensavamo che differenza volesse dire “libertà”, “ricchezza” e non “lavaggio del cervello”. Figuratevi che abbiamo pensato che fossero antiabortisti, razzisti, omofobi e catto/integralisti a voler fare il lavaggio del cervello ai nostri figli e alle nostre figlie. Invece no, ce ne rendiamo conto, ora, dopo settimane di tortura, qui in presenza dei cortesi giudici dell’inquisizione, dobbiamo lasciare la mente dei fanciulli tanto sgombra da poter fare spazio alle verità che le vostre solennità vorranno loro imporre.
Ps: quando vorrete espormi in pubblica piazza per mostrare al mondo quale mostruosità abbia generato il “Gender” abbiate cura di imbruttirmi e tenere chiodi appuntiti sotto i piedi affinché la mia espressione sia afflitta ed infelice.
In fede
Eretica
Ingenere.it
15 09 2015
Ora che le scuole stanno per ricominciare, vorrei tornare a parlare di un tema che mi interessa molto, che suscita irrazionali terrori e giunge a ispirare interventi assurdi, fuori dalla storia, dallo spazio e dal tempo[1].
Paure e ansie si alimentano intorno a qualcosa che non corrisponde a come viene descritto e la cui presentazione allarmista sembra piuttosto servire ad allontanare l’attenzione dal fulcro del problema.
I paladini della famiglia tradizionale e gli agguerriti oppositori della cosiddetta (ed inesistente) ideologia del gender vogliono far credere a schiere di genitori intimoriti che la posta in gioco sia difendere i nostri figli dalla fantomatica possibilità che qualcuno voglia promuovere l'autoerotismo nelle scuole della prima infanzia. Come se poi ci fosse davvero bisogno di promuoverlo, l’autoerotismo; lo sanno bene quelle e quelli di noi che hanno ricordi che arrivano ai propri primi anni di vita o hanno figli/e di quell'età. Mentre la posta in gioco è ben più alta e, per certi versi, ancora più rivoluzionaria di quanto il sesso, nelle sue infinite sfaccettature, possa mai essere.
Buona parte del gran malinteso si basa tutto sulla confusione tra sesso e genere.
E devo ammettere che all'inizio ho fatto fatica anche io a capirla, questa differenza.
Poi mi è stata spiegato molto chiaramente, con il caso Lady Oscar.
Un pomeriggio una mia amica molto intelligente, estenuata dalle mie domande, ha trovato un esempio alla mia portata, e mi ha permesso di capire:
"È facile, devi pensare ai vestiti"
"Prego?"
"Nella maggior parte dei casi i vestiti nascondono il sesso e svelano il genere"
"Ovvero?"
"Ovvero, prendi me. Per come sono vestita – maglia, gonna, orecchini, anelli, rimmel, rossetto e shatush - e per come mi comporto tu presumi che io sia un essere umano di sesso femminile. Ma la certezza biologica del mio sesso non ce l’hai perché è ben nascosta centimetri sotto la mia gonna colorata. Ed è probabile che tu questa certezza non riesca a verificarla mai. Al contrario, se con un po' di accortezza mi fossi presentata vestita da uomo, e mi fossi comportata da uomo, – hai presente Lady Oscar in battaglia? - con la stessa certezza tu avresti presunto che io fossi un uomo. Ecco: il sesso è fisico, biologico, nella maggior parte dei casi chiaro in natura sin dalla nascita, ma condiviso in modo esplicito solo con una ristretta cerchia di persone intime (fatta eccezione per le escursioni estive a Capocotta). Il genere, invece, è culturale, esplicitato, simbolico, frutto di costruzioni storico-sociali che definiscono e spesso prescrivono, in una complementarità che può risultare coercitiva, cosa tu possa o non possa fare in quanto uomo o in quanto donna".
Da quel momento in poi mi è parso chiaro, come già era chiaro a Lady Oscar, che il punto non è parlare di sesso ma piuttosto di stereotipi, possibilità e potere, e di come gli stereotipi legati al genere vengano trasmessi e si consolidino nella società e nelle scuole, soprattutto quando non c’è una riflessione sull’impatto che possono avere iniziative intraprese in totale buona fede.
Anche qui, una storia illuminante.
A chiusura dei tre anni della materna di mia figlia siamo stati invitati alla recita di fine anno. Ammetto di non amare particolarmente le recite in generale, ma in questo caso lo spettacolo a cui siamo stati sottoposti è stato piuttosto inquietante. Bambini e bambine, divisi in due gruppi rigorosamente separati per genere, impegnati a cantare successi anni ’60, i maschietti con le rose a chiedere la mano a bambine invitate a fare le smorfiosette e dire "no" fino a quando i piccoli non si mettevano in ginocchio da loro.
A parte la scelta della colonna sonora, ché, diciamocelo, gli anni ‘60 in Italia e nel mondo hanno prodotto innovazione e cambiamento di grande impatto anche in ambito musicale e si poteva pescare a mani basse da un repertorio di alto livello praticamente immenso, la scena era abbastanza allarmante.
E, attenzione, ancora una volta, qui non si parla esplicitamente di sesso.
Si parla, piuttosto, di rendere stereotipati e di ipersessualizzare i comportamenti e le relazioni, di caricarli di un significato sessuale che non avrebbero per bambini di quella età e di trasmettere l’idea stereotipata che il genere a cui appartieni determina i tuoi comportamenti e delimita le tue aspettative: se sei femmina l’unica cosa che puoi fare é fare la smorfiosa ed aspettare che un uomo venga a dichiararti il suo amore in ginocchio portandoti una rosa, e, se sei maschio, almeno nella forma dovrai conquistarti quell’amore, piegandoti a portare quella rosa (e sentendoti di poter esigere, in nome di quella rosa, eterna riconoscenza e quotidiani favori). E a parte l’idea in sé superata e fastidiosa che in una relazione sia necessario mettersi in ginocchio, mi sembra triste che l’orizzonte di mia figlia, ma anche di mio figlio, debba essere aspettare che lo si mandi a prendere il latte per tornare con l’amore della propria vita.
Si vabbè, si potrebbe dire, sono solo canzonette.
Certo, sono solo canzonette.
Ma è proprio per questo che andrebbero prese così seriamente.
Per il potere che hanno i messaggi semplici e ripetitivi. Soprattutto se appresi a scuola.
Per questo, per evitare messaggi troppo semplici e ripetitivi, mi piacerebbe che si potesse avviare una riflessione su quali effetti possa avere una scelta animata da buon senso ma dal messaggio quantomeno ambiguo.
Sarò fissata, ma mi piacerebbe che a un bambino e a una bambina di cinque anni venisse proposto uno scenario di riferimento diverso. Che fossero chiamati – a scuola, in una recita di fine anno - a lavorare sul proprio corpo nello spazio, sulle potenzialità che lo spazio, la musica, la danza offre e sulle diverse modalità che ciascuno ha, in base alle proprie potenzialità fisiche ed emotive (e anche quando queste potenzialità si discostano dalla norma), di muoversi nello spazio e di esprimere queste emozioni. Come, ad esempio, è stato fatto nella recita, questa volta bellissima, di quest’anno di mia figlia (che nel frattempo, per fortuna, è passata alle elementari). Una recita in cui bambini tra loro diversi (inclusa una bambina con difficoltà motorie) hanno espresso, individualmente e all’interno del gruppo, le proprie identità.
Più in generale, mi piacerebbe che tutti/e potessero proiettare le proprie aspettative senza confini di genere, cogliere e offrire rose senza doversi mettere in ginocchio. E sognare di poter diventare astronauti, come Astro Samanta, oppure cuochi, o pittrici, come Frida Kahlo, o pentantatleti, oppure maestri, artigiane, cantanti, poeti, politiche, spazzini, o qualsiasi infinita altra cosa che apra la propria capacità di immaginarsi. E anche adulti e adulte felici, genitori, se lo vorranno, amici, amiche e amanti, mogli, mariti e nonni.
Mi piacerebbe che potessero scoprirsi per quello che sono e che potessero sentirsi liberi di essere come sono. Senza che qualcuno li limiti, li redarguisca o li faccia soffrire perché non aderiscono ai modelli di genere dominanti. Mi piacerebbe che mio figlio potesse andare a scuola vestito dei colori che preferisce, anche se questi sono il rosa, l’arancio e il verde acido, e che mia figlia potesse chiedere e ricevere per il suo compleanno un arco con le frecce senza sentire nessun commento del tipo “ma sei sicura che sia un regalo da bambina?”. E mi piacerebbe che quando si chiede ai bambini e alle bambine di descrivere cosa fanno mamma e papà l’opzione “Papà si occupa della casa” e “mamma viaggia molto per lavoro” non fossero guardate come opzioni marziane, alla stregua di “viviamo sott’acqua in una casa dalle pareti di vetro”, ma fossero una delle tante opzioni possibili e lecite.
E mi piacerebbe che ci fossero più maestri nelle scuole (una sorta di quote di genere), per favorire una maggiore presenza di modalità differenziate di guardare alla realtà e offrire approcci diversi ed integrati di crescita e sviluppo.
Questo, per me, è il punto.
Per questo credo che sia necessario ragionare sugli stereotipi di genere e mettere in discussione la famiglia tradizionale.
Perché tra le nuove forme di famiglie, comprese quelle con due mamme o due papà, ci sono anche quelle in cui gli orientamenti sessuali rispondono alla tradizione, alla norma (che ricordiamocelo, rimane un concetto preso in prestito dalla statistica, che definisce come “normale” il fenomeno maggiormente diffuso), ma i ruoli di genere no.
Perché avere sedici figli ed esibirli sul palco di Sanremo insieme ad una madre a cui è a malapena consentito articolare una parola, può essere una scelta, e io la difendo alla stessa stregua delle altre, ma non può essere il modello unico di riferimento.
E con questo bisogna confrontarsi, discutere, capire e accettare.
E questo è il vero punto, quello che fa paura: mettere in discussione ruoli tradizionali, dare alle donne (e agli uomini) potere di scelta, permettere a ciascuno di scoprire ed essere libero di essere quello che é.
Senza il senso del peccato, senza il rimorso di essere sbagliate, senza l’ansia di non corrispondere a desuete aspettative.
Da queste inibizioni, ansie, giudizi e aspettative io vorrei difendere mio figlio e mia figlia.
E credo che ragionare di genere e stereotipi nelle scuole materne sia un primo passo importante.
E mi rendo conto che questo passaggio potrebbe avere un vero ruolo davvero dirompente rispetto alle norme sociali.
E capisco che faccia paura.
Tuttavia, mi dispiace, ma opporsi è una battaglia persa.
Perché la società, seppure lentamente, sta cambiando.
NOTE
[1] Si veda la folle lista di libri per bambini messa all’indice dal Sindaco di Venezia
Riforma.it
05 05 2015
cBocciati ieri alla Camera gli emendamenti sull’educazione all’affettività nelle scuole, nonostante le indicazioni della Convenzione di Istanbul. Un altro passo indietro sulla comprensione e la lotta alla violenza di genere
In molte città oggi si sciopera contro “la buona scuola” il ddl della ministra Giannini in discussione alla Camera. Molti i punti che non convincono della riforma scolastica, in particolare il potere dato ai dirigenti, considerato eccessivo, e la stabilizzazione degli insegnanti precari, ritenuta al contrario insufficiente. Fra le pieghe della discussione parlamentare però, passano sotto silenzio elementi importanti, come la bocciatura degli emendamenti che riguardano l’educazione sentimentale e in generale un percorso culturale di prevenzione della violenza di genere e del bullismo in classe. Non sono questioni marginali: la Convenzione di Istanbul, che si esprime contro ogni violenza sulle donne, in vigore dal 1 agosto 2014, si raccomanda esplicitamente di introdurre nelle scuole di ogni ordine e grado programmi di educazione alla parità di genere, contro gli stereotipi e la risoluzione violenta dei conflitti (articolo 14). Eppure gli emendamenti in questione sono stati tutti respinti, suggellando un paradosso che non ha giustificazioni di sorta. La proposta di legge sull’educazione all’affettività, promossa dalla deputata di Sel Celeste Costantino e sostenuta dall’associazione Da Sud con la campagna – quasi 30mila firme di sostegno raccolte in sole due settimane – ancora una volta è stata lasciata cadere. Ad arte si parla invece di “ideologia gender”, come se ci fosse un disegno pronto a destabilizzare la cosiddetta “famiglia naturale”, e di fatto quello che dovrebbe essere un normale percorso di crescita nel reciproco rispetto e in funzione della prevenzione di una violenza di genere che è sotto gli occhi di tutti (anche, e soprattutto, nella famiglia “naturale”) diventa un tabù. Di affettività, di sessualità non si può parlare; così non si parla di stereotipi ma li si avalla, non si affrontano le discriminazioni e l’omofobia ma si accetta di relegarli a chiacchiere sessiste.
Chiudono i centri antiviolenza, non si fa prevenzione nelle scuole: i pochi, più che lodevoli progetti di formazione di ragazzi, genitori e insegnanti sono lasciati all’iniziativa di associazioni, come quello organizzato negli istituti delle periferie romane da Zeroviolenza onlus, “La città dei Bambini nella mente degli Adulti. Differenze e integrazione”, sostenuto anche dall’otto per mille della chiesa valdese (qui i prossimi appuntamenti).
L’Italia, nel non recepire le indicazioni della Convenzione di Istanbul, ancora una volta ha scelto di rimanere in coda all’Europa: tutti gli altri paesi, a parte la Grecia, hanno introdotto una qualche forma di educazione alla sessualità. L’Italia no. Una mancanza grave, passata tutto sommato sotto silenzio, che indigna ancora di più se si pensa che proprio ieri, mentre se ne discuteva in Parlamento, arrivava la notizia dell’ennesimo femminicidio: Fiorella Maugeri, 43 anni, uccisa dal marito, perché – pare – voleva chiedere la separazione. Il cordoglio delle istituzioni, quando c’è, somiglia ormai sempre di più alle lacrime di tanti coccodrilli, di chi non ha alcuna intenzione di affrontare davvero la questione della violenza di genere, in fondo considerata marginale, merce di scambio per accordi politici su altri temi, ma che hanno tutti a che fare con la conservazione del potere.
In Italia si preferisce, al massimo, la repressione: sull’educazione non si investe.
Prova ne è che le donne continuano a morire, a essere picchiate e violentate, esposte brutalmente nelle pubblicità e rappresentate come soggetti vulnerabili e passivi. Prova ne è che anche chi è deputato a raccontare queste cose non sa farlo perché, nella migliore delle ipotesi, non possiede gli strumenti per capire cosa ha sotto gli occhi: il Corriere della Calabria, a proposito della tragedia, ieri scriveva: «Gli investigatori non escludono nessuna pista anche se quella della gelosia è tra le ipotesi più accreditate». Ecco, appunto: tutto da rifare.