Connessioni precarie
09 09 2015
di FERRUCCIO GAMBINO
1. Nell’agosto del 2015 a Budapest né autobus né treni erano disponibili per il trasporto dei profughi siriani verso l’Austria. Fatte le debite proporzioni, il loro destino rammentava vagamente la situazione dei profughi eritrei, etiopi e sudanesi che per molto tempo rimanevano appiedati attorno all’oasi di Kufra, nel Sud della Libia. Ma la Mitteleuropa è la Mitteleuropa. Ai primi di settembre, il governo ungherese di Orbàn ha messo a disposizione i mezzi pubblici, una misura analoga a quella del 1989, quando il governo Németh lasciò passare i tedesco-orientali, decisi sì a emigrare all’ovest ma evitando finalmente il tiro al piccione lungo il muro di Berlino.
Nell’ormai lontano agosto del 1989 la questione dei mezzi di trasporto riguardava qualche centinaio di «turisti» della già traballante Repubblica democratica tedesca (Rdt). I «turisti» avevano attraversato l’Ungheria giungendo fino alla frontiera austriaca. La questione era: alla lunga, quel flusso avrebbe ridotto il muro di Berlino a un residuato bellico? In effetti, il 19 agosto 1989, circa 600 tedesco-orientali erano entrati in Baviera, dopo aver passato alla spicciolata il confine ungherese-austriaco sotto lo sguardo benevolo delle guardie di entrambi i Paesi. Il governo della Rdt aveva protestato. Per rabbonirlo, i governanti ungheresi arrestarono e rimpatriarono un gruppo di tedesco-orientali. Poi, nel giro di una ventina di giorni, cambiarono idea e diedero autobus e treni ai partenti. Che cosa era successo in quell’arco di tempo? Semplicemente che il governo conservatore della Repubblica federale tedesca (Rft) aveva oliato le ruote dei mezzi di trasporto ungheresi.
Infatti, Helmut Kohl, il cancelliere della Rft, aveva sganciato segretamente un prestito da un miliardo di marchi all’indebitato governo Németh, aggiungendo poi allettanti promesse per il futuro[1]. Era il 25 agosto 1989, data dell’incontro tedesco-ungherese nei pressi di Colonia. Incassato il pingue assegno, il governo ungherese trovò i mezzi per trasportare verso ovest i «turisti» tedesco-orientali accampati a Budapest. Si dirà: quella del 2015 è una situazione ben diversa. Indubbiamente, soprattutto perché allora tutti i «turisti» erano considerati migranti politici, mentre oggi soltanto i siriani, con l’aggiunta di un gruppo minoritario di irakeni e afghani, sono registrati come tali, mentre «gli altri» sarebbero evidentemente migranti «economici». Ad esempio, oggi i cittadini del Burundi hanno ottime ragioni per emigrare – e infatti fuggono verso il Congo – ma non troverebbero vita facile in Ungheria, così come in molti altri Paesi europei, anche se il presidente-dittatore burundese non lesina le maniere forti contro la crescente opposizione
2. Nei primi otto mesi di questo 2015 si sono contati 310mila profughi in arrivo dalla sponda sud alla sponda nord del Mediterraneo; di questi, circa 200mila sono riparati in Grecia e 100mila in Italia, i due paesi della cosiddetta prima accoglienza. Nello stesso periodo i morti e i dispersi nella traversata del Mediterraneo sono almeno 2.800, per la maggior parte africani, fra cui non si contano, ad esempio, i giovani finiti sulle lame dei muri eretti dal governo spagnolo a Ceuta e Melilla.
Il 25 agosto del 2015, esattamente 26 anni dopo l’accordo sottobanco di Kohl con Németh, il cancellierato tedesco si sporge sul baratro. Fino a quel momento era sotto gli occhi di tutti che la Grecia e l’Italia erano state lasciate sole nell’accoglienza dei rifugiati nell’area dell’UE. Di colpo, il governo Merkel scopre la questione dei profughi siriani e sospende – soltanto per loro e per gli irakeni e gli afghani aggregati – quel notorio sbarramento che è dettato dal patto «Dublino III» dell’Unione europea: da un atteggiamento di rifiuto guardando all’estrema destra tedesca, Berlino passa a una politica di ingressi selettivi guardando soprattutto al mercato del lavoro interno e alla spinta verso un’indiscussa primazia in Europa. Ai siriani che sono riusciti a passare attraverso la ruvida Macedonia e la meno ruvida Serbia si apre la possibilità di trovare rifugio in Germania. I siriani sono generalmente giovani e istruiti (è sottinteso che siano più istruiti degli africani) ed entreranno agevolmente nel sistema d’impiego. Negli stessi giorni, al largo della Libia continuano ad affogare africani sulle carrette del mare (26.8), mentre in Austria si scoprono più di 70 profughi abbandonati e soffocati nel container di un Tir (27.8). In Italia, in un sol giorno sono circa in mille a sbarcare (28.8); tra di loro si contano quattro morti, di cui due bambine di cui non vengono diffuse le fotografie.
Per contro, sei giorni dopo fa il giro del mondo la fotografia del cadavere di un bambino siriano sulla spiaggia turca di Bodrum, morto durante il tentativo della famiglia di raggiungere l’isola greca di Kos. Tutti i mezzi di comunicazione dell’Unione europea sono mobilitati a dare il massimo risalto alla notizia e a discutere della fotografia, mentre il Mediterraneo occidentale viene mediaticamente oscurato. Salvifica, la fotografia del cancelliere Angela Merkel campeggia tra gli striscioni che aprono la marcia dei siriani verso ovest, mentre l’Austria e la Baviera accolgono i primi profughi siriani in provenienza da Budapest. Il premier britannico David Cameron teme di perdere la faccia a fronte dell’universalismo merkeliano e promette di considerare l’accoglienza di qualche migliaio di siriani, quelli particolarmente «bisognosi», ma soltanto a condizione che non siano ancora arrivati in un qualsiasi Paese dell’Unione europea. Dal canto suo, il presidente francese Hollande propone di affrontare la questione siriana alla radice, bombardando selettivamente alcune aree della Siria, una decisione per la quale propende anche il governo britannico.
In breve, l’inquietante oscillazione emotiva provocata prima dal lungo immobilismo e poi dalla repentina decisione del governo tedesco a favore dell’accoglienza dei siriani – e propagata a onda dai media al resto dell’Unione europea – lascia presagire ulteriori e gravi manipolazioni dell’opinione pubblica per il futuro in tema di migrazioni. Il vuoto di una qualsiasi politica migratoria coordinata dell’Unione europea è pneumatico e non da ora. Si tratta del non detto – durato più di 60 anni – di un progetto di unificazione formulato per risolvere i conflitti tra gli Stati prima con il Mec , poi con la Cee e infine con l’Unione europea, mentre la politica estera (a parte gli accordi commerciali ma compresa la politica neocoloniale) è rimasta prerogativa dei singoli Stati. È sintomatico che, per reazione alle traversie patite dai profughi nel tragitto dalla Turchia all’Ungheria, sia in aumento il flusso dei siriani verso la Norvegia: da Beirut a Mosca, da Mosca a Murmansk e poi, con mezzi di fortuna, fino a Oslo. In agosto in Norvegia si contavano circa 100 arrivi al giorno. È un cammino per saltare a piè pari l’Unione europea, un cammino quasi sempre precluso a comuni profughi africani.
Quasi tutti hanno dimenticato che il problema enorme e cruciale di oggi e dei prossimi decenni non è la pur drammatica condizione dei siriani nella tormenta della guerra, bensì il tragico potenziale migratorio in provenienza dalla dimenticata Africa. Da una parte la politica guerrafondaia delle monarchie del Golfo in Libia (oltre che in Iraq, Siria e Yemen), dall’altra la xenofobia diffusa globalmente contro gli africani stanno operando alacremente per l’avanzata della barbarie. Attualmente si contano a decine le città africane – dal Burundi alla Repubblica centro-africana alla Libia – dove il mercato delle armi è l’unico fiorente e dove si spara quotidianamente per le strade, dove le stragi sono moneta corrente – e da dove si tenta di fuggire, senza che il resto del mondo intenda rendersene conto. Ma contrariamente al passato, quello che è successo nel Medio Oriente non è stato contenuto nel Medio Oriente, quello che succede in Africa non potrà più essere contenuto in Africa.
[1] John L. Harper, La guerra fredda. Storia di un mondo in bilico, Bologna, Il Mulino 2013, p. 276 e n. 76, p. 345.
Osservatorio Iraq
05 08 2015
“Il problema é sapere cosa ne sarà di noi. A Sinjar non torneremo, sicuramente non quest’anno. Lasciare illegalmente il paese é troppo rischioso, significa avvicinarsi di più alla morte, con un futuro ancora più incerto.” Il racconto di Sulaiman, a un anno dalla fuga di milioni di persone in Iraq.
Il video in fondo all'articolo riporta una testimonianza che Amnesty International documentava lo scorso agosto, ed inserisce oggi nella sua mappa storica interattiva, pubblicata il 10 giugno, ad un anno dalla conquista di un terzo del territorio iracheno ad opera di Daesh, cosiddetto Stato Islamico.
E’ Sulaiman a parlare, e a mostrare quella che é stata la sua casa per 40 giorni, dal 14 agosto al 29 settembre.
Un ponte poco lontano dal centro di Dohuk, capoluogo della provincia omonima nella parte occidentale della regione del Kurdistan iracheno, dove Sulaiman é giunto dopo giorni in cui “abbiamo visto la morte in faccia più volte e in cui mai avrei creduto di essere più in salvo dopo essere fuggiti da Sinjar”. Parla e ricorda come se quei giorni fossero davanti ai suoi occhi, “rivedere questo video mi riporta al nostro arrivo a Dohuk, carichi di speranza e pronti ad affrontare la parte più difficile: vivere da sfollato a tempo indeterminato”.
Lo scorrere delle immagini, rivedersi sotto quel ponte non é facile. Non lo é per lui, ezida, quarantenne che in passato ne ha viste altre di tragedie, per la sua comunità e per il paese in cui “sono nato, cresciuto, e in cui voglio continuare a vivere”, e non lo é tantomeno per la sua famiglia. Lui, sua moglie Mayan e i suoi 9 figli, con il più giovane, Arshad, due anni a settembre, che “ha pianto mentre abbiamo visto il video.”
“Ricordo quell’intervista, ma poi non l’ho mai vista prima che tu me la mandassi ieri (giovedì 11, ndr). E’ stato come tuffarsi in un passato che ahimé, é ancora presente”. La storia di Sulaiman é la storia di molti iracheni – circa 3 milioni ad oggi, secondo gli ultimi dati ONU – che dal 10 giugno 2014 in poi ha preso una piega ancor più drammatica di quanto non lo fosse già. Era già dal dicembre 2013 che il caos lasciato dalgli ultimi 10 anni di guerra post-invasione statunitense si stava trasformando in qualcosa di peggiore. A Ramadi e Falluja il vuoto lasciato dallo stato e riempito da tribù in conflitto ha rappresentato un terreno fertile per quello che da lì a pochi mesi sarebbe diventato il nuovo incubo degli iracheni (e non solo): Daesh, acronimo arabo per Stato Islamico di Iraq e Siria, in seguito autoproclamatosi nella più semplice forma di “Stato Islamico”.
“Puoi chiamarlo come vuoi, Daesh, Isis, Is, ma la sostanza non cambia, per noi rimangono un gruppo di terroristi che non hanno niente a che fare con l’Islam”, afferma Sulaiman, nella sua tenda del campo di Shariya, dove vive dallo scorso novembre, e da quando ha trovato lavoro con Un ponte per....
Ma lo dice anche nel video, quando vivendo sotto il ponte riceveva l’assistenza della moschea vicina e dei residenti di Dohuk.
Sulaiman nel campo di Shariya
Prima e dopo il ponte tante, troppe cose sono successe, a lui, alla sua famiglia, e in modalità molto simili a tutti i circa 1,8 milioni iracheni rifugiatesi nella regione del Kurdistan.
A giugno la presa di Mosul, che ha lasciato tutti sbigottiti per la sua facile resa e per le centinaia di migliaia di sfollati in fuga da una violenza le cui forme hanno fatto il giro del mondo, alimentando da quel momento in poi anche un caos mediatico che rende ancora oggi difficile la compresione reale dei fatti sul terreno. Poi Bashiqa, Qaraqosh, Bartella, Zummar, Tilkaef, Sinjar, Tikrit e in ultimo la provincia di Anbar, da cui si fugge anche ora, mentre si scrive.
Con 40 gradi all’ombra, mosche un po’ ovunque, i bambini che giocano e la poca elettricità che fa funzionare a scatti il ventilatore, Sulaiman accetta di ripercorrere quei momenti, per la prima volta.
“E’ importante farlo per la storia, perché si ricordi in futuro quello che é stato”. Lo fa insieme al figlio Saadi e la moglie Mayan, che nel frattempo cucina dei succulenti “kuttelk”, parola curda che sta per polpette di couscous ripiene di carne, verdure e spezie.
“Erano le due e mezza del mattino del 3 agosto. Da qualche giorno sentivamo spari e bombe in lontananza, sapevamo che c’erano degli scontri nei vicini villaggi intorno a Khatanya (il suo, ndr).” C’era poco da riflettere. La decisione era già presa, e discussa con i vicini e i parenti. “Mia moglie per fortuna aveva preparato tanto cibo la sera prima, quindi abbiamo preso tutti i vestiti dei bambini, più acqua possibile in bidoni e bottiglie di plastica, e i documenti”.
“I peshmerga (soldati curdo-iracheni, ndr) si erano già ritirati”, ammette Sulaiman con dispiacere e con il rispetto verso chi considera oggi gli unici che difendono il Kurdistan, “e a combattere in quello che abbiamo realizzato soltanto dopo essere un attacco vero e proprio erano rimasti solo le persone, con le poche armi personali.”
“Il monte del Sinjar era l’unica via di fuga. La macchina di mio cugino ha preso le donne e i bambini. Sapevamo che il viaggio sarebbe stato lungo, per questo non abbiamo preso troppe cose. Inoltre, i vestiti dei bambini ci servivano anche per avvolgere i bidoni e le bottiglie d’acqua, per mantenerla fresca.”
Non c’erano più poliziotti, alcuna autorità, tutti i 30mila abitanti di Khatanya erano scappati. “Alle 8.30, dopo sei ore di cammino, raggiungiamo Jadhala, prima fonte di acqua sulla montagna, dove erano già arrivati gli altri con le macchine. “Non eravamo un gruppo compatto, c’era già confusione ed arrivavano le prime notizie dei massacri. ‘Quelli lì’ (i miliziani di Daesh, ndr) avevano già preso il mio quartiere, la mia casa era stata presa.”
Per 5, lunghi giorni gli spostamenti sono stati difficili. “Erano confuse le notizie su quanto succedeva dietro di noi, e ciò che c’era davanti era altrettanto incerto. Non conoscevamo bene il percorso, camminavamo a 'zig-zag' per non lasciare traccia. Ci appoggiavamo alle fattorie che trovavamo lungo il percorso, e mano a mano anche i proprietari e le famiglie si univano a noi. Le macchine ormai erano o senza benzina, o rotte. Si dormiva sotto gli alberi, dentro le caverne, il cibo inziava a finire e le forze a mancare.”
Come Sulaiman ricorda nel video, “il fratello di mio cugino é stato lasciato indietro”. Lo portava sul proprio dorso, ma quel peso era diventato insostenibile. “Scene simili non hanno riguardato solo mio fratello. La disperazione era ovunque, sapevamo anche che ci stavano seguendo... il caldo, la paura, i bambini, stavamo impazzendo tutti!”
Mappa sugli scontri nel Sinjar e sugli spostamenti degli sfollati
Ma tra l’8 e il 9 agosto sembrava tornata la speranza. Dopo una notte passata insonne sentendo gli spari, alle 5 del mattino riprende il viaggio. Verso le 10, “mentre raggiungiamo il picco della montagna vediamo alcuni dei nostri che erano andati avanti venirci incontro. Tra loro anche mio figlio maggiore Saadi, che portava con sé due bidoni carichi di acqua. Era poco, ma almeno bastava per darci un minimo di idratazione e soprattutto serviva alle donne e ai bambini”.
Apparentemente Sulaiman e il gruppo con cui era in viaggio – circa 300 persone – si erano persi. Nella provincia di Dohuk i primi arrivi dei circa 300mila ezidi sfollati nella crisi di Sinjar si erano già materializzati tra il 4 e il 5 agosto. Non erano comunque soli, tanti altri erano ancora dietro di loro ed altri erano già in cammino verso un luogo più sicuro, che da lì a poco avrebbe salvato la vita anche a Sulaiman e alla famiglia.
“Saadi e gli altri riportavano voci sui soldati dell’YPG (unità di protezione del popolo, combattenti curdo-siriani, ndr) stavano aprendo una strada per portare gli ezidi in Siria. Dovevamo solo raggiungere Kursi, a valle, e lì avremmo trovato l’YPG.” Mentre questa notizia li rinvigoriva, un’altra proiettava in loro la luce in fondo al tunnel. “Iniziamo a sentire elicotteri e aerei cargo che volano sopra di noi."
"All’inizio abbiamo pensato fossimo sotto attacco aereo, ma poi abbiamo visto paracadute al posto delle bombe: cibo e acqua dal cielo, allora abbiamo dimenticato la morte! Qualcuno ci stava aiutando.”
Polvere, disperazione, gente che dal basso chiede cibo, acqua e di essere portato via. Quante volte quelle immagini sono state proiettate lo scorso anno, dico a Sulaiman, che prova, scherzando, a riconoscersi in alcune di quelle braccia imploranti. “Ma la tragedia non era alla fine, anche in quel lancio di cibo ed acqua c’era la morte. A pochi metri da me é caduto un imballaggio di forse 2 metri per 2." "
Una persona vi é rimasta ferita, un’altra é morta. Non so a quanti sia successo, era una lotta per la sopravvivenza, la confusione era totale.”
Sulaiman ricorda anche come occorreva essere astuti e lucidi in quei momenti. “Abbiamo ricevuto gli aiuti vicino ad una fonte di acqua, era inutile dunque appesantirsi di bottiglie e bidoni, ed era meglio quindi concentrarsi sul cibo di quegli imballaggi”.
Ripreso il cammino, verso le 9 raggiungono Kursi e lì trovano ad accoglierli sia peshmerga che YPG. “Quei peshmerga erano ezidi di Sinjar che avevano combattutto lungo tutto il cammino e che non si erano ritirati, contrariamente ai peshmerga di Dohuk. “Sono i soldati dell’YPG ad avere il controllo della situazione. Ci dicono che proseguire a nord-est é più rischioso, raggiungere Dohuk era possibile ma attraversare Zummar significava passare per il campo di battaglia. L’unica via sicura era per la Siria.”
“Ci mettiamo in cammino, camminiamo per 13 ore, sembrava non finire mai, ma almeno eravamo con qualcuno che era lì per proteggerci. Mio figlio Arshad da allora sa pronunciare la sigla YPG, gli é rimasta da quel giorno”, sorride Sulaiman.
“Da lontano vedevamo altre persone in arrivo dietro di noi. E poco più avanti due tir vuoti erano lì ad aspettarci. Non c’erano altri mezzi, avremmo viaggiato come merce da trasporto. Ma poco importava. Al momento quella era l’unica via per la salvezza.”
“Ci caricano, partiamo, la sabbia e la polvere continuano ad avvolgerci. Eravamo 150 persone per camion, eravamo stretti e la paura si stava rimpossessando di noi.”
Paura di cosa? “Di non farcela, che qualcosa fosse successo, che la benzina finisse, qualsiasi cosa. In quei giorni era successo di tutto, ed era sempre più difficile rimanere lucidi”. Sono state le due ultime ore di viaggio, alla fine del quale arrivano al border, dove trovano autobus, ambulanze, un chiosco dove rinfrescarsi, pasti ipercalorici. E un poster gigante di Abdullah Ocalan (leader del PKK, considerato guida spirituale anche dall’YPG, ndr) a cui andiamo tutti a rendere omaggio.”
Avevano raggiunto un’altra meta, questa volta più sicura. A Derik, ormai in Siria, vengono portati nel campo profughi di Nawroz, dove vengono registrati. “Dovevamo fermarci, Arshad era malato, mia moglie sfinita, avevamo bisogno tutti di cure. Ci danno una tenda, a quel punto non sapevamo più cosa fare ed eravamo ormai pronti a rimanere in Siria.”
Il 14 agosto tuttavia Sulaiman e famiglia sono di nuovo in viaggio. “Saadi rientra in tenda di corsa, io stavo preparando il thé, ma mi fermo ad ascoltarlo”.
“Al confine di Peshkhabour c’erano tante persone che stavano partendo. Massoud Barzani (presidente del Kurdistan iracheno, ndr) stava annunciando che alle tv e alle radio che si sarebbe preso cura degli ezidi come fossero membri della sua famiglia”, racconta Saadi. “Per la nostra comunità, un simile annuncio da Barzani, da sempre vicino alle nostre sofferenze, era un’invito a partire e a stabilirsi nel Kurdistan iracheno”, riprende Sulaiman. “A Dohuk avevo amici, dal college e alcuni compagni di mio padre. Ricordo quando andavamo a Shariya a vendere oro e metalli preziosi, io accompagnavo sempre mio padre."
"Oggi, per ironia del destino, sono di nuovo qui. Non in viaggio di lavoro, ma per vivere in un campo per profughi”.
Da quel 14 agosto l’arrivo a Dohuk passando per Zakho, la vita sotto il ponte raccontata nel video. Poi il passaggio in una scuola, occupata insieme ad altre 25 famiglie. A novembre “l’invito” ad andare nel campo, poi l’incontro con Un ponte per..., “che mi dà non solo l’opportunità di avere un lavoro, ma di aiutare la mia stessa comunità”.
Campo di Shariya, Dohuk
Il campo di Shariya ospita oggi oltre 18mila persone. All’inizio non c’era nulla, alcun tipo di servizio. “Oggi rispetto a prima siamo in un campo a 5 stelle”, ride Sulaiman, che non perde mai il sorriso. I problemi non mancano: la scarsità d’acqua ed elettricità é un problema costante, che ha a che fare direttamente con le condizioni igieniche.
“Almeno la gente si é organizzata, ci sono mercatini, tende dove i giovani e gli anziani giocano a carte. Proviamo ad avere una vita normale, con semplici emozioni.”
Le emozioni, quelle contrastanti e forti che purtroppo provano in tanti e che influenzano il tuo modo di pensare ed agire. Non ci sono dati, ma sono tante, tantissime le persone con disturbi mentali, dalla depressione alla schizofrenia. “Il problema é sapere cosa succederà, cosa ne sarà di noi. A Sinjar non torneremo, sicuramente non quest’anno. Andare all’estero é troppo rischioso, andarci illegalmente significa avvicinarsi di più alla morte, con un futuro ancora più incerto.”
Saadi vorrebbe andare, dice che si sta informando sui prezzi degli smugglers, i passeurs, coloro che dovrebbero facilitare il passaggio da una frontiera all’altra. Se non fosse per suo padre, lui partirebbe. Provo a spiegargli che purtroppo l’Europa non é così bella come la si immagina, con tutti i pregiudizi e l’opinione negativa che si ha in generale sui “migranti, immigrati”. Saadi dice di saperlo, di esserne consapevole, ma al tempo stesso crede che valga la pena provarci. Sulaiman dice di no, a lui manca Sinjar come l’aria, crede che l’Iraq sia ancora bello come lo ha conosciuto.
Lascio il campo di Shariya, l’autista che é con me, curdo-iracheno originario di un villaggio nel distretto di Amedi, mi racconta della sua famiglia. Anche loro sfollati, più volte fino al 2006, quando Dohuk é diventata una città.
Anche lui vorrebbe tornare a casa, ad Amedi, ma il villaggio é da anni sotto il controllo del PKK, “che non lascia libere le persone”. Mi invita a prendere un thé, e mi chiede se per caso ci sono opportunità di lavoro per suo cugino.
*Si ringrazia Amnesty International per la produzione del video. Un grazie infinito a Sulaiman per la sua testimonianza.
Il Manifesto
05 08 2015
Dopo 15 anni di divieti, una squadra della Cisgiordania entrerà a Gaza per una partita di calcio con un team della Striscia. Si gioca domani: Al-Ahly di Hebron sfiderà Shajaiya, squadra del quartiere massacrato dall’offensiva israeliana del 2014. Fino a ieri Israele ha impedito l’ingresso dei giocatori, ma – secondo Abdel-Salam Haniyeh, funzionario di Gaza – le pressioni della Fifa (su richiesta della Federcalcio palestinese) avrebbe costretto a consegnare i permessi.
La partita è importante: le due squadre, detentrici delle coppe delle rispettivi enclavi, si giocano la Coppa di Palestina. Chi vince andrà all’Asia Football Confederation Cup.
Ma si giocherà qualcosa di più: la speranza di unire i campionati di Gaza e Cisgiordania sotto un unico torneo. Ci provano gli sportivi a fare quello che la leadership non sa fare: il fallimento della richiesta di esclusione di Israele dalla Fifa, ritirata all’ultimo momento da Ramallah, brucia ancora.
Osservatorio Iraq
04 08 2015
Un anno fa migliaia di ezidi sono stati massacrati, altri rapiti dalla folle brutalità di Isis. Molti però hanno trovato riparo anche se certe ferite è dura rimarginarle. Degli Ezidi si sa poco perché poco è stato raccontato. Oggisi sono dati appuntamento a Lalish (e non sono solo) per ricordare chi non c'è più.
L’amara consolazione è che c’è sempre chi sta peggio.
Sulla strada che da Dohuk porta a Khanke Camp è impossibile non notare la presenza di centinaia di sfollati che cercano riparo in tende di fortuna. Tenda in realtà non è neppure il termine esatto, sono teli recuperati qua e là adagiati su dei pali, presumibilmente di legno.
Non si muove un filo d’aria e le centinaia di persone che vi vivono stanno tutte lì sotto riparate alla ricerca di ombra.
Erano anni che non faceva così caldo. La temperatura in questi giorni supera mediamente i 45 gradi, con punte di 50. L’ingresso del campo è presidiato e una volta superato il varco d’accesso la scena che ci si presenta di fronte è di un’enorme distesa di tende.
A Khanke Camp vivono i cosiddetti sfollati interni, gente che ha dovuto abbandonare le proprie case e che hanno trovato rifugio qui. Sono tutti Ezidi. C’è Elias con me, che mi fa da guida. Lui ci ha abitato qui, con la sua famiglia. Ora in questo campo ci lavora, segue una serie di progetti per UPP (Un Ponte Per) e si vede che non è solo professionale il suo approccio alla questione.
Oggi comincia la nuova fase di un lavoro incentrato a evitare lo spreco inutile dell’acqua. Un bene prezioso, soprattutto qui, che non va sprecato. Si lavora sia sugli adulti che sui bambini. Lo seguo nella sua attività attorniato da centinaia di piccoli ezidi. Vestono quasi tutti maglie di squadre di calcio europee, Barcellona e Real Madrid sono quelle che vanno per la maggiore. Uno indossa la maglietta della squadra di Erbil, si nota perché è l’unico ad averla.
Tutti corrono di qua e di là, giocano nonostante il caldo. Ci sono 17000 mila persone qui. La giornata è caldissima ma nonostante questo non smettono di giocare. Quindi chi salta più all’occhio è chi non lo fa. Veste una maglietta del Milan e sta sempre seduto con lo sguardo fisso a osservare il vuoto. Non si può non notarlo.
Quando mi avvicino a lui altri mi seguono e lo circondano ma lui nulla, non cambia mai espressione del viso.
Provo a scherzarci, abbozza un sorriso ma il suo sguardo tradisce sofferenza e paura. Che avranno mai visto quegli occhi è difficile saperlo e forse neppure immaginare. Mi ha raccontato Caterina Mecozzi responsabile dell’ufficio di UPPa Dohuk che i traumi che questi bambini subiscono (lei si riferiva a quelli del campo profughi di Domiz ma credo valga per tutti lo stesso) soffrono già a questa tenera età di depressione, stress e fobie varie.
Per questo ci sono dei percorsi portati avanti da personale specializzato improntati sul cercare di aiutare questi minori a superare queste difficoltà. Alcuni sono proprio i loro genitori a portarli a chi fa questo tipo di lavoro, altri sono gli stessi operatori che girando per le tende notano chi ha più bisogno di aiuto. Un lavoro enorme e prezioso. Ridare una speranza a questi bambini è un’impresa difficilissima e piena di difficoltà.
A Elias chiedo cosa può essere accaduto a quel bambino che a differenza degli altri proprio non trova pace. Elias così mi conduce in una tenda dove vivono una decina di persone. Tredici per l’esattezza.
C’è una donna di quasi sessant’anni che è fuggita da Sinjar. Si è portata via tutti i suoi figli e nipoti più una bambina che ha trovato in strada proprio mentre stava fuggendo. Isis ha ucciso tutti i componenti della sua famiglia e anche lei avrebbe fatto la stessa fine se non fosse stata raccolta in fretta e furia e portata via.
“Isis grida al mondo di essere il baluardo dell’integrità islamica e poi fa questo. Noi Ezidi non ci comporteremmo mai così. Siamo un popolo di pace. Loro tradiscono anche la loro religione oltre che qualsiasi elementare principio di umanità. Che uomini sono coloro che uccidono, stuprano e distruggono?”
Racconta di Sinjar e di quanto accaduto senza mai abbassare gli occhi, con lo sguardo di chi nonostante tutto non ha perso la propria dignità. Poi indica due bambine che si tengono per mano. Una accarezza i capelli all’altra. “Vedi, non sono neppure sorelle eppure si vogliono bene come se lo fossero. Nessuna abbandonerebbe mai l’altra. Per me è mia nipote pure lei, non c’è differenza e di quello che abbiamo, di quel poco che abbiamo, non le faremo mai mancare nulla. Ma dimmi tu che arrivi da lontano, sarebbe possibile nell’Europa ricca e progredita una tragedia di queste proporzioni? E dimmi, non ti sembra normale invece che queste due bambine non lascerebbero mai che potesse accadere qualcosa di brutto l’una all’altra? E’ dura la vita nel campo, lasciare la propria casa e lasciarsi alle spalle i propri cari uccisi barbaramente, ma è negli occhi di quelle due bambine che io vedo la speranza, anzi la certezza che alla fine ce la faremo.
"Chi propaganda odio finirà schiacciato da ciò che sta seminando”.
*Articolo originariamente pubblicato su Articolo21.org. Si ringrazia Ivan Grozny Compasso per la gentile concessione. La foto e'di Salam Saloo, scattata a Lalish, tempio sacroper la comunita' ezida.
03 Agosto 2015
di:
Ivan Grozny Compasso*
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