Huffingtonpost
26 01 2015
di Umberto De Giovannangeli
L'Huffington Post lo aveva anticipato da alcuni giorni. Ma ora è arrivata una autorevole conferma. Che suona come un campanello d'allarme per l'Italia: la "Jihad dei barconi" è iniziata. E a condurla sono le milizie che in Libia hanno giurato fedeltà allo Stato islamico di Abu Bakr al-Baghdadi. La conferma viene da Davos, e da una intervista concessa al Corriere della Sera da Ali Tarhouni, 63 anni, già ministro delle Finanze e del petrolio nel Consiglio nazionale di transizione e, dall'aprile 2014, presidente dell'Assemblea costituente della Libia: "i guerriglieri dell'Isis si sono insediati nella regione di Bengasi". Poi, continuando la marcia verso ovest, nella zona di Sirte e quindi di Misurata, quella che fino a poco tempo fa era un vitale centro di commerci e di affari anche per gli stranieri. Infine, scavalcata, almeno per ora, la capitale Tripoli, truppe di jihadisti hanno occupato Sabrata e, infine, il porto di Harat az Zawiyah, ai tempi di Gheddafi scalo di una certa importanza per le rotte petrolifere verso la Turchia e l'Asia.
Oggi dallo specchio di mare che va da Sabrata fino a Zawiyah e di lì fino a Zuara, piccolo porticciolo di pescatori, partono quasi tutte le imbarcazioni di migranti diretti a Lampedusa, verso la Sicilia o verso Malta. Ormai dall'agosto 2011 - rimarca Giuseppe Sarcina, l'inviato del Corriere della Sera, profondo conoscitore della realtà libica - con la fine del Colonnello, da quelle parti non si vede più una divisa. Non dell'esercito, non della polizia. Terra di nessuno. O meglio terra di pascolo per bande di contrabbandieri, grassatori, trafficanti di uomini, donne e bambini. Situazione ideale per i reparti dei fondamentalisti islamici, sempre meglio equipaggiati, sempre meglio armati.
La creazione di una enclave del Califfato in terra libica è stata realizzata dai militanti del Majis Shura Shabab al-Islam, il Consiglio della Shura per i Giovani dell'Islam, sotto la guida di un veterano dell'Isis, Aby Nabil al Anbari, inviato due mesi fa in Libia da al Baghdadi, e con il sostegno decisivo di circa 300 libici rientrati in patria dopo aver combattuto per il Califfato nella brigata al Battar in Siria e in Iraq. Derna è stata ribattezzata 'Barqa', il nome arabo per Cirenaica. Intervistato dalla Cnn, Norman Benotman, ex leader del Libyan Islamic Fighting Group ora esperto in comunicazioni strategiche della fondazione britannica Quilliam, ha spiegato che gli affiliati all'Isis esercitano uno stretto controllo su Derna, sui suoi tribunali, sull'amministrazione, sulle scuole e sulla radio locale: "ormai la città è tale e quale ad al-Raqqa, il quartier generale dell'Isis in Siria. L'Isis costituisce una seria minaccia in Libia. È in procinto di creare un emirato islamico nell'est del paese".
Particolarmente allarmante è la notizia, confermata dall'intelligence Usa, di campi d'addestramento, con centinaia di jihadisti, nell'est della Libia in mano a vari gruppi di fondamentalisti islamici. "I luoghi di training più famosi sono vicino Sirte, a Sabratha e a Derna (roccaforte dell'Isis)", ha specificato il funzionario libico al Sadek Ben Ali. Altri "campi segreti" sarebbero inoltre spuntati nel sud del paese fuori controllo: "Rifugio per gli estremisti in fuga dall'intervento francese in Mali", ha precisato l'esperto di Libia alla Cambridge University, Jason Pack. Così è. E sarà sempre peggio vista l'incapacità dimostrata dall'Europa di mettere assieme una strategia articolata, che sia qualcosa di più della condivisione di informazioni tra le intelligence dei singoli paesi, in grado di affrontare la nuova minaccia jihadista.
Una minaccia che tende sempre più ad espandersi: dalla Libia alla Nigeria, dalla Somalia al Mali, dal Chad al Sudan, estendendosi al Kenya, dal Maghreb al Sahel all'immensa area subsahariana. Le forze in campo sono possenti, bene addestrate, meglio ancora armate: Boko Haram, al Sheebab, al Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqmi), Ansar Al Sharia, Isis. Il quadro della penetrazione jihad-qaedista in Africa è impressionante. La sola Aqmi, ad esempio, è operativa in Algeria, Libia, Mauritania, Tunisia, Mali, Niger, Senegal e Nigeria. Attentati e rapimenti di occidentali sono all'ordine del giorno per procurarsi denaro e oliare gli ingranaggi della causa jihadista. D'altro canto, annota Mostafa El Ayoub, analista dell'Islam radicale, L'Aqmi o l'Isis sono strumenti di controllo e di pressione in mano a chi ambisce a far entrare la regione nella propria sfera d'influenza religiosa.
L'Arabia Saudita, culla del salafismo, è lì che manovra per sloggiare il Qatar alleato di Ennahda tunisina. Con il petrodollaro i sauditi comprano tutto ciò che è "acquistabile" nel Maghreb - e anche nell'Africa subsahariana - tranne in Algeria che, con la sua ricchezza in petrolio e gas e la sua tradizione militare, sfugge al controllo e alla pressione "geo-religiosa" del regno saudita.
L'Africa settentrionale è un terreno fertile per il fondamentalismo islamico, sul quale Isis potrebbe attecchire velocemente facendo molti proseliti nell'estremismo locale. Un processo già in atto. Fonti di intelligence occidentali hanno peraltro rimarcato come siano sempre più evidenti i legami tra Boko Haram e AqimI primi contatti risalgono al 2010 secondo quanto è stato affermato dal leader di Aqim, Abdelmalek Droukdel, le cui dichiarazioni vennero riportate dalla Reuters nel gennaio 2012, il quale asserisce che a partire da quel momento è stata fornita assistenza, addestramento ed armi a Boko Haram. Sembra anche accertato che anche nel corso del 2013 un gruppo di miliziani di Boko Haram siano stati inviati in Mali per addestrarsi. Secondo la stampa inglese il portavoce di Boko Haram avrebbe incontrato figure di spicco di al-Qaeda lo scorso febbraio, addirittura in territorio saudita. L'obiettivo è quello di unificare i maggiori gruppi jihadisti del grande Maghreb (dal Marocco all'Egitto) e del Sahel (dal Mali al Sudan passando da Chad, Niger e nord della Nigeria) eleggendo un nuovo emiro della zona. in gioco ci sarebbe il progetto della creazione dello Stato Islamico del Maghreb Al Aqsa sul modello di quello d'Iraq e Siria. Nero Islam. Un "Califfato" che dal Nord Nigeria si estende fino alla sua propaggine nordafricana: la Libia. Il cerchio si chiude. E inizia la "Jihad dei barconi".
Huffingtonpost
11 01 2015
Ora c'è chi evoca il "dente per dente". Chi si spinge fino a identificare gli islamici - un miliardo e mezzo di persone - come una moltitudine di sgozzatori. Altri, sull'onda dell'orrore per il duplice attentato di Parigi, pensano che la cosa migliore da fare è sospendere il Trattato di Schengen sulla libera circolazione e, tanto che ci siamo, vietare la costruzione di nuove moschee. Ebbene, è in questo modo che si fa il gioco dei tagliatori di testa dell'Isis e dei loro competitori di al Qaeda. Non c'è niente di più sbagliato, sul piano concettuale e su quello politico, considerare l'Islam come un moloch senza sfaccettature, un moloch integralista, incompatibile per sua natura con la democrazia e quei valori universali che sono alla base della "Marche Républicaine", la straordinaria risposta che la Patria dei Lumi ha dato ai nemici dell'umanesimo, sotto qualunque etichetta religiosa essi tentino di coprirsi.
Tra i principi evocati dai manifestanti di Parigi, tra le sfide lanciate ai seminatori di morte, assile alla difesa, senza se e senza ma, della libertà di espressione, c'è, non meno importante, la sfida, l'impegno per l'integrazione. Una sfida che non può che partire dall'Europa, e in essa, da quei Paesi, tra i quali la Francia, dove la società è sempre più multietnica. E questo, è bene ricordarlo, è un processo irreversibile. Questo, è bene aggiungere, è una ricchezza e non una minaccia, per l'Europa, perché un confronto con altre culture, con altre tradizioni, quando non ha come obiettivo una forzata omologazione, è un arricchimento per l'intera comunità nazionale. Integrazione. E' contro questa prospettiva che si scagliano i "guerrieri di Allah". Perché è di questa Europa che essi hanno paura, e non dell'Europa che prova a mostrare i muscoli, ad alzare Muri, a erigere trincee.
Il propagarsi dell'islamofobia favorisce la loro campagna di proselitismo. ""Quello che vogliono - riflette Tariq Ramadan in una intervista a euronews - - è nutrire l'islamofobia, nutrire questo senso di alienazione e di frustrazione. Ecco perché dobbiamo fare attenzione, questo è quello che vado dicendo ai musulmani di tutto il mondo, fate esattamente l'opposto di ciò che vorreste fare, ma non isolatevi, non state ai margini, socializzate, siate visibili, alzate la voce, siate la voce di chi non ce l'ha, della silenziosa maggioranza contraria a ciò che sta accadendo". E ancora: "Passo il 90% del mio tempo a cercare di far capire ai media cosa l'Islam non è, nessuno mi chiede di dire invece cosa è l'Islam, quali siano i suoi valori, la spiritualità che condividiamo. Vengo sempre messo sulla difensiva, "mi dica perché lei non è un pericolo?" Perché non si vuole invece che io dica perché sono un valore aggiunto per questa società, che cosa posso portare? La percezione dei musulmani in Occidente è sempre del tipo "o fai apologia oppure sei sulla difensiva".
Dobbiamo smettere di parlare in questo modo a noi stessi: in fin dei conti, io sono occidentale quanto lei e sono una parte musulmana del nostro futuro."Una Europa islomofobica è quella che vorrebbero i tanti "califfi" che agiscono nel Grande Medio Oriente, molti dei quali prodotti dello stesso Occidente, non solo per scellerate avventure militari come le due guerre irachene, ma anche per l'applicazione sul campo del vecchio assunto secondo cui "il nemico del mio nemico è mio amico". Così è stato per Saddam Hussein, armato dall'Occidente, anche con i gas con i quali ha massacrato i curdi, quando il "macellaio di Baghdad" era visto come un argine alla penetrazione khomeinista in Medio Oriente. E così è stato per Osama bin Laden e i suoi protettori Talebani, quando servirono per combattere l'esercito sovietico in Afghanistan.
In questi giorni di rabbia e di dolore è imperativo ragionare. Ragionare e non cavalcare l'insicurezza e la paura che può impadronirsi di ognuno di noi. Ragionare significa, ad esempio, fare i conti con gli errori commessi dall'Occidente, Usa ed Europa in primis, agli albori della guerra in Siria, quando quella rivolta popolare s'inquadrava ancora in quell'evento epocale che è stata, e che rimane, la "Primavera Araba". "La nuova generazione - rimarcava allora Olivier Roy, tra i più autorevoli studiosi francesi dell'Islam radicale - non è interessata all'ideologia: scandisce slogan pragmatici e concreti ("erbal", via subito) ed evita richiami all'Islam, come succedeva invece in Algeria alla fine degli anni Ottanta. Rifiuta la dittatura e chiede a gran voce la democrazia". Erano i ragazzi della "rivoluzione dei gelsomini" in Tunisia, erano i ragazzi di Piazza Tahrir in Egitto. Erano i loro coetanei siriani che scendevano nelle strade per invocare libertà e democrazia, ricevendo in cambio fucilate da parte dell'esercito di Bashar al-Assad.
La crescita del fondamentalismo, e delle sue componenti più estreme, è venuta "contro" e non "grazie" quelle rivolte. L'inverno jihadista non è la naturale successione alla Primavera araba. I leader occidentali l'hanno capito troppo tardi, se davvero l'hanno capito. La rottura del 2011 è nell'emergere di istanze di libertà che raccontano di un Islam plurale, in cui è possibile provare a coniugare modernità e tradizione. L'agenda delle rivoluzioni post-islamiste, i suoi attori principali, non avevano nulla a che vedere con il paradigma politico integralista. Volevano "globalizzare" i diritti, non la jihad. Sono stati abbandonati dall'Occidente, e attaccati dall'Islam radicale armato. Ma quei giovani, milioni di giovani, non sono svaniti nel nulla, tanto meno hanno ingrossato le file dell'Esercito islamico o rafforzato i mille tentacoli della "piovra" qaedista. Sono loro l''investimento sul futuro. Sono le organizzazioni della società civile che vivono in tanti Paesi arabi e musulmani, e che combattono, con le "armi" della non violenza, regimi teocratici e feroci tagliagole i cui capi - dal Califfato islamico di Siria e e Iraq, alla martoriata, e colpevolmente dimenticata, Nigeria dei criminali di Boko Haram - chiedono loro di scegliere tra "fede e democrazia".
Giustamente, in questi giorni, in queste ore, ricordiamo e onoriamo i morti di Parigi. Ma questo non può farci dimenticare che, senza riflettori accesi, in questi anni i miliziani qaedisti e dell'Is hanno rivolto le loro armi contro quelli che venivano considerati i nemici interni: donne e uomini musulmani, "colpevoli" di contrastare, anche solo non accettando i diktat della sharia, le indicazioni dei "guerrieri di Allah". Alzare i Muri è il regalo più grande che si potrebbe fare agli ispiratori, prim'ancora che alla manovalanza, della Jihad globalizzata. Costoro hanno paura dell'integrazione, temono la pace in Palestina, vivono e prosperano solo in una situazione di guerra permanente.
La "normalità" li disorienta, li spiazza. Discutere e dividersi sull'esistenza o meno di un "Islam moderato" è un esercizio intellettuale che lascia il tempo che trova, soprattutto quando a cimentarsi con l'argomento sono i "tuttologi" dell'ultima ora. Quel che conta davvero è che nel mondo islamico, nelle comunità islamiche anche in Europa, vi sono tantissime persone, la grande maggioranza, che rigetta non solo la pratica jihadista ma anche i precetti di una ortodossia sessuofobica e asfissiante. Di questo Islam che non si arrende alle teocrazia, fanno parte le ragazze e i ragazzi dell'"Onda Verde" iraniana, così come le donne che combattono il regime oscurantista saudita rivendicando e praticando il diritto a guidare la macchina.
"Oggi salirò a bordo dell'aereo che mi riporterà a casa, in Pakistan, portando con me il manoscritto di un libro che sto scrivendo e che sarà pubblicato a breve. Si tratta di un saggio sulla riconciliazione dei valori dell'Islam e dell'Occidente, di una accalorata esortazione affinché l'Islam moderato e moderno emargini gli estremisti religiosi, riporti i militari dalla politica nelle loro caserme, tratti tutti i cittadini e specialmente le donne con parità e pienezza di diritti, scelga i propri leader con elezioni libere e irreprensibili, e garantisca un governo trasparente e democratico la cui priorità sia soddisfare le esigenze sociali ed economiche della popolazione". A parlare è Benazir Bhutto, in uno scritto del 18 ottobre 2007. "Mentre salgo su un aereo diretto in Pakistan, sono pienamente consapevole che i sostenitori dei Taliban e di al Qaeda hanno pubblicamente minacciato di uccidermi - aggiungeva - l leader dei Taliban Baitullah Mehsud ha dichiarato che i suoi terroristi mi daranno "il loro benvenuto" in occasione del mio ritorno, e non è certo necessario che io spieghi che cosa implicano queste parole.
Comprendo anche gli uomini di al Qaeda, che in passato hanno già cercato di assassinarmi due volte: il Partito popolare del Pakistan (Ppp) e io rappresentiamo tutto ciò che loro temono maggiormente, moderazione, democrazia, eguaglianza e parità tra uomini e donne, informazione e tecnologia. Noi rappresentiamo il futuro del Pakistan moderno, un futuro nel quale non c'è posto per l'ignoranza, l'intolleranza e il terrorismo". Il 21 dicembre dello stesso anno, il 2007, Benazir Bhutto viene uccisa in un attentato a Rawalpindi. Benazir Bhutto era una donna coraggiosa. Una donna islamica. Per questo era una duplice minaccia per gli integralisti. Molto più di quanti, al sicuro nelle loro case, predicano ora la "Guerra all'Islam".
Il Fatto Quotidiano
11 01 2015
Secondo attentato in due giorni. Come sabato le due piccole avrebbero avuto poco più di 10 anni secondo i testimoni. La città di Potiskum è stata frequentemente attaccata dal gruppo sunnita jihadista Boko Haram
Un altro attentato in un mercato in Nigeria e, come sabato a Maiduguri, a saltare in aria sono state due bambine. È stato portato da due piccole kamikaze l’assalto contro un mercato nella città di Potiskum, nel nord est della Nigeria. È il sito web della Reuters a riportare la notizia. Il bilancio provvisorio è di tre civili uccisi.
Come nell’attentato di ieri le due piccole avrebbero avuto poco più di 10 anni secondo i testimoni. La città di Potiskum è stata frequentemente attaccata dal gruppo sunnita jihadista Boko Haram. A poco meno di cinque settimane dalle elezioni presidenziali e legislative in Nigeria, i terroristi stanno accrescendo la loro ondata di terrore sulle città e sugli abitanti del nord est del Paese, costringendo all’esodo verso i confini di Camerun, Ciad e Niger altre migliaia di persone. Il mercato preso di mira sabato a Maiduguri è lo stesso dove lo scorso primo dicembre due donne si fecero esplodere causando una decine di morti e una cinquantina di feriti.
Intanto cominciano a emergere le prime testimonianze sulla strage di Baqa e in altri sedici villaggi. “Abbiamo corso per giorni e visto cadaveri, specialmente sulle isole del lago Ciad: sono stati sterminati come insetti” racconta ai media nigeriani uno dei sopravvissuti. “Il massacro (di domenica scorsa e con una stima di circa 2000 morti) è andato avanti per giorni, i miliziani sono in agguato lungo le acque e quando vedono passare una barca di quelli che fuggono aprono il fuoco”. Altri sopravvissuti parlano di decine di cadaveri “ovunque”.
Secondo altre testimonianze, alcuni residenti inquadrati nelle file dei “vigilantes” hanno tentato di respingere l’attacco a Baga: “All’inizio siamo riusciti anche a catturare alcuni miliziani. Poi i soldati della forza multinazionale ci hanno ordinato di ritirarci perché dicevano che stava per arrivare un cacciabombardiere. Ma non è arrivato. I Boko Haram sono arrivati in massa, uccidendo chiunque incontravano”. “Siamo fuggiti tra i cadaveri, anche di donne e bambini. Una donna incinta aveva lo stomaco squarciato. Lungo la strada abbiamo visto una barca con 25 morti, molti uccisi con un colpo di arma da fuoco, altri annegati”. Altri ancora raccontano di aver passato giorni nascosti tra la boscaglia, mentre è iniziata la ricerca dei parenti delle famiglie costrette a dividersi nella fuga.