Contropiano
02 07 2014
Di condanne serie per i poliziotti autori di pestaggi e vere e proprie torture contro i manifestanti inermi durante le contestazioni al G8 di Genova del 2001 i tribunali italiani non ne hanno emesse, ma una decisione della Corte dei Conti riporta a galla il marcio e già infuria di nuovo la polemica sui fatti di ormai 13 anni fa.
Il procuratore della Corte dei Conti di Genova ha infatti chiesto un risarcimento di oltre 1 milione di euro a 5 poliziotti e dirigenti di polizia che avevano preso parte al violento pestaggio di Marco Mattana, allora minorenne, e il solito Sap – sigla sindacale di estrema destra - è andato su tutte le furie.
I cinque agenti e dirigenti - l'allora vicequestore aggiunto della Digos di Genova, Alessandro Perugini, i sottufficiali Antonio Del Giacco, Enzo Raschellà, Luca Mantovani ed il sovrintendente capo Sebastiano Pinzone - sono stati portati in giudizio per il “danno d'immagine” che la Polizia e quindi lo Stato avrebbero subito a causa del loro comportamento.
Il Sap non ha perso l’occasione per ergersi a difensore dei suoi eroi ‘ingiustamente condannati’ così come ha già fatto per i quattro agenti responsabili della morte a Ferrara del giovane Federico Aldrovandi. "Non basta essere condannati in sede penale - ha commentato Gianni Tonelli, segretario generale del sindacato di polizia Sap - Non è sufficiente essere obbligati a rifondere un risarcimento civile che ti costringe a vendere anche la propria casa. Vogliamo poi parlare delle sanzioni disciplinari interne? Tutto questo, per qualche magistrato, è troppo poco. Adesso ci manca solo la richiesta di risarcimento di un milione di euro per danno d'immagine da parte della Corte dei Conti".
"Ai delinquenti che devastano le nostre città - dice Tonelli - e agli amministratori arrestati per ruberie varie è stato mai contestato il danno d'immagine allo Stato? E' curioso, per altro, che la richiesta venga dal procuratore Ermete Bogetti, che già nel 2007, quando era responsabile della magistratura contabile piemontese, contestò a svariati colleghi che avevano semplicemente fatto il proprio dovere durante alcuni scontri in Valdisusa un'analoga 'azione di responsabilità per danno alla finanza pubblica per comportamento lesivo dell'immagine e del prestigio del Corpo e dello Stato. Non aggiungo altro".
E invece il segretario del Sap aggiunge, e come: "Per quel che riguarda i nostri iscritti valuteremo i termini e i modi per tutelarli. Vicende come questa confermano, ancora una volta, la necessità di introdurre nel nostro ordinamento una serie di misure relative all'ordine pubblico che consentano ai poliziotti di operare con maggiore serenità e ai cittadini di poter manifestare pacificamente. Le presenteremo proprio stamani, 2 luglio, alla sala Nassiriya del Senato, ore 12, in una conferenza stampa alla presenza di parlamentari di tutti principali schieramenti politici, da destra a sinistra".
Qui sotto il video del pestaggio a cui fu sottoposto l'inerme Marco Mattana, ripreso in diretta da numerosi fotografi e cameraman la cui presenza non fermò la furia dei cinque agenti. Giudichino i nostri lettori se la richiesta della Corte dei Conti costituisce o meno una 'persecuzione' nei confronti dei poliziotti violenti, come afferma il Sap.
Il Manifesto
29 04 2014
Lorenzo Guadagnucci
Il G8 di Genova del 2001 fu un abisso di illegalità: in quei giorni l’abuso di potere era la regola, non l’eccezione. In quei giorni entrammo in un tunnel dal quale, a ben vedere, non siamo ancora usciti. Perché non abbiamo fatto davvero i conti con quella tragica vicenda. Non abbiamo tratto gli insegnamenti dovuti da quella terribile lezione. Non ci sono stati cambiamenti veri, è mancato un ripudio da parte delle istituzioni di quei comportamenti, sono rimaste lettera morta le riforme necessarie per uscire a testa alta da quel tunnel di protervia e autoritarismo. E dire che sul piano giudiziario abbiamo ottenuto risultati senza precedenti, con un ampio riconoscimento delle verità raccontate da centinaia di cittadini e le condanne di decine di agenti, funzionari e altissimi dirigenti di polizia per le vicende Diaz, Bolzaneto e una lunga di serie di episodi avvenuti in piazza — pestaggi, arresti arbitrari — impropriamente definiti minori.
Ci sono almeno tre riforme essenziali che scaturiscono dall’esperienza genovese e che in un paese “normale” sarebbero già realtà. La prima: una legge ad hoc sulla tortura. La seconda, una rivoluzione nei criteri di formazione degli agenti e nei rapporti fra le forze dell’ordine e la società civile. Terza, l’obbligo per gli agenti in servizio di ordine pubblico di avere codici identificativi sulle divise.
Voglio soffermarmi sul primo punto. Ciò che intendiamo per tortura ha a che fare con il potere, ossia con l’abuso di potere. La tortura vìola i diritti fondamentali del cittadino nei suoi rapporti con le istituzioni. Si manifesta quando una persona è sottoposta a una limitazione della sua libertà personale ad opera del pubblico ufficiale. È una violenza, fisica o psicologica, che umilia chi la subisce ma anche chi la commette, perché lede gravemente la dignità e la credibilità dell’istituzione che rappresenta. È quindi una violazione della dignità di tutti i cittadini, e perciò ci indigna. Ora, la legge approvata al Senato, su questo punto fondamentale, essenziale, irrinunciabile, è del tutto inaccettabile. Qualifica la tortura come reato comune, che può essere commesso da chiunque nella sua dimensione privata, nei rapporti con altre persone, e si limita a stabilire un’aggravante se quell’atto è commesso da un pubblico ufficiale. La tortura non può essere un reato comune, se vogliamo che questa riforma sia uno strumento di ricostruzione di un’etica democratica all’interno delle forze dell’ordine. Sappiamo tutti che un testo di legge sulla tortura è appena stato approvato dal Senato e attende l’esame da parte dall’altra camera. C’è stata e c’è una pressione esterna per arrivare a una rapida approvazione della legge, in modo da rispettare l’impegno preso dall’Italia con le istituzioni internazionali oltre vent’anni fa. Questo testo di legge, che è frutto di una mediazione più esterna che interna alle aule parlamentari, poiché recepisce una precisa richiesta arrivata dai vertici delle forze dell’ordine, qualifica la tortura come reato comune e non come reato specifico del pubblico ufficiale. Si discosta cioè dagli standard internazionali e anche dal buon senso.
Dev’essere chiaro che introdurre questa figura di reato nei codici serve principalmente a fini di prevenzione. Approvandola, il parlamento manda un chiaro messaggio alle forze dell’odine: dice che abusare dei detenuti, violare l’integrità di cittadini sottoposti a limitazioni legittime della libertà, è un’infamia insopportabile. Dev’essere un messaggio forte e chiaro, visto che l’Italia in materia di abusi sui detenuti ha un curriculum preoccupante, prima e dopo Genova G8. Bolzaneto è stato la punta di un iceberg. Non può essere inviato un messaggio ambiguo, depotenziato nella sua portata.
Sappiamo bene che i vertici delle forze dell’ordine, con il sostegno – purtroppo – dei sindacati di polizia, sono i principali avversari dell’introduzione del reato di tortura. Hanno sempre interpretato questo progetto di riforma come un’onta, come un attacco all’affidabilità e alla credibilità delle forze dell’ordine. Finora sono riusciti a bloccare tutti i tentativi di approvare una legge. Ma l’inadempienza degli obblighi internazionali, dal punto di vista del parlamento, dev’essere superata, perciò durante ogni legislatura il tema è stato riproposto. In questa legislatura il senatore Manconi ha presentato un testo di legge che ricalcava la formula standard prevista dalle Nazioni Unite, ma il testo è stato cambiato e stravolto nella discussione parlamentare e si è attestato sul piano B maturato in seno alle forze dell’ordine: il piano B è appunto il no assoluto alla qualificazione della tortura com</CW>e reato del pubblico ufficiale.
Ho ben presente la discussione in corso, le posizioni assunte dal senatore Manconi e da altri soggetti che in questi anni si sono spesi su questo terreno: c’è una spinta affinché questa legge sia approvata comunque, in modo che la lacuna normativa sia colmata. Ho ben presente però anche un’altra riflessione, svolta in seno al nostro comitato, e attiene al senso del nostro lavoro nella società. Che funzione hanno comitati come il nostro, composti da poche persone, vittime di abusi o familiari di persone ferite, umiliate, spesso uccise in stragi, attentati eccetera? Ebbene, la risposta che ci siamo dati è che questi comitati sono importanti perché hanno la vocazione a dire la verità. Possono dirla più e meglio di altri perché sono liberi da condizionamenti di qualsiasi tipo, non hanno ruoli politici da svolgere, né progetti di qualsivoglia natura da portare avanti. Si occupano di questioni specifiche e su quelle concentrano tutta la loro attenzione.
Allora la mia verità oggi è che questa legge sulla tortura è una legge sbagliata e non va approvata. Non sarebbe un passo avanti. L’Italia non è nelle condizioni di introdurre normative sulla tutela dei diritti fondamentali, specie con riguardo alla condotta e al funzionamento delle forze dell’ordine, che si pongano al di sotto degli standard internazionali. Le nostre forze dell’ordine non sono una casa di vetro, e dobbiamo aiutarle a diventarlo. Le nostre forze dell’ordine non hanno bisogno d’essere blandite e assecondate nei loro meccanismi di chiusura verso il resto della società; devono essere aiutate ad aprirsi. Il reato di tortura, in ogni Paese democratico, è uno strumento formativo, un punto di riferimento morale per chi lavora nelle forze dell’ordine. Solo una mentalità distorta, una cultura democratica debole e involuta, può interpretare l’introduzione del reato di tortura come un attacco alle forze dell’ordine e alla loro credibilità. Un motivo in più per avere una legge vera, all’altezza degli evidenti bisogni del nostro paese.
Si dirà: ma una legge non perfetta è meglio di nessuna legge. Non credo che sia così. Stiamo parlando di un principio fondamentale che non può essere oggetto di trattative al ribasso. Il parlamento deve assumersi le sue responsabilità e applicare gli standard internazionali: la ricerca di una soluzione gradita ai vertici delle forze dell’ordine – attestati su posizioni retrograde e corporative, molto distanti dai valori democratici e costituzionali – non è su questo punto accettabile. Meglio nessuna legge che una legge così, perché una volta approvata una nuova normativa, il discorso sarebbe chiuso definitivamente. Sarebbe un errore politico irrimediabile. E poiché l’introduzione del reato di tortura serve a prevenire gli abusi, meglio tenere aperta la discussione, rendere evidente il cedimento in corso, e rinunciare a questa corsa ad approvare una legge purchessia, come se si trattasse di segnare un punto in termini di produttività legislativa. Non è di questo che ha bisogno un Paese paurosamente incamminato sulla strada dell’autoritarismo.
*Comitato Verità e Giustizia per Genova
Il Fatto Quotidiano
18 12 2013
Finiscono agli arresti domiciliari, grazie alla legge “svuotacarceri” dell’ex Guardasigilli Severino che manda a casa chi deve scontare un residuo di pena non superiore a un anno e mezzo, sei funzionari e agenti di polizia condannati in via definitiva per il blitz alla scuola Diaz durante il G8 di Genova del 2001. Si tratta di Filippo Ferri (all’epoca del G8 capo della squadra mobile di La Spezia, nei giorni scorsi reclutato dal Milan come “tutor” di Balotelli), Fabio Ciccimarra (all’epoca dirigente della questura di Napoli, già condannato nel 2010 in primo grado e poi prescritto nper gli scontri al Global Forum organizzato nel capoluogo quattro mesi prima del G8 di Genova), Nando Dominici (all’epoca capo della squadra mobile di Genova), Salvatore Gava (all’epoca funzionario della squadra mobile di Sassari), Massimo Nucera (agente del VII Nucleo del Reparto mobile di Roma, che denunciò di essere stato colpito da una coltellata, episodio bollato come “inventato di sana pianta” dai giudici d’appello) e un collega di quest’ultimo, Maurizio Panzieri. A un settimo condannato, Carlo Di Sarro, all’epoca funzionario della Digos del capoluogo ligure, il tribunale di sorveglianza di Genova ha concesso l’affidamento in prova ai servizi sociali.
Ferri, Ciccimarra, Dominici e Gava devono scontare ai domiciliari otto mesi ciascuno (la condanna era di tre anni e otto mesi, di cui tre anni condonati per l’indulto del 2006). Nucera e Panzieri cinque mesi ciascuno (la condanna era di tre anni e cinque mesi, di cui tre anni condonati). Per tutti l’accusa era di falso ideologico per aver firmato verbali falsi che giustificavano il blitz. La notte del 21 luglio 2001, quando le manifestazioni contro gli 8 “grandi della terra” erano ormai finite, la polizia irruppe nella scuola-dormitorio e arrestò 93 manifestanti, sessanta dei quali restarono feriti, molti in modo grave. Tutti furono accusati di appartenere al “black bloc” protagonista di due giorni di scontri e indiziati del reato di “devastazione e saccheggio”, ma vennero prosciolti in istruttoria.
La settimana scorsa la Corte di cassazione aveva confermato la detenzione domiciliare anche per Gilberto Caldarozzi, nei giorni del G8 vice di Franco Gratteri al vertice del Servizio centrale operativo della polizia di Stato, che aveva fatto ricorso per ottenere anche lui l’affidamento ai servizi sociali per i residui otto mesi di pena. Al termine dei quali, ha affermato nei giorni scorsi il suo legale, “potrebbe tornare in servizio”. Con Caldarozzi era finito ai domiciliari un altro protagonista dell’irruzione alla scuola Diaz, l’allora comandante del reparto mobile di Roma Vincenzo Canterini.
Gli altri colleghi condannati attendono ancora il deposito della decisione del Tribunale di sorveglianza sull’affidamento ai servizi sociali. Tra loro ci sono lo stesso Gratteri, l’allora vice capo dell’Ucigos Giovanni Luperi (poi passato ai servizi segreti) e l’ex funzionario della Digos di Genova Spartaco Mortola. Se i giudici dovessero respingere la richiesta di affidamento, anche per loro scatterebbero i domiciliari. I poliziotti condannati sono stati sospesi dal servizio per effetto dell’interdizione dai pubblici uffici.
Osservatorio repressione
19 11 2013
Ad un manifestante tedesco andranno quindicimila e 500 euro: il giudice ha usato le tabelle degli incidenti stradali.
Primo risarcimento in sede civile per le violenze alla Diaz durante il G8 di Genova del 2001. Un manifestante tedesco ha ottenuto 15.500 euro, ma la sentenza con la quale i giudici hanno stabilito la cifra fa già discutere. Infatti, le botte della polizia sono state valutate alla stregua di un incidente stradale.
Il manifestante, che non si era costituito come parte offesa nel processo penale, aveva chiesto attraverso il suo legale Carlo Malossi di Modena un risarcimento di oltre 200 mila euro, ma il giudice della seconda sezione civile Paolo Gibelli, pur accogliendo sostanzialmente le richieste per il danno biologico, ha fissato in 12 mila euro il risarcimento, adottando i parametri recenti fissati dalla legge Balduzzi e non quelli cosiddetti della "Tabella di Milano" che stabilisce parametri assai più alti.
Inoltre, per la calunnia e l'ingiusta detenzione il risarcimento è di soli 3.500 euro, ben poca cosa se si considera che gli arrestati della Diaz erano accusati di reati pesantissimi, "incastrati" da prove false appositamente fabbricate dalla polizia.
Nei giorni scorsi sono state depositate le prime sei cause civili da parte di altrettanti manifestanti che si erano costituiti al processo penale conclusosi con la condanna in Cassazione degli alti funzionari di polizia.
“L’umiliazione dei cittadini continua – scrive in una nota il Comitato Verità e Giustizia per Genova, che da 12 anni sostiene la battaglia delle vittime della “macelleria messicana” – Prima dipendenti dello stato ti pestano a sangue, rischiando di infliggerti lesioni letali, poi ti arrestano costruendo prove false e mentendo all’opinione pubblica, subito dopo il presidente del consiglio in conferenza stampa internazionale ti addita come eversore e violento; e ora, a ben dodici anni di distanza dai fatti, una volta finiti i processi, una volta smontato il castello di menzogne, una volta chiaro al mondo che 93 cittadini furono letteralmente calpestati nel corpo e nello spirito, ecco il risarcimento: 15mila euro, rispetto ai 200 mila richiesti nel primo giudizio civile intentato da uno dei malcapitati ospiti della scuola Diaz, trasformata la notte del 21 luglio 2001 in una sorta di tonnara”
popoff.globalist
10 10 2013
G8 di Genova, in aula la ricostruzione della morte di Carlo Giuliani: le immagini del sasso "che si muove da solo".
Il sasso "che si muove da solo" è stato il protagonista dell'udienza di stamattina del processo civile per l'omicidio di Carlo Giuliani.
I legali della famiglia Giuliani, infatti, hanno mostrato al magistrato il video con la minuziosa ricostruzione delle sequenza di avvenimenti confezionato nell'ambito dei processo a 25 manifestanti e che ha dimostrato, fra l'altro, che una delle cause della precipitosa fuga dei carabinieri che porterà la camionetta su cui era a bordo Mario Placanica a "incagliarsi" in piazza Alimonda, fu un sasso lanciato dal vicequestore aggiunto Adriano Lauro verso i manifestanti che sfilavano in via Tolemaide (lancio di cui lui stesso ha ammesso la "paternità").
Il funzionario in questione, si vede nel video, è quello rimasto famoso per aver finto di inseguire un manifestante che gridava «Assassini!» urlandogli più o meno: «Sei stato tu a ucciderlo, con il tuo sasso!». In sintesi, è colui che ha iniziato la messinscena dalle gambe corte della morte dovuta alla pietra.
Carlo fu ucciso da un colpo di pistola sparato da un carabiniere in piazza Alimonda, il pomeriggio del 20 luglio 2001 al termine di scontri innescati dalle cariche illegittime dei carabinieri contro un corteo regolarmente autorizzato. Il processo civile era l'unico modo per portare in un'aula di tribunale la morte del ventitreenne dopo l'archiviazione del caso in sede penale.
La famiglia Giuliani ha citato per danni il vicequestore aggiunto Lauro, che comandava l'ordine pubblico in piazza Alimonda, Mario Placanica, il carabiniere che sparò e che non fu mai processato e i ministeri dell'Interno e della Difesa.
"Non ci interessa il risarcimento - ha spiegato dopo l'udienza a Popoff l'avvocato Gilberto Pagani - quello che vogliamo è stabilire la verità e soprattutto le responsabilità che gravitano intorno alla morte di Carlo".
Per la famiglia Giuliani, dunque, da parte di Lauro si trattò di un improvvisato tentativo di depistaggio, da parte del vicequestore, che si fece concreto qualche minuto dopo: ci sono infatti diverse foto che mostrano come la fronte di Giuliani sarebbe stata colpita, mentre era già morto o forse solo esanime proprio da un sasso che "balla", in due diversi fotogrammi, prima sul lato destro abbastanza lontano dal corpo, poi sul sinistro, insanguinato, più vicino alla testa.
Nella ricostruzione anche gli altri elementi che secondo la famiglia Giuliani non sono stati presi in considerazione nell'indagine che portò all'incredibile archiviazione del caso: dalla distanza di Carlo dalla camionetta (era a 4 metri quando viene fotografato con l'estintore in mano), alla mano che impugna la pistola puntandola ad altezza uomo ben prima dell'arrivo Giuliani sulla scena.
Tutti elementi che il magistrato dovrà valutare e lo farà, verosimilmente entro pochi giorni. La famiglia Giuliani ha chiesto che vengano interrogati sia Mario Placanica, sia il colonnello Fabio Cappello (che comandava i carabinieri in quella piazza), e il magistrato si è riservato di decidere questo.
Checchino Antonini