Lipperatura10 05 2013
Sul Corriere della Sera, Pierluigi Battista scrive un articolo molto interessante (lo trovate qui). Sono osservazioni da cui mi piacerebbe ripartire: proprio perché dai tempi della parolaccia libera a Radio Radicale (che anche Battista cita, perché quell’episodio fu, effettivamente, uno spartiacque) sono passati non pochi lustri. Certo, il paese non è cambiato molto, da quel 1986: non la mentalità, almeno, e il “tornatene in Congo” lanciato appena ieri alla ministra Kyenge ne è un esempio perfetto.
Alla fine di una settimana che ha visto delinearsi - come prevedibile - uno schieramento che appare terribilmente netto e dentro il quale si riversano altri infiniti stati d’animo (risentimenti generazionali e di classe, delusione politica, astute ricerche di visibilità, in alcuni casi), mi sembra che bisogna tornare a concentrarsi sul problema, cercando un po’ di lucidità in più. E il problema, più che legislativo, è nella benedetta testolina di molti signori: che quando devono contestare qualcosa a una donna, invece di ricorrere ad argomenti più o meno validi, non trovano di meglio che ricorrere allo scherno sessuale. Anche perché partecipare a quello scherno, o approvarlo anche solo con un “mi piace”, che è l’equivalente web della strizzata d’occhio o della gomitata complice, significa quasi automaticamente mettersi al riparo: c’è un modo molto semplice per non venire attaccati nella rete, ed è quello di mettersi dalla parte dello schernitore, di mostrarsi simpatico, pronto “all’ironia”, meglio se di gruppo. Dinamica antica quanto gli esseri umani, peraltro.
Però. Mi piacerebbe che venisse presa in considerazione, per quanto riguarda il sessismo, una faccenda che non ha nulla a che vedere con il “moralismo” (ma che noia), bensì con un atteggiamento che non si vuole approfondire (comprensibilmente, perché è scomodo assai). Molto spesso, si prende parte a quello scherno anche perché viene condiviso, nel profondo di se stessi. Federico Faloppa, nell’introduzione al rapporto Naga sul razzismo dei colti, quello che traspare in molti articoli di giornale, scrive:
“Si prenda ad esempio il discorso riportato – riportato spesso senza dichiarare la fonte – che veicola non solo lo stereotipo più trito, ma che diventa – in mancanza di confini chiari, specie in presenza di un discorso indiretto – pure il punto di vista del giornalista: un modo semplice ma brillante per far dire ad altri ciò che si vorrebbe (ma non si potrebbe) dire in proprio”.
Riassumendo, dunque: quello che provo a dire da giorni, nella complicata via mediana, è che questa è la questione centrale, e che di questa nessun cavaliere del web parla, o se lo fa la minimizza. Inoltre, che non è con una stretta di vite legislativa o un’azione giudiziaria, salvo eccezioni, che si risolve la vicenda. Parole, temo, inutili, visto che ormai siamo in piena crociata, e la crociata è stata posta nei termini “tecnofobici versus tecnolibertari”, “paladini del futuro versus neodemocristiani censuratori” e il resto, par di capire, viene considerato tragicamente ininfluente.
Invece, è il cuore del problema. In altri termini: se siamo un paese tendenzialmente razzista, sessista e omofobo, un paese che appena trova la possibilità di far sentire la propria voce lo fa con le parole del ventre, che si fa? Non si tratta di gridare “aiuto, vogliono educare la rete”. Si tratta di chiedersi: “ma che caspita sto facendo, dicendo, scrivendo?”
Buon week end.