Comune - info
14 09 2015
di Alex Corlazzoli*
Expo sì, Expo no. Alla fine ci sono andato (a moderare un dibattito) e mi sono convinto che non porterei mai una classe di ragazzi all’Esposizione mondiale, la Gardaland di Milano. Chi fa il maestro ha il dovere di chiedersi: cosa voglio insegnare ai ragazzi? Come voglio parlare loro del cibo, della terra, dell’aria? Vogliamo dire la verità ai futuri cittadini o mostrare loro una cartolina patinata del mondo? Ecco, se quest’ultima è la vostra intenzione, allora potete andare a visitare Expo 2015. Troverete un grande gioco: potrete timbrare il vostro “falso” passaporto (5 euro a documento) ad ogni Paese che visitate; divertirvi a fare l’henné sulle mani grazie alle donne ugandesi o della Mauritania; saltare sulle reti elastiche del padiglione del Brasile; fare fotografie seduti in una finta tenda berbera; realizzare il vostro menù greco preferito; scrivere il vostro nome con i chicchi di caffè o comprare braccialetti ricordo fatti con i semi. Ma non chiedetevi chi lavora quel caffè; non domandatevi quanti pozzi sono stati distrutti nei terreni dei territori occupati della Palestina; non azzardatevi a capire chi lavora nei campi del Mozambico o del Burundi; non iniziate a farvi domande sui landgrabbing, i ladri di terra. Expo non è il posto dove farvi questi interrogativi e nemmeno dove trovare risposte.
Girando tra i padiglioni dell’esposizione ho avuto la sensazione di aver fatto qualche errore: forse ho sbagliato, durante le lezioni di scienze, a raccontare ai miei ragazzi che il consumo giornaliero di acqua in Africa è di 30 litri rispetto ai 237 in Italia. Probabilmente ho raccontato una frottola quando ho parlato loro dei conflitti per l’oro blu. Devo aver letto male i dati sul Kenya dove il benessere di pochi (2%), è pagato con la miseria di molti (circa il 50% della popolazione vive sotto il livello di povertà). Devo aver visto un altro film finora perché ad Expo non ho trovato una sola riga, una sola informazione che raccontasse alle migliaia di persone che passano in quei padiglioni, il dramma che vivono le popolazioni africane.
Sono partito dalla Palestina: non un’immagine, una riga, una fotografia dell’occupazione. Ho chiesto come mai e mi è stato risposto che “non era opportuno”. Ho pensato che la scarsità di informazioni riguardasse solo quel Paese. Ho provato ad entrare negli spazi dell’Eritrea, della Giordania, della Mauritania: nulla di più che una sorta di mercatino dei prodotti locali, qualche bandiera, poche fotografie. Zero informazioni. Ho pensato che fosse impossibile ma nemmeno in Algeria ho trovato qualche spiegazione se non una bella esposizione di vasellame e di abiti tradizionali. Mai un solo cenno ai problemi di un Paese. A Expo il mondo è tutto bello: l’importante è non sapere.
Non ho imparato nulla visitando il padiglione del Burundi, del Ruanda, dell’Uganda. Nello Yemen hanno persino tentato, come in ogni mercato, di vendermi tre braccialetti con la tecnica dei venditori di strada: “Provali. Quale ti piace? Ti facciamo uno sconto”. Eppure i bambini e i ragazzi che lavorano nelle piantagioni di cacao africane sarebbero, secondo alcune stime, più di 200mila di età compresa tra i cinque e i quindici anni, vittime di una vera e propria “tratta”. L’ Unicef ricorda che 150 milioni di bambini tra i 5 e i 14 anni nei Paesi in via di sviluppo, circa il 16% di tutti i bambini e i ragazzi in quella fascia di età, sono coinvolti nel lavoro minorile.
A citare i problemi della terra ci ha pensato il Vaticano, presente ad Expo: 330 metri quadrati per dire ai cittadini attraverso una mostra fotografica e un tavolo interattivo che esiste il problema della sete, dell’ingiustizia, della fame. Tutto per slogan, nulla di più. E’ a quel punto che mi è venuta una curiosità, alla fine della rapida spiegazione dell’addetto della Santa Sede: “Scusi, quanto è costata la realizzazione?”. Risposta: “Mi dispiace non lo so”. Cerco la risposta via Twitter all’account del Vaticano (@ExpoSantaSede) che mi rimanda ad un articolo che parla della “sobrietà del padiglione”, secondo le parole del cardinale Gianfranco Ravasi. Viene da fare due conti: un’organizzazione italiana mi ha riferito di aver speso per partecipare a Expo (per organizzare eventi, padiglione, personale) circa 700 mila euro. E il Vaticano quanto avrà sborsato per dire che c’è la fame, la sete e l’ingiustizia? 3 milioni di euro equamente ripartiti tra Santa Sede, Cei, Diocesi di Milano e Cattolica Assicurazioni che ha offerto il suo contributo per l’allestimento delle opere d’arte.
Alle 21, stop. Ho deciso: meglio non portare i bambini a Expo. Che capirebbero del cibo, dello spreco, delle risorse?
Un solo consiglio: se proprio ci andate, vale la pena visitare il padiglione zero e quelli della Svizzera e dei Brunei. Naturalmente non li ho visti tutti, potrebbero essercene altri all’altezza di quest’ultimi. E non ho nemmeno timbrato il passaporto.
Un’ultima osservazione: non cercate un’edicola o una libreria (magari dedicata al cibo) a Expo. In una giornata non le ho trovate. Se le avete viste avvisatemi.
Infine due curiosità. La prima: andata e ritorno Treviglio – Milano Expo con Trenitalia è gratis, nessuno è passato a controllarmi il biglietto. La seconda: arrivato ai tornelli mi sono trovato di fronte delle file chilometriche. Avendo un appuntamento alle 10,30 ho tentato di passare attraverso il passaggio dei media pur non avendo l’accredito ma solo un regolare biglietto. Nessun problema: nessuno ha badato al fatto che avessi o meno il pass. Un abito elegante e una borsa d’ufficio ed è fatta. Fila evitata.
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* Giornalista, ma prima di tutto maestro, è autore di alcuni libri, tra cui Ragazzi di Paolo (Ega 2002), Riprendiamoci la scuola (Altreconomia) e Gita in pianura (Laterza). Da diversi anni promuove NonSoloACrema: un programma di appuntamenti con gli autori per portare la cultura anche in campagna, nei più paesi più piccoli. L’articolo di questa pagina è apparso anche su un blog de ilfattoquotidiano.it e qui con il consenso dell’autore.
Communianetwork
09 09 2015
Il 25 febbraio 2012 in Val di Susa si svolge una grande manifestazione popolare No Tav. Una delle tante, belle, colorate e partecipate mobilitazioni del Movimento; contro una “grande opera” devastante per il territorio e le popolazioni che lo abitano; un momento tra gli altri di una lotta diventata simbolo e riferimento per tutti e tutte coloro che resistono ai “comitati di affari” che piegano ogni cosa alla logica dei loro interessi privati.
Mobilitazione convocata inoltre in seguito alle grandi operazioni repressive dei mesi precedenti, con svariati arresti in tutta Italia, attuati nel tentativo di colpire giudiziariamente il movimento NoTav mentre cresce e diventa sempre più largo e di massa, in Val Susa e in moltissime città del paese.
Per queste ragioni, come in altre occasioni, quella manifestazione era diventata momento di mobilitazione nazionale.
50.000 persone da tutta Italia, contro la Tav in Val di Susa e contro tutte le “grandi opere” al servizio non delle comunità locali ma degli interessi di parte.
Anche da Milano, dalla Stazione Centrale parte un treno carico di centinaia di manifestanti, giovani e meno giovani, lavoratori, militanti sindacali, appartenenti ad associazioni ambientaliste, centri sociali, comitati di sostegno ai No Tav, studenti.
Si contratta un “prezzo politico” con Trenitalia, allora diretta dal “grande manager” Moretti, per permettere a tutti e tutte di partecipare. E si parte, per tornare tutti insieme allegri e convinti di aver vissuto una giornata di intensa mobilitazione popolare; alla fine di un corteo assolutamente pacifico, un serpentone colorato che si è snodato per ore da Bussoleno a Susa.
Quindi, “si parte e si torna insieme”, come si grida gioiosamente in corteo.
Ma alla stazione di Porta Nuova a Torino - dopo il tragitto dalla stazione di Susa fatto in assoluta tranquillità - ci si trova di fronte ad uno sgradevole “imprevisto”. La polizia e i Carabinieri sono schierati sui binari, impediscono l'accesso al treno di ritorno per Milano centrale.
La ragione? Trenitalia rivendica una specie di “sovrapprezzo” rispetto a quanto concordato alla partenza. D'altra parte da tempo Moretti e i vertici dell'Azienda non riconoscono più alcuna “ragione sociale” nella partecipazione alle grandi manifestazioni nazionali dei movimenti sociali.
Quindi, nessuno sconto. O si paga tutto - e caro - oppure si resta a piedi.
La delegazione milanese non accetta l'arroganza e il voltafaccia meschino - e strumentale - di Trenitalia. Si rivendica di partire al prezzo concordato; si comprende che dietro quell'atteggiamento c'è, forse, la rabbia dei “padroni del vapore” per una grande e riuscita manifestazione a sostegno di quei testardi, resistenti valsusini che così dimostrano di non essere affatto isolati in questo Paese.
Tutto da quel momento in poi avviene, certo, in un clima di tensione, con una contestazione dell'atteggiamento di Azienda e forze di polizia vissuto come provocatorio, ma in modo assolutamente pacifico. Si gridano slogan, ci si addensa di fronte ai cordoni di polizia che bloccano il binario; ma contemporaneamente si tratta con la Digos di Torino e con funzionari di Trenitalia, provando in qualche modo a “convincere”, a forzare pacificamente, a “sciogliere” quel blocco che impedisce di tornare a casa.
Finché, all'improvviso partono due, tre cariche molto violente, sia davanti che lateralmente ai cordoni dei manifestanti; cariche prolungate che coinvolgono anche semplici passanti e viaggiatori inconsapevoli.
Alcuni ragazzi cadono a terra, vengono picchiati, alcuni agenti lanciano lacrimogeni in stazione e anche dentro al treno pronto sui binari per Milano.
A testimoniare della brutalità improvvisa di quelle cariche resta la denuncia contro l'operato delle forze di polizia, fatta allora da due dei ragazzi finiti a terra e picchiati. Denuncia che verrà archiviata - per caso? -, ma che a nostro giudizio indica quali furono effettivamente le “violenze” e chi ne fu protagonista.
In questa confusione,cresce la rabbia, si fugge e si lanciano slogan; ma si cerca anche di non disperdersi. Dobbiamo tornare insieme, nessuno va lasciato indietro, bisogna prendersi cura dei feriti e dei contusi, verificare che nessuno venga fermato.
Molti reagiscono, si riformano cordoni, c'è un brevissimo lancio di oggetti verso le forze di polizia.
C'è sempre molta rabbia e si reagisce anche disordinatamente ed emotivamente. Nulla di simile ad una reazione preparata ed organizzata. Esattamente il contrario.
Alla fine si torna a discutere, si riesce a contrattare la partenza, in cambio di una “sottoscrizione volante” tra i presenti e che dà agli “esattori” di Trenitalia parte di quanto richiesto.
Cioè, se alla fine prevale un “senso di responsabilità” è quello dei manifestanti. Non quello dell'Azienda diretta da Moretti né quella della direzione in piazza delle forze di polizia.
Si torna, insieme, con molta tensione e qualche preoccupazione sulle possibili conseguenze di quanto accaduto a Milano e nelle settimane successive; ma anche con la soddisfazione non solo per la partecipazione alla giornata di lotta in Val di Susa, ma anche per essere riusciti a garantire il rientro collettivo dei manifestanti milanesi.
Ed oggi che accade? Qualche mese fa a due compagni di Milano, presenti a quella manifestazione, Dario del collettivo Ri-Make/Communia Network e Franco del collettivo Sos Rosarno viene notificata una comunicazione giudiziaria da parte della Procura torinese per i “fatti di porta Nuova”, con imputazioni piuttosto pesanti: resistenza aggravata, lesioni personali e interruzione di pubblico servizio.
Dimostrando come il “teorema” che vede i “cattivi” tra i sostenitori del movimento valsusino continui. Con una iniziativa giudiziaria che stravolge la realtà di quanto avvenuto in quella stazione, in cui praticamente agli imputati - e di fatto a tutti quelli che erano lì - viene addebitato un comportamento violento quasi “costruito”, preparato e pregiudiziale che non corrisponde né alle loro intenzioni né alla dinamica dei fatti.
I due compagni dovranno sostenere un processo. La prima udienza è convocata presso il Tribunale di Torino il 22 ottobre prossimo.
Ci sentiamo impegnati a sostenerli, come abbiamo sostenuto le ragioni del grande movimento di lotta in Val di Susa.
Ci impegniamo a far circolare informazioni e documentazione su quanto effettivamente avvenuto quel giorno. Vogliamo lavorare insieme a tutti i soggetti protagonisti di quella giornata, perchè vengano scagionati dalle accuse loro imputate nelle aule di quel Tribunale e possano continuare a partecipare liberamente insieme a tutti noi alle lotte e ai movimenti sociali che ci sono dinanzi.
Ancora oggi per noi si parte e si torna insieme.
Dalla Val di Susa a tutti i luoghi in cui si lotta e si resiste contro le ingiustizie e l'esclusione sociale, contro lo sfruttamento e tutte le oppressioni., contro la devastazione dell'ambiente e dei territori nei quali viviamo.
Global Project
31 08 2015
Non sono solo la rabbia e l’affetto che ci spingono a scrivere queste poche righe di solidarietà e complicità con Gianmarco, attivista del Tpo a cui il giudice del Tiribunale di Bologna Letizio Magliaro ed il P.M. Antonello Gustapane hanno notificato il divieto di dimora. Chiunque lotti per una vita degna non può non sentirsi toccato ed indignato per quanto accaduto oggi a Bologna.
Allontanare forzatamente una persona, un attivista generoso e da sempre appassionato, dalla propria città e dai propri affetti solamente per non aver abbassato la testa di fronte a chi estrae continuamente ricchezza e profitto dalle nostre vite e dai nostri territori, è innanzitutto un gesto disumano, oltre che un segnale politico raccapricciante.
Negare a qualcuno la libertà di potersi muovere, di poter lavorare, di poter stare con i propri compagni, di poter amare solamente per essersi opposto allo sgombero di una palazzina (Villa Adelante) nella quale abitavano decine di migranti e precari è uno schiaffo in faccia a milioni di persone che non arrivano a fine mese, che sono costrette a morire per 2 euro all’ora, che attraversano il Mediterraneo o i Balcani con la forza della disperazione.
Da anni le nostre città sono in mano alle mafie ed alla speculazione, sono gestite politicamente da Comitati per la sicurezza e per l’ordine pubblico, sono teatrino di campagne politiche in cui tutti, da destra a sinistra, utilizzano l’ideologia securitaria per alimentare la guerra tra poveri. In queste macerie di civiltà chi lotta per i diritti sociali e per la dignità delle persone dovrebbe essere incoraggiato ed imitato e non perseguitato.
Per queste ragioni ci sentiamo tutti e tutte Gianmarco, ci stringiamo attorno ai compagni del Tpo e di Labas e pretendiamo immediatamente la sua libertà.
Siamo e saremo sempre dalla parte di chi non abbassa la testa.
Gianmarco libero. Liberi tutti
DinamoPress
31 08 2015
La comunicazione, inquadrata nell’intera molteplicità dell’odierno spazio mediatico, determina la creazione di verità. È indubbiamente un terreno cruciale per esprimere un’azione radicale sul reale, ma come?
Una ruiflessione collettiva in vista del seminario di Euronomade "Costruire potere nella crisi", Roma 10-13 settembre.
Di certo, oggi, non attraverso un lungo testo come questo. Il primo passo per un’analisi sulle forme di comunicazione è infatti assumere che la forma del testo scritto che siamo soliti impiegare non è all’altezza dell’istantaneità assunta oggi dalla comunicazione; esso non riesce a permeare la società nella quale vogliamo intervenire; banalmente, non comunica, non riesce a veicolare messaggi se non all’interno delle nostre cerchie. Tutto ciò non significa, ovviamente, che sia inutile scrivere un testo utilizzando più di 140 caratteri, quanto piuttosto che sia ingenuo pensare che esso possa essere genericamente diretto a tutt*. Insomma, se il testo di 4-5 pagine è il codice più efficace per confrontarsi e far circolare posizioni politiche all’interno degli ambienti del “movimento” in Italia, esso va usato con la consapevolezza di questo particolare “target” a discapito di altri, rispetto ai quali tale codice si mostra del tutto inefficace.
Proviamo dunque, con un documento del tipo sopra descritto, a fornire alcuni strumenti analitici utili alla discussione di Roma, e in particolare al workshop sui social network, per la costruzione di un metodo nel terreno comunicativo che sia in grado tanto di aprire a sperimentazioni pratiche, quanto di tracciare linee programmatiche.
Innanzitutto, l’analisi del sistema dei media: complessivamente ne usciamo perdenti, ormai lo percepiamo chiaramente. Assistiamo ad una diffusa estraniazione nei confronti delle narrazioni mediali la cui strutturazione gerarchica ed antidemocratica è maggiormente solida. Tale estraniazione, che investe in primis l’attivismo sociale e la vecchia sinistra ma non solo, pensando in generale alle giovani generazioni, non determina in alcun modo la fine della subalternità degli “estraniati” nei confronti della funzione di verità svolta da grandi televisioni e testate giornalistiche, dalle loro regole e dalle loro maschere.
Più nel particolare, l’analisi delle reti– e più propriamente il terreno dei social network – ci vede al contrario più capaci, più reattivi. Analizzare nel dettaglio i codici funzionanti su questo terreno, tanto nelle espressioni vicine ai movimenti quanto in quelle esterne, deve fornirci un implemento della capacità di agire all’interno dello spazio mediatico.
Ci sembra però utile, anche in questo campo, partire dai problemi riscontrati per elaborare le nostre contromisure strategiche.
Innanzitutto registriamo che i tempi delle notizie, delle storture e degli attacchi al corpo sociale svolti dal potere attraverso i media sono incommensurabilmente superiori ai nostri. Le nostre risposte sono spesso tardive rispetto alle accelerazioni di dibattito provocate dai “temi caldi”. Inoltre, la forma di risposta nettamente più usata, quella del comunicato scritto di cui sopra, rimarca e perpetua oggi quella “lentezza” già accumulata nel seguire l’accadere degli eventi e la possibilità di intervenirvi politicamente.
Con che forma allora si interviene sui temi imposti dall’agenda dei grandi media nemici?
Nei social network si evidenzia già un ruolo determinante nella produzione di (contro)informazione e discorso politico attraverso una moltitudine di “profili”, collettivi e individuali, tra i quali troviamo quelli di molti di noi. La nostra partecipazione “di parte” nelle reti sociali va identificata e definita più chiaramente per poterne chiarire i difetti e le potenzialità. Per fare un esempio, in un momento come l’attuale, certamente difficile per la capacità delle lotte di contendere al potere la costruzione di senso nello spazio mediatico, le risposte che riescono maggiormente a catalizzare i consensi dei nostri sciami d’opinione ci paiono spesso, ahinoi, volti ad un pessimismo pericoloso. Ciò rischia di investirci infatti di una valutazione morale della moltitudine (frutto degli allarmi sulle passioni razziste e sessiste che investono l’Italia con preoccupanti primati nel contesto europeo) che non permette una azione costruttiva di discorso, non aprendo alla prassi.
Ci sono per fortuna anche alcuni profili, che possiamo chiamare maschere, molto vicini a noi e che funzionano. Esse si nutrono di meccanismi di viralità che sono trasversali al successo negli ambiti delle reti sociali: ad esempio, la capacità tecnica specializzata nei microcampi dell’arte visiva (Zerocalcare) e la forte impronta ironica, asse portante della viralità stessa dei social network (Spinoza). Dalla scoperta di questi elementi come efficaci è importante partire per costruire forme di comunicazione differenti, specifiche, che riescano a smuovere le stasi che gli stessi media mainstream impongono nella loro costruzione di senso e a cui crediamo nel momento in cui vediamo espressi pessimismo e rassegnazione.
Gli esperimenti migliori di mobilitazione sociale tentati nell’azione sui social network hanno funzionato in una determinazione visiva, costruendo delle maschere utilizzabili da chiunque (Strikers nello Sciopero Sociale, V per Vendetta in Anonymous, Pulcinella nelle mobilitazioni campane). Analizzare queste esperienze, che su scala globale, regionale e urbana hanno determinato processi politici importanti, può aiutarci a costruire degli strumenti per valutare e sperimentare i processi comunicativi che mettiamo in campo.
Il tema della maschera ci porta ad affrontare una questione che ci pare determinante nel panorama mediatico complessivo. Sono le maschere, in fondo, segni che riescono a transitare tra le differenti sfere dello spazio mediatico. Per maschera intendiamo da un lato la funzione ricoperta dai corpi e dai volti dei singoli che intervengono nello spazio mediatico, in televisione come in rete, permettendo a chi vi entra in relazione, guardandoli, ascoltandoli, condividendoli, una forma di riconoscimento collettivo; dall’altro invece il profilo incorporeo che costruisce la sua fisicità attraverso un’identità che è insieme personale e collettiva, in particolare sui social network. In questo spazio, assistiamo sia al dispiegamento di una notevole capacità personale d’intervento, sia alla costruzione di forme d’identità mobile e allargata come nel caso della maschera di anonymous o dello striker.
Come lo striker per lo Sciopero Sociale, come la maschera di V per Anonymous, è il tweet di Renzi o la sua quotidiana “scenetta” che rappresenta oggi in Italia la maschera con cui il potere detta e distribuisce la sua agenda, la sua notizia, il dato attorno a cui spingere gli sciami.
Il focus su ciò che abbiamo chiamato “maschera”, ci riporta alla centralità di un altro elemento basilare del meccanismo comunicativo: il mittente. L’importanza di questo elemento comunicativo, oltre a quelli di codice/forma e destinatario da cui siamo partiti, rischia di rimandarci ad una questione fin troppo spinosa riguardante, in senso ampio, l’identità. Il problema che possiamo però porci da subito sul tema del mittente nei quotidiani tentativi di fare opinione politica sui social network è se, ad esempio, i fondamentali profili di informazione alternativa e quelli degli spazi occupati – i più utilizzati nei nostri ambienti per intervenire sui temi caldi nei social network – siano effettivamente gli strumenti migliori, le migliori maschere, per produrre opinione su temi specifici su cui il potere indirizza l’attenzione. La nostra impressione in merito è che la facilità di creare, ex novo, voci che non siano immediatamente identificabili per trattare i temi più in voga nel sistema mediale, ci doti di una potenzialità nell’intervento sui social network che dobbiamo approfondire, utilizzare e inflazionare per creare maschere transitorie che sappiano contendere in modo più specifico e tematico la creazione di senso.
Le maschere riportano infine al centro una corporalità che è integrata nei meccanismi di efficacia di tutti i contesti comunicativi e che la potenza dell’audiovisivo, persino nelle forme spettacolarizzate da questo assunte, esprime anche nei nuovi spazi comunicativi delle reti sociali. Sarebbe interessante continuare ad indagare la relazione che questa dimensione corporale della maschera e la sua efficacia ha con la questione della personalizzazione e dell’identità nei processi comunicativi di creazione di senso sul reale.
Tuttavia, ciò che può essere utile per imbastire una discussione volta alla costruzione di occupymaskwallmeccanismi pratici di comunicazione, è piuttosto tener presente l’in-mediata potenza della funzione corporale-visiva che abbiamo chiamato maschera, in tutte le sue forme. Dobbiamo dunque scoprire le prerogative, i meccanismi efficaci nei contesti di rete, consapevoli di dover sperimentare e quindi essere disposti a costruire maschere, persino individuali laddove già accade nei profili personali dei social network, che possano essere, sempre transitoriamente, utili nelle differenti fasi della lotta contro il violento potere, anche mediatico, che ci troviamo di fronte.
Pubblicato su euronomade.info come contributo alla discussione verso la Scuola Estiva di Roma 10-13 settembre 2015.
Dinamo Press
28 07 2015
Il 7 maggio 2015, all’alba, veniva sgomberato SCUP, spazio occupato a San Giovanni. Il 7 maggio 2015, al tramonto, veniva occupato il nuovo SCUP da un corteo cittadino che denunciava lo sgombero, ma anche l’arroganza e le procedure anomale utilizzate dalla proprietà a scapito della volontà di un intero territorio.
Nelle ultime ore stanno sopraggiungendo decine di denunce per quei fatti. La celerità, generalmente anomala alla magistratura romana, ci restituisce l’idea che evidentemente quella giornata non sia andata molto giù all’amministrazione, al prefetto e alle forze dell’ordine.
In effetti, ammettiamo, che le facce basite della questura siano un ricordo piacevole di quel pomeriggio. Ma ancor più soddisfacente è stato vedere tanti e tante, dopo essere stati tutta la mattina sotto al sole inermi a vedere le ruspe fare a pezzi Scup, attraversare le strade di San Giovanni con il preciso intento di non far precipitare nelle macerie la ricchezza che quello spazio ha significato per il territorio.
Nato da quella voglia collettiva, infatti, Scup ha ritrovato non solo casa, ma una vera complicità con la Roma solidale. Una soluzione di continuità che leggiamo come una piccola ma significativa vittoria, e certo non scontata nella fase che stiamo attraversando. Una fase che a suon di sgomberi, intimidazioni, ammende economiche e svendita del patrimonio pubblico al miglior offerente privato, sta determinando un tabula rasa ed un’aperta guerra agli spazi sociali.
Come rete per il diritto alla città abbiamo ben chiaro che le coercizioni che gli spazi sociali ed i suoi attivisti subiscono sono il ritratto di un cambio di paradigma più generale. Non è una casualità che proprio in questi giorni di afa, la giunta Marino (sotto lo scacco direttivo della segreteria nazionale del PD), stia sancendo la definitiva messa a bando di un gran numero di servizi, dal trasporto alla gestione dei rifiuti, per citarne qualcuno. Così, mentre i romani in questi giorni afosi trovano rinfresco tra i nasoni di Roma (ancora per poco pubblici), la versione renziana della giunta Marino sta meschinamente predisponendo una sicura – ma non piacevole – doccia gelata per settembre che spazzerà definitamente quel poco che rimaneva dei servizi pubblici, di tutele sociali, garanzie e diritti.
Mentre il vergognoso scempio di Mafia Capitale ha lentamente consumato, depauperato e spremuto fino al midollo le casse del Campidoglio rendendo proficue persino le emergenze sociali, Roma viene investita dall’ignaro compito di essere archetipo e modello da seguire per risanare il dilapidato debito di bilancio comunale. E allora ecco che parallelamente a qualche bacchettata moralista contro il corrotto di turno e alla privatizzazione strategica delle politiche sociali e dei servizi, compaiono grandi e piccoli processi speculativi che in nome della rendita finanziaria ed immobiliare cementificheranno lupaettari di verde a Roma Sud per costruire il “necessario” stadio della Roma, costruiranno centri commerciali a Tor Pignattara, capovolgeranno la città in nome della candidatura di Roma alle Olimpiadi 2024.
Siamo di fronte ad una città allo sbaraglio, dove le sacche di resistenza, di denuncia politica e contrarietà vengono pedissequamente colpite in termini repressivi, mentre il resto di Roma si trova nel mezzo tra l’incudine del populismo grillino e il martello di una destra fascista che rimodula il suo pericoloso intervento politico e sociale. Una città che nel sociale cavalca la dottrina del decoro scambiando e riducendo il concetto di “qualità della vita” a quello della “sicurezza” e nel politico istituzionale propone l’uscita neoliberista di Mafia Capitale.
Che la situazione fosse complicata lo sapevamo da tempo ed è per questo che è da altrettanto tempo che stiamo sperimentando e scommettendo su forme nuove di rapporti sociali, su nuovi processi di definizione delle relazioni, di complicità, di mutualismo e di cooperazione che provino a ristabilire un equilibrio ed un’equità sociale che ad oggi è ridotta all’osso. L’esperienza di Roma Comune è stata solo l’inizio e non saranno certo le ennesime denunce intimidatorie che fermeranno le nostre rivendicazioni.