Internazionale
13 02 2015
Il Messico sta vivendo da tempo una grave crisi.
Ma a livello internazionale questa crisi è diventata visibile soprattutto dopo la scomparsa di 43 studenti della scuola normale rurale di Ayotzinapa, nello stato di Guerrero. L'ultima cosa che sappiamo con assoluta certezza è che questi ragazzi poveri, di sinistra e in gran parte figli di contadini sono stati arrestati da un gruppo di poliziotti la notte del 26 settembre 2014 a Iguala.
Buco nero
La sparizione di questi studenti è un caso eccezionale? Sfortunatamente no. ...
la Repubblica
12 02 2015
Peggiora lo stato della libertà di stampa nel nostro Paese: nella speciale classifica redatta da Reporter Senza Frontiere l'Italia precipita di 24 posizioni, dal 49esimo posto al 73esimo. Pesano in questi ultimi 12 mesi "l'esplosione di minacce, in particolare della mafia, e procedimenti per diffamazione ingiustificati".
In Italia nei primi dieci mesi del 2014 si sono verificati 43 casi di aggressione fisica e sette casi di incendio doloso a case o auto di giornalisti. I processi per diffamazione "ingiustificati", secondo Rsf, nel nostro Paese sono aumentati da 84 nel 2013 a 129 nei primi dieci mesi del 2014. Stupisce che in graduatoria il nostro Paese sia superato anche da Paesi come l'Ungheria del discusso premier Orban (65esimo posto) o come Burkina Faso e Niger (46esimo e 47esimo posto). Peggio dell'Italia in Europa è riuscita a fare solo Andorra, caduta in un anno di 27 posizioni a causa delle difficoltà incontrate dai giornalisti nel raccontare le attività delle banche del piccolo Paese tra Francia e Spagna.
IL WORLD PRESS FREEDOM INDEX 2015, TUTTI I PAESI DAL PRIMO ALL'ULTIMO
La situazione è in peggioramento in tutto il mondo: il rapporto parla di "una regressione brutale" della libertà di stampa nel 2014, conseguenza in particolare delle operazioni terroristiche dello Stato islamico e di Boko Haram e in generale dell'aumento dei conflitti armati. Un "deterioramento globale" legato a diversi fattori, con l'esistenza di "guerre d'informazione" e "l'azione di gruppi non statali che si comportano come despoti dell'informazione", ha dichiarato Christophe Deloire, segretario generale di Rsf.
L'indicatore globale annuale, che misura il livello delle violazioni della libertà di informazione, è arrivato a 3719 punti, quasi l'8% in più rispetto al 2014 e il 10% in più se paragonato al 2013. Il peggioramento più grave riguarda l'Unione europea e i Balcani.
"L'interferenza sui media da parte dei governi - si legge nel rapporto - è una realtà in molti Paesi dell'Unione europea. Ciò è dovuto alla concentrazione della proprietà dei mezzi di informazione in poche mani e nell'assenza di trasparenza sui proprietari". Inoltre "la Ue non ha regole sulla distribuzione degli aiuti di Stato ai media".
Nel rapporto si parla del controllo dei mezzi di informazione che nelle aree di conflitto è diventato un vero e proprio strumento di guerra: in particolare lo Stato islamico sta usando i media come uno strumento di propaganda e di reclutamento. L'Is controlla cinque stazioni televisive a Mosul in Iraq e due nella provincia siriana di Raqqa.
Dal rapporto si evince che i due terzi dei 180 paesi classificati da Rsf "hanno fatto meno bene dell'anno precedente". Per il quinto anno consecutivo, la Finlandia conserva il primato di Paese più virtuoso, davanti a Norvegia e Danimarca. Nella top ten anche Nuova Zelanda (sesta), Austria (settima), Giamaica (nona) ed Estonia (decima) dove a dicembre era stato arrestato e poi rilasciato il giornalista italiano Giulietto Chiesa. Bene anche la Mongolia, il Paese che ha registrato l'incremento più significativo balzando dall'84esimo al 54esimo posto. L'Egitto, dove oggi sono stati rimessi in libertà i due giornalisti di al-Jazeera accusati di complicità con i Fratelli Musulmani, è al 158esimo posto.
Tra i paesi dell'Ue, la Bulgaria è quello più indietro (106esima posizione). Gli Stati Uniti si trovano al 49esimo posto (in calo di tre posizioni), la Russia al 152esimo, appena davanti alla Libia (154). I Paesi più pericolosi al mondo per i giornalisti sono risultati invece l'Eritrea (180esimo posto), la Corea del Nord (179), il Turkmenistan (178) e la Siria (177). In questo speciale indice di Reporter senza frontiere, l'Iraq sconvolto dai jihadisti dello Stato islamico occupa il 155esimo posto, la Nigeria dove agisce Boko Haram il 111esimo.
Corriere della Sera
12 02 2015
La notte del 31 gennaio l’artista Combo è stato picchiato in strada da quattro uomini, a Parigi, che gli avevano chiesto di cancellare dal muro la sua opera: l’autoritratto in djellaba (l’abito tradizionale musulmano) e la parola «Coexist» scritta con la mezzaluna islamica, la stella di David ebraica e la croce cristiana. Da allora le scritte «Coexist» si moltiplicano sui muri di Parigi. Combo, figlio di un libanese cristiano e di una marocchina musulmana, ha raccontato l’aggressione sulla sua pagina Facebook. «Sono finito a terra sotto i loro colpi. Sono riuscito a difendermi e a incassare come potevo. Quando si sono stancati mi hanno lasciato per terra insanguinato, promettendomi lo stesso trattamento se avessi continuato ad affiggere le mie opere, e consigliandomi di tagliarmi la barba. Mi importa poca da dove vengono, il colore della loro pelle, la religione o le idee politiche. In questo contesto non rappresentano che stupidità e ignoranza».
Gli slogan contro l’estremismo
Nei giorni successivi agli attentati di Parigi si è registrato un aumento di episodi di violenza contro gli ebrei e i musulmani. L’artista francese milita per la coesistenza delle religioni, e non disdegna di prendersi gioco dell’estremismo. È capace di creare slogan come «Più hummus meno Hamas» (il tipico piatto mediterraneo a base di ceci contro il partito islamico che controlla Gaza), di scrivere sui muri «L’abito non fa il monaco e la barba non fa l’imam» accanto alla sua immagine barbuta, e di chiedersi se il suo aspetto sia più quello di uno jihadista o di un hipster. Dopo l’aggressione Combo, ferito a un occhio e a un braccio, ha ricevuto molti attestati di solidarietà ed è stato invitato da Jack Lang, ex ministro della Cultura e presidente dell’Istituto del mondo arabo, ad attaccare la scritta «Coexist» sulla sede dell’Istituto. Centinaia di persone si sono radunate nel piazzale, hanno preso il manifesto e sono andate ad affiggerlo sui muri di Parigi.
Huffington Post
12 02 2015
Sabato 14 febbraio una quantità di personalità e di organizzazioni - Cgil, Fiom, Arci, Attac, Flc-Cgil, Fp-Cgil, Rete della conoscenza, Act, Tilt, Forum italiano dei movimenti per l'acqua, L'altraEuropa, partiti della sinistra ed esponenti della sinistra di partiti che fanno ormai fatica a connotarsi come tali - tutti quelli, insomma, che avevano firmato l'appello 'Cambia la Grecia Cambia l'Europa' a favore del nuovo governo greco, si ritroveranno in piazza a Roma.
Analoghe manifestazioni e sit in sono promossi in questi giorni in moltissime città italiane così come in altri paesi europei. Per dire che sarebbe fatale per l'Europa se a Bruxelles non capissero che occorre cambiare politica, a cominciare dal caso greco.
La novità è che oramai una parte importante dell'opinione pubblica - anche tedesca, come dimostra fra l'altro il sostegno offerto dai sindacati di quel paese alle proposte di Syriza - ha capito che le cose stanno assai diversamente da come i media l'hanno raccontata: non è la Grecia che deve chiedere un favore all'esecutivo dell'Ue, ma, al contrario, è questo esecutivo che deve chiedere scusa ai greci. Per aver sbagliato tutto: per essersi fidato - e per continuare a fidarsi - degli uomini che hanno fin qui governato la Grecia e per averli indotti a perseguire una linea che ha portato al disastro.
Deve infatti essere chiaro che la catastrofe greca non è stata provocata solo dalla crisi ma anche dalla dissennata politica di bilancio e fiscale promossa dal governo Samaras. Tutto questo era evidente già dal 2008. Sebbene la troika fosse ben consapevole - lo ha anche dichiarato pubblicamente - che quel governo di Atene non solo aveva consentito un'impensabile esenzione fiscale ai più ricchi ma aveva addirittura falsificato i bilanci statali, essa ha continuato a dire che se alle elezioni Samaras non fosse tornato a vincere sarebbe stato un disastro.
Dopo due anni di medicine "bruxellesi", nel 2010 il Pil del paese era già sceso di 10 punti. È allora intervenuta una consistente ristrutturazione del debito che però, anziché essere mirata alla ripresa dell'economia reale, è stata utilizzata sostanzialmente per ripagare i crediti privati detenuti dalle banche (quasi tutte tedesche), così ulteriormente allontanando ogni possibilità di ripresa. Il risultato: due anni dopo il Pil era crollato a meno 25 per cento e la disoccupazione a più 18, mentre nessuna, dico nessuna, riforma fiscale era stata avviata.
Che le cose stiano proprio così lo riconoscono ormai non solo un largo numero di economisti stranieri di fama (buon ultimo John Galbraith), ma lo stesso Fondo Monetario Internazionale nel suo più recente documento.
I veri colpevoli della drammatica situazione della Grecia sono dunque i suoi presunti salvatori e i loro complici ad Atene. Quelli che alla vigilia delle elezioni hanno gridato che se Syriza avesse vinto la Grecia sarebbe diventata come la Corea del Nord.
Le ragioni per manifestare e gridare queste verità come si vede sono molte. Anche se a Bruxelles sono sordi. O meglio: cercano di nascondere le scelte che hanno compiuto per difendere specifici interessi che non hanno nulla a che vedere con quelli del popolo greco e dell'Europa tutta con la predica filistea secondo cui chi ha preso in prestito danaro deve restituirlo. Ma se per ottenerlo prima ti ho strozzato è evidente che quel debito non potrò mai pagarlo. È come Melchisedech che se la prendeva col proprio asino perché, proprio quando gli aveva insegnato a non mangiare, era morto.
Quel che il governo Tsipras oggi chiede, e con lui tutti quelli che stanno manifestando, è di aver almeno sei mesi di tempo per riparare ai guasti prodotti in sei anni dalla troika e dai precedenti governi greci. Per poter restituire, non per non farlo, sapendo che se invece si subisce il diktat della troika quel debito non potrà mai essere pagato. Perché la Grecia sarà morta. Come è stato ripetuto ormai da molti il problema è politico, non finanziario: e così la soluzione possibile.
Luciana Castellina