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Papua. Amnesty: "Torna la caccia alle streghe"

  • Venerdì, 29 Maggio 2015 08:46 ,
  • Pubblicato in Flash news
Avvenire
29 05 2015

Le autorità in Papua Nuova Guinea devono intervenire urgentemente per impedire e reprimere i crimini contro donne sospettate di stregoneria, dopo che in un villaggio remoto nella regione degli altipiani una folla ha accoltellato a morte una donna martedì.

L'appello viene da Amnesty International, secondo cui la morte della donna, identificata solo come Misila, mette in evidenza il rischio delle persone accusate di stregoneria.

Lo stesso gruppo ha attaccato e tenuto prigioniere altre due donne, che sono state poi liberate da altri abitanti del villaggio che ne hanno udito le grida, riferisce l`organizzazione in un comunicato. ...

Qatar: mondiali di calcio e violazioni dei diritti umani

  • Giovedì, 21 Maggio 2015 10:07 ,
  • Pubblicato in Flash news

Amnesty International
21 05 2015

In un nuovo documento diffuso oggi, Amnesty International ha rilevato come, a oltre un anno di distanza dalla promessa di blande riforme per rafforzare i diritti dei lavoratori migranti, le speranze di un reale progresso stiano rapidamente svanendo.
Il documento, intitolato "Hanno promesso poco, realizzato ancora di meno: il Qatar e le violazioni dei diritti dei lavoratori migranti", presenta una valutazione basata su nove parametri riguardanti altrettanti diritti fondamentali dei lavoratori migranti. Su cinque di essi i progressi sono stati assai limitati, rispetto agli altri quattro non c'è stato alcun miglioramento.

"Il Qatar non sta rispettando i diritti dei lavoratori migranti. Un anno fa il governo si era impegnato a migliorarli ma di fatto non c'è stato alcun passo avanti" - ha dichiarato Mustafa Qadri, ricercatore sui diritti dei migranti nei paesi del Golfo persico.

Negli ultimi 12 mesi poco è cambiato dal punto di vista delle leggi, delle politiche e della prassi quotidiana per gli oltre 1.500.000 lavoratori migranti presenti in Qatar, che rimangono alla mercé dei loro sponsor e datori di lavoro. Sulle questioni cruciali del permesso di lasciare il paese, delle limitazioni al passaggio da un impiego a un altro sulla base dell'istituto del "kafala", della protezione delle lavoratrici domestiche e della libertà di fondare sindacati e di aderirvi, non vi è stato alcun progresso.

"La mancanza di una chiara strategia concernente i risultati da raggiungere attraverso le riforme e i criteri per valutare tali risultati, mette in forte dubbio l'intenzione del Qatar di contrastare le violazioni dei diritti dei lavoratori migranti. Senza un'immediata azione, le promesse fatte lo scorso anno rischiano di risultare un mero esercizio di pubbliche relazioni per tenersi stretti i mondiali di calcio del 2022" - ha sottolineato Qadri.

Il 29 maggio è prevista l'elezione del nuovo presidente della Fifa. L'organo di governo mondiale del calcio ha la chiara responsabilità di considerare in via prioritaria il problema dello sfruttamento dei lavoratori migranti in Qatar e deve, in forma pubblica e privata, chiedere al governo di Doha di attuare riforme concrete per proteggere i diritti dei lavoratori migranti.

"La Fifa ha impiegato molto tempo, denaro e capitale politico per indagare sulle denunce di corruzione circa le candidature di Russia e Qatar ai mondiali di calcio del 2018 e del 2022, riflettendo a lungo sull'assegnazione dei campionati. Tuttavia, deve ancora mostrare di essere davvero interessata a far sì che i mondiali di calcio del 2022 in Qatar non saranno realizzati attraverso sfruttamento e abusi" - ha aggiunto Qadri.

"Ci aspettiamo che la Fifa lavori a stretto contatto col governo, col Comitato supremo di Qatar 2022 - responsabile dell'organizzazione dei campionati di calcio -, coi principali sponsor e con altre realtà coinvolte nell'evento sportivo per impedire le violazioni dei diritti umani collegate al suo svolgimento" - ha proseguito Qadri.

La più significativa riforma proposta lo scorso anno dal governo - l'introduzione di un sistema salariale elettronico per cambiare il modo in cui i lavoratori migranti vengono pagati - è ancora in fase di attuazione.

Molti migranti intervistati nei mesi scorsi da Amnesty International hanno continuato a lamentare il ritardato o il mancato versamento del salario.Il Qatar ha inoltre mancato l'obiettivo di avere 300 ispettori del lavoro in servizio entro la fine del 2014. Vi sono stati solo limitati progressi nell'adozione di misure per migliorare la sicurezza nei cantieri, nella regolamentazione delle agenzie di reclutamento che sfruttano i lavoratori migranti e nell'accesso alla giustizia per le vittime di sfruttamento sul lavoro.
Anche se tutte le riforme promesse nel maggio 2014 fossero state attuate, ciò non sarebbe comunque bastato a eliminare le cause profonde della massiccia discriminazione dei lavoratori migranti.

In un rapporto pubblicato nel novembre 2013, Amnesty International aveva denunciato l'ampiezza dello sfruttamento dei lavoratori migranti impiegati nel settore delle costruzioni, che in alcuni casi era equiparabile a lavoro forzato. Sebbene da allora il Qatar abbia ripetutamente e vibratamente espresso l'intenzione di porvi fine, è cambiato ben poco.

Ranjith, un lavoratore migrante dello Sri Lanka, non riceve il salario dal momento del suo arrivo, cinque mesi fa. Non ha documenti d'identità né un contratto. Alloggia in un campo per lavoratori nell'area industriale, affollato e malsano."Voglio solo lavorare e guadagnare qualcosa per mia moglie e i miei figli ma a causa del mio sponsor non posso cambiare lavoro. Se vado dalla polizia mi arrestano e mi espellono perché non ho i documenti" - ha raccontato ad Amnesty International.

"La realtà è che, trascorso oltre un anno e mezzo dalla denuncia di Amnesty International sull'esteso sfruttamento dei lavoratori migranti, poco o nulla è stato fatto per contrastarne le cause. Siamo un anno più vicini ai mondiali di Qatar 2022 e il tempo per cambiare questa situazione si sta esaurendo. Col boom delle costruzioni ancora in corso e la popolazione dei lavoratori migranti destinata ad arrivare a due milioni e mezzo, la necessità di riforme è più pressante che mai" - ha dichiarato Qadri.

Invece di prendere le misure necessarie per porre termine allo sfruttamento dei lavoratori migranti, le autorità del Qatar sembrano ultimamente più interessate a nasconderlo.

Giornalisti e ricercatori sui diritti umani che volevano approfondire la situazione dei lavoratori migranti in Qatar sono stati arrestati e interrogati. Solo nell'ultimo mese, giornalisti dell'emittente tedesca Wdr e della britannica Bbc sono stati arrestati.

"Cercare di ridurre al silenzio, con gli arresti e le intimidazioni, chi indaga sulla condizione dei lavoratori migranti, significa che il governo è più interessato alla sua immagine che ad affrontare l'agghiacciante realtà di decine di migliaia di donne e uomini sottoposti a violazioni dei diritti umani in Qatar" - ha concluso Qadri.


Corriere della Sera
21 05 2015

Kheda ha 17 anni, nelle foto in abito bianco ha gli occhi sempre bassi. Va a sposarsi con il velo e il bouquet, va da Nazhud, colonnello di polizia che alla sua famiglia aveva detto: "Consegnatemi Kheda o ve ne pentirete". Scene da un matrimonio ceceno.

Sabato scorso alla festa di nozze c'erano tutti quelli che contano, a Grozny. C'era anche Ramzan Kadyrov, il luogotenente del presidente russo Vladimir Putin nel Caucaso.

"Il matrimonio del secolo" ha detto Kadyrov prima di pubblicare in Rete il filmino del ricevimento con gli invitati che danzano sotto lo sguardo triste di Kheda.

Nazhud Guchigov, 46 anni, già sposato, aveva scelto Kheda Goilabieva molto tempo fa e alla giornalista di Novaia Gazeta che nelle scorse settimane aveva rivelato la storia, Elena Milashina, ha mandato una pattuglia come avvertimento: "Sei osservata speciale". ...

In Sud Sudan, dove solo l'acqua ferma la guerra

Corriere della Sera
15 05 2015

Tra le tende frustate dal vento, appare Ngor. Indica un buco nel telo che fa da tetto a lei e ai suoi quattro figli, implora che qualcuno glielo ripari. Presto. Perché il cielo è imbronciato e minaccioso, la stagione delle piogge alle porte. Poco più in là Akuol, 47 anni e un marito morto al fronte, scava con una zappa una gigantesca buca: diventerà una latrina. «Devo fare tutto da sola, in fretta, prima che l’acqua ci sommerga» urla da due metri sottoterra. C’è fermento tra i profughi in fuga dai combattimenti e dalla fame nella tendopoli di Mingkaman, nell’ultimo Stato al mondo, il Sud Sudan. Chi prepara canali di scorrimento, chi terrapieni. Il movimento prima della paralisi: quando gli acquazzoni renderanno inagibili queste dissestate vie di terra rossa, perfino la guerra si fermerà. Potere dell’acqua. La sua forza arriva dove mesi di negoziati e trattative hanno fallito. Il secondo anno di guerra civile — un conflitto fuori dai radar internazionali — sta portando il Paese più giovane e più fragile del mondo sull’orlo della bancarotta e della fame.

Con le piogge si fermano anche le mandrie. I pastori interrompono il loro vagare in cerca di pascoli. «Con i primi rovesci ci spostiamo al villaggio per assicurarci il cibo» racconta il leader di un «cattle camp» (accampamento di bovini) in una prateria nascosta tra i rovi della savana, a pochi chilometri da Mingkaman. Sono loro i «tesorieri» di questo Paese, gli allevatori, custodi della vera «moneta locale», le mucche: risorsa anti crisi, eredità, status symbol, mezzo per comprarsi una o più mogli: «Ne occorrono da 30 a 350, a seconda del rango e della bellezza della donna e se è cresciuta in un cattle camp vale di più» spiega il capo dell’accampamento, dove i bambini non vanno a scuola «perché è troppo lontana. Nessuno qui parla di sviluppo, strade e scuole: sono tutti troppo impegnati a fare la guerra». I bambini scorazzano intorno, qualcuno con un bastone in mano fa il «guardiano». In questa zona per ora la «grande guerra» tace ma «viviamo nella paura di furti e attacchi criminali» dice Abuk Wat, avvolto in un panno rosso. In questo clima di tensione perenne è naturale che ci sia chi preferisce lasciare la famiglia al sicuro tra i profughi di Mingkaman.

Quello che fino a due anni fa era un agglomerato di tukul — capanne di fango e paglia — nel mezzo del nulla è diventato una sterminata distesa di teli e tende bianchi con oltre 70 mila sfollati, fuggiti in massa dai combattimenti che infiammavano Bor e dintorni, sull’altra sponda del Nilo. Traversata che richiede un paio d’ore in battello, un viaggio lungo 19 giorni per Ruben Agang e la sua famiglia: «Sono scappato con moglie, tre figli, genitori e anche con mio nonno centenario» dice indicando l’anziano seduto davanti alla tenda con una croce alle spalle. «Durante la fuga abbiamo visto vicini di casa sterminati». Orrore e terrore, fame e sete. Giorni a piedi tra i giunchi fino a Ziam Ziam e da qui su un barcone fino a Mingkaman.

«Sono cresciuto con la guerra civile e ora, dopo anni, lo stesso destino tocca ai miei figli — riflette Ruben — . La comunità internazionale vuole subito la pace, ma il Paese è ancora un bambino, siamo una società analfabeta, dobbiamo istruirci, ecco perché mando i miei figli a scuola. Voglio che Nancy diventi medico» dice stringendo la sua bimba di tre anni. Sono 2.400 i bambini che frequentano la scuola del campo gestita da Save the Children, cento per classe. Una ventina di aule in bambù con il tetto in lamiera che abbracciano un enorme cortile. Dentro non c’è nulla, soltanto una lavagna. «Spesso facciamo lezione lì fuori — dice Malaak, 28 anni, uno dei 19 maestri — sono bambini interessati a tutto». L’«aula» è sotto il mando: la campanella è suonata, ma loro non se ne vogliono andare. Si sentono dei privilegiati in un Paese dove 7 bambini su 10 non hanno mai messo piede in una scuola. E soltanto 1 su 10 completa le elementari. Ancora peggio le ragazze: solo il 6% finisce. Più che per le nozze precoci, abbandonano per via del banale ciclo mestruale: un motivo di vergogna in un Paese privo di assorbenti. Il mese scorso i cooperanti ne hanno distribuito alcune confezioni al campo. Kale, 14 anni, che vende zucchero sul bordo della strada, li ha provati per la prima volta. Com’è andata? Risata d’imbarazzo, poi un timido «bene».

Poco più in là c’è Madit che a tre anni passa il pomeriggio con in braccio il fratellino Magot di uno, sotto un telo insieme ad altri bambini. Arriva la mamma, il volto segnato dalla stanchezza: «Qui la vita è dura — dice — andare a cercar legna per cucinare è pericoloso, bisogna sempre guardarsi le spalle». Le donne rischiano molestie e aggressioni quando escono dall’accampamento, ma la legna è un’incombenza che spetta a loro. E a loro tocca anche procacciare acqua e cibo: coltivare i campi, caricarsi sulla testa 50 chili di cereali quando c’è la distribuzione dei viveri. Per fortuna chi sta qui deve percorrere solo qualche centinaio di metri per accedere alla propria razione d’acqua giornaliera, 15 litri. Oxfam ha creato impianti di filtraggio e distribuzione delle acque del Nilo: una manna per Mingkaman, dove la stessa agenzia internazionale per lo sviluppo promuove anche originali programmi di igiene per gli sfollati.

Tra i passatempi dei ragazzini, il taglio dei tubi di gomma sistemati tra le tende, divertimento negato nella tendopoli di Bor dove l’acqua scorre sottoterra.

Quello di Bor non è un insediamento aperto come Mingkaman ma un campo chiuso, all’interno di una base Onu. Un rifugio violato, teatro di una strage che non si può dimenticare. «Stavo vendendo i miei chapati (tradizionale pane non lievitato, ndr) quando ci hanno attaccato» racconta con il terrore ancora negli occhi Nyachan. «Mi sono precipitata qui e ho trovato il mio figlio più piccolo che sanguinava, l’avevano ferito a un braccio» ricorda.

È passato un anno dall’assalto, ma per lei e gli altri 2.400 sfollati rimasti accampati qui quell’irruzione armata, proprio nel luogo in cui avevano cercato protezione, resta uno choc. Pochi giorni fa si è svolta una cerimonia per commemorare le 59 vittime. Di etnia nuer, la stessa delle milizie ribelli. E nuer sono gli sfollati di questo campo: una sorta di «enclave» in un’area dinka, la tribù più numerosa, quella del presidente e dei suoi seguaci.

Nuer contro dinka, dinka contro nuer. Così viene ridotta la guerra civile scoppiata alla fine del 2013 in Sud Sudan, a soli due anni dalla nascita del Paese, dopo un conflitto ventennale per strappare l’indipendenza dal Sudan. A infiammare lo scontro etnico, la lotta tra il presidente dinka e il suo ex vice nuer, ma soprattutto l’incapacità di condividere il potere in un Paese dove negli ultimi trent’anni non si è fatto altro che combattere. La linea del fronte si è spostata molti chilometri più a nord di Bor eppure il campo resta affollato. Oltre alla guerra tra esercito e milizie, ci sono le violenze etniche. Le atrocità compiute, un passato che non passa, benzina per ritorsioni e vendette senza fine. «Abbiamo paura a uscire da qui. Molti di quelli che ci provano vengono uccisi» riferisce il capo del campo di Bor. Così quelle che dovevano essere sistemazioni provvisorie sono diventate insediamenti di lunga durata. E pensare che quando per la prima volta proprio in Sud Sudan l’Onu ha aperto i suoi cancelli agli sfollati non li ha voluti chiamare campi ma PoC, siti per la protezione di civili, a sottolinearne il carattere temporaneo.

Il ritorno a casa per molti resta un miraggio nonostante le pressioni del governo che intende chiudere i campi.
«Stanno rovinando la gente, le persone devono tornare alla vita normale, ai loro villaggi» sentenzia seduta alla sua scrivania Martha Nyamal Choat, la vicepresidente del Rrc, braccio umanitario dell’esecutivo.

Garang aveva provato a rientrare nella sua casa di Bor ma ha dovuto riandarsene via. «La vita lì è ancora troppo insicura» dice questo giovane agronomo. Ed eccolo a Minkmann con moglie e figlia. Lui, dinka, si è messo in salvo grazie alla soffiata di un amico nuer: «Mi avvisò di un imminente attacco in città e mi consigliò di scappare». Impossibile tornare anche per Marza, trent’anni e 4 figli, che parla con in braccio il più piccolo, nato sei mesi fa sulla strada polverosa per l’ospedale. Saccheggiato e devastato all’inizio del conflitto, il nosocomio di Bor è stato riportato in vita con l’aiuto di Oxfam che ha costruito cisterne per l’acqua, bagni e fognature e Medici senza frontiere che offre supporto tecnico. Nel reparto maternità Nyamei Riek, 21 anni, è radiosa accanto ai suoi gemellini di 3 giorni. Stanno tutti bene. Un piccolo miracolo nel Paese dove ogni 50 donne che partoriscono una muore.

Anche Marza conferma: «Qui siamo dinka, i nuer a Bor stanno nel campo, fuori li sgozzano». Scuote la testa Toby Lanzer, responsabile Onu in Sud Sudan: «Per tornare a casa devono esserci le condizioni: molte abitazioni sono state occupate da soldati feriti; c’è un problema di sicurezza e una crisi di fiducia tra le 64 comunità etniche». Riconciliazione fallita e collasso economico: il petrolio forniva il 98% delle entrate, ma ora produzione e prezzi sono crollati, il costo dei beni raddoppia di settimana in settimana e molti prodotti iniziano a scarseggiare. Nubi nere su questo giovane Paese governato dalle piogge e dalle mucche.

Alessandra Muglia

La nostra sfida alla fame nel mondo

MondoE' un problema economico piuttosto che un "problema di cibo" in senso stretto. Oltre 40 anni fa, nel 1981, in un libro intitolato "Povertà e carestie" ho provato a usare un concetto che ho definito "capacità di procurarsi il cibo" per spiegare le carestie, ma la stessa idea serve anche a capire le cause della fame nelle sue diverse declinazioni, endemica, moderata e a tratti catastrofica. L'idea di base della capacità di procurarsi il cibo è estremamente semplice. Poiché il cibo e le altre risorse non sono distribuite gratuitamente alla popolazione, il loro utilizzo dipende per forza di cose dal paniere di beni e servizi che ci si può permettere di acquistare.
Amartya Sen, La Stampa ...

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