Sara Scarafia, La Repubblica
25 agosto 2015
Dieci mesi attraverso due fiumi, un immenso deserto e infine quel mare che da anni inghiotte i suoi fratelli. Troppo per un bambino di dodici anni scappato da solo dall'inferno Eritrea. ...
Le persone e la dignità
17 06 2015
Li chiamano profughi o migranti. Qualcuno, direttamente, clandestini. È un buon sistema per mettere tutti nello stesso mucchio, aumentare i numeri e alimentare le paure.
Gli eritrei che fuggono dal loro paese-gulag (5000 al mese!), molti dei quali in queste ultime settimane hanno popolato le scogliere di Ventimiglia prima di essere sgomberati e le stazioni ferroviarie di Roma e Milano in cerca di un modo per uscire dall’Italia, sono richiedenti asilo che necessitano di protezione internazionale. Fino allo scoppio del conflitto in Siria, costituivano la popolazione rifugiata più numerosa al mondo in rapporto a quella paese di origine.
Cosa è l’Eritrea, oltre ai rapporti di Amnesty International e di altre organizzazioni per i diritti umani, lo ha spiegato la scorsa settimana la Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sull’Eritrea, in un voluminoso rapporto di 484 pagine.
Le conclusioni della Commissione sono agghiaccianti: il governo eritreo è responsabile di massicce e gravi violazioni dei diritti umani nei confronti di una popolazione “controllata, ridotta al silenzio, isolata, vittima di abusi, sfruttata e ridotta in schiavitù”.
Nei 22 anni d’indipendenza, l’Eritrea è diventata uno stato-prigione in cui ogni tentativo di opposizione viene stroncato e punito col carcere e con la tortura (nella foto, la ricostruzione di una tecnica di tortura fatta da un ex prigioniero). La libertà di credo religioso è permessa solo alle confessioni autorizzate e non si estende ai cristiani evangelici e ai pentecostali (ecco cosa succede ai cristiani in fuga), il servizio di leva è obbligatorio e a tempo potenzialmente indeterminato, traducendosi spesso in lavori forzati.
I prigionieri politici sono diverse migliaia, lasciati a languire in carceri isolate, in celle sottoterra o in container in mezzo al deserto. Centinaia di famiglie non sanno dove siano detenuti i loro congiunti, né se siano ancora vivi. Alcuni parenti che hanno osato chiedere notizie sono stati a loro volta arrestati.
La morsa del potere si estende anche oltre-confine, attraverso la criminalizzazione dei rifugiati (lasciare il paese senza autorizzazione è considerato un reato), l’infiltrazione di spie e informatori all’interno della diaspora e le rappresaglie nei confronti dei parenti rimasti in patria.
Di fronte a questa situazione, la reazione dei governi europei rasenta la complicità. In passato, il Servizio per l’immigrazione della Danimarca ha pubblicato un incredibile rapporto che descriveva la situazione dei diritti umani “non così male come è stata descritta”, spianando la strada al “ritorno in condizioni di sicurezza” dei richiedenti asilo eritrei, fortunatamente sospeso nel novembre 2014.
La diplomazia e l’imprenditoria italiana proseguono, senza farsi troppi problemi, lo speciale rapporto di amicizia con l’Eritrea.
Sarebbe bene, ogni volta che un giornalista prepara un servizio sulle scogliere di Ventimiglia, sulle stazioni ferroviarie delle città italiane o sui luoghi di approdo del sud del nostro paese, ricordare che quelle persone fuggono da un paese repressivo sostenuto dal governo italiano.
Corriere delle migrazioni
15 06 2015
Il World Press Freedom Index, ossia la classifica mondiale della libertà di stampa, viene pubblicato una volta all’anno dall’organizzazione Reporter senza frontiere. La classifica è stilata in base a una griglia di criteri che vanno dal pluralismo al numero di abusi e aggressioni ai danni della stampa registrati in un determinato Paese. Le prime posizioni sono tradizionalmente occupate dai Paesi del nord Europa (Finlandia, Norvegia, Danimarca…), mentre nelle parti basse della classifica troviamo quelli in cui la democrazia è assente o particolarmente fragile. Fanalino di coda, anche quest’anno, è stato l’Eritrea, che non può contare su un’informazione interna degna di questo nome e di cui si sa pochissimo anche a livello internazionale. Eppure si tratta di uno dei principali “esportatori” mondiali di richiedenti asilo. In base ai dati dell’Unhcr, sarebbe al quarto posto (insieme con il Kosovo) e dopo tre stati dilaniati dalla guerra (Siria, Iraq, Afghanistan) di cui anche i nostri poco attenti quotidiani hanno finito col doversi occupare. Dell’Eritrea, dove ufficialmente non c’è nessuna guerra, non si occupa nessuno. Pur trattandosi di un’ex colonia italiana con cui sussistono forti legami commerciali, poco si conosce della repressione quotidianamente attuata da Isaias Afewerki. Alimentazione e servizi sanitari sono scarsi, mentre sono migliaia gli arresti dei dissidenti. Il servizio militare è obbligatorio anche per le donne. Città come Milano e Bologna sono luogo di transito di migranti in fuga, che le attraversano incontrando i propri connazionali residenti, ma la loro condizione di partenza trova posto nei nostri quotidiani solo quando Amnesty International pubblica un nuovo report.
Commentando gli aiuti stanziati recentemente dall’Unione Europea, Cléa Kahn-Sriber di Reporter Sans Frontières Africa, ha denunciato: «È incredibile che l’Unione Europea sostenga il regime di Isaias Afewerki con tutti questi aiuti, senza chiedere nulla in cambio in materia di diritti umani e libertà di espressione. Chiediamo all’Unione Europea di condizionare i suoi aiuti al governo eritreo alla garanzia di un maggior rispetto dei diritti umani, al rilascio dei giornalisti prigionieri e all’autorizzazione al pluralismo dei mezzi di informazione».
Nelle posizioni più basse della classifica di RSF troviamo Turkmenistan, Corea del Nord, Siria, Cina, Vietnam, Iran, Sudan, Somalia, Laos. Ancora paesi in cui privazioni, torture, violenze sono note e documentate. Governi autoritari con cui l’Occidente fa spesso affari, per poi voltarsi dall’altra parte quando si tratta di ospitare chi fugge da terre tanto preziose. Incorciando i dati del report di RSF con altri rapporti internazionali, si può verificare come il basso livello di informazione e trasparenza si incroci sistematicamente con la crisi della democrazia e i conflitti.
Prendiamo in esame, ad esempio, gli ultimi paesi della classifica e confrontiamoli con quanto emerge dall’annuario di Amnesty International o di Human Rights Watch, oppure dal documento Lo stato dell’insicurezza alimentare nel mondo 2015 redatto dalla Fao. Centinaia di studiosi sono coinvolti in ricerche utili a migliorare questi indicatori di libertà e di democrazia per costruire mappe utili a chi si occupa di immigrazione, come sono ad esempio quelle apparse su The Economist. Se nessuna ricerca è esaustiva, ognuna è comunque indicativa. Se confrontiamo le situazioni qui accennate con la mappa delle rotte compiute dai migranti in fuga, a essere sorpresi sono solo i non addetti ai lavori. Dove i diritti umani non sono garantiti, le persone cercano ovviamente di fuggire.
Chiara Zanini