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"Herself", nude per raccontare se stesse

La 27 Ora
10 04 2015

I loro corpi sono tutti diversi. Così come le loro storie. Milena, Esther, Demi e Aniela, non sono pin-up, ma donne normali che hanno deciso di raccontarsi sul web. Lo fanno senza pudori e con generosità, rispondendo a un questionario fiume di 73 domande sui temi cruciali della condizione femminile. Ritratti di signora in cui raccontano il loro rapporto con il sesso e con la maternità, l’educazione ricevuta, le paure e le gioie di essere donna, la relazione con il mondo maschile, le discriminazioni subite (o evitate) sul posto di lavoro.

Ma, soprattutto, lo fanno mettendosi a nudo. Letteralmente. Milena, Esther e le altre hanno posato nude e le loro fotografie compaiono accanto alle interviste sul sito.

«È un nudo libero, dove le donne sono soggetti e non oggetti filtrati da un obiettivo», spiega l’attrice australiana 24enne Caitlin Stasey.

È stata lei a lanciare il progetto Herself, definendolo in questo modo:
«Herself è un atto delle donne, fatto dalle donne e per le donne; è un’occasione per testimoniare il corpo femminile nella sua integrità, senza il peso dello sguardo maschile, senza l’obbligo di dover attrarre l’attenzione di qualcuno. Queste donne, semplicemente e coraggiosamente, esistono e sono immortalate in queste foto. Attraverso le loro parole, le loro esperienze e le loro storie, sono proposte su Herself, nella speranza di incoraggiare la solidarietà. In questo modo, forse, noi donne potremmo sentirci confortate dal trionfo delle altre, piuttosto che gioire delle loro sconfitte. Riprendiamoci i nostri corpi. Strappiamoli a chi cerca di approfittare delle nostre insicurezze».

Stasey si definisce femminista, perché si batte «per il raggiungimento di un’uguaglianza totale e indiscutibile». Descrive il mondo come un «posto per uomini» in cui le donne si trovano ad essere semplicemente di passaggio.

Certo, in quest’ottica, l’idea del nudo non seduttivo, non ammiccante, come arma di liberazione dallo sguardo maschile e da quello (spesso ancora più crudele) delle altre donne, in effetti, ha una carica dirompente. Su herself.com c’è la storia di una giovane donna malata di cancro, ma anche quella di una ragazza sovrappeso, di una pornostar, di una ragazza che racconta la scoperta della sua omosessualità, di un’altra che ha appena saputo di essere incinta.

Senza trucchi e senza inganni. E senza photoshop, tanto per essere chiari. I corpi sono veri e vulnerabili, come la vita di ognuna. Con le ferite della malattia, segnati da rughe, grasso e smagliature o nello stato di grazia della gioventù e della bellezza. Poco importa, ognuno ha lo stesso diritto di esistere. E di essere raccontato.

Il tema che fa da leitmotiv è il rapporto tra i media e l’immagine femminile. Che deve essere quasi sempre addomesticata («pettinata» come direbbe Carlo Freccero) per risultare gradevole e quindi commestibile al vorace palato dell’opinione pubblica. Per una volta, il tentativo è di rovesciare questa dittatura.

Il progetto della Stasey ha ricevuto numerose critiche sui social network. Molti l’hanno accusata di avere fatto leva sul nudo, continuando quindi a puntare sul corpo delle donne piuttosto che sulle loro opinioni. Le critiche arrivano soprattutto da quanti considerano «disturbante e distraente» la presenza di tante foto senza veli. E in evidente contraddizione con il manifesto femminista dell’attrice. Altri, hanno apprezzato il suo tributo senza censura alle donne di qualsiasi colore, taglia, forma e orientamento sessuale.

E voi, che cosa ne pensate? Nell’epoca dei selfie, delle condivisioni compulsive di immagini sui social, del boom della pornografia online, che significato assume la rappresentazione del corpo femminile? E, soprattutto, il nudo può diventare uno strumento slegato dal sesso e usato in prima persona dalle donne per raccontare le proprie battaglie, senza malizia e idealizzazioni? Insomma, senza sconti? È possibile o è soltanto un’illusione?

Olivia Manola

30 11 2012

«Una donna vale più della misura di reggiseno che porta»    

L’abito può fare la differenza. Soprattutto se c’è chi lo indossa e chi invece appare senza, come sulla famigerata «pagina 3» del Sun e del Daily Star , tabloid del gruppo News International guidato da Rupert Murdoch. Nei 42 anni appena compiuti dalla rubrica che mostra ogni giorno una prosperosa ragazza rigorosamente in topless, il cliché creato – secondo l’associazione femminista Object – è ferreo: da una parte le donne, nella loro apparenza esteriore, fisica, sessuale.

Dall’altra gli uomini, che nel resto del giornale appaiono ritratti in fotografie che esaltano le loro professioni, il loro ruolo nella società, la loro intelligenza.
    E sempre rigorosamente vestiti.

Per questo, nei giorni scorsi, l’ong Object ha organizzato una manifestazione di fronte alla sede dove vengono «pensati» i giornali di Murdoch, a Londra. Un grande cartello, diviso in due metà, portava le riproduzioni delle tante donne in topless di pagina 3 giustapposte ai «rivali» uomini, con una differenza che balzava subito agli occhi: seni nudi contro sorrisi vestiti. «Una donna vale più della misura di reggiseno che porta», hanno scandito i partecipanti (di entrambi i sessi) alla manifestazione. «Basta con queste abitudini. Le donne meritano il rispetto dei media». Un gruppo ha poi provato a entrare nella sede di News International per portare le proprie rimostranze a Dominic Mohan, direttore del Sun , quotidiano popolare da quasi tre milioni di copie al giorno. «I seni di pagina tre? Una innocua tradizione britannica», si è difeso Mohan, senza ricevere le manifestanti.

Scelte

  • Mercoledì, 28 Novembre 2012 08:48 ,
  • Pubblicato in Flash news
Lipperatura
28 11 2012

Eh no, non è questione di mettere le mutande alle statue.  Per il calendario Pirelli 2012 il fotografo di guerra Steve McCurry ha voluto donne normali, bellissime ma normali, di ogni età. Non ha voluto ritrarre donne nude non perché sia un puritano, un moralista, un limitatore delle altrui libertà. Ma perché, ha detto,  il nudo è “inutile e non interessante, si possono fotografare nudi ovunque”. E ancora:  “Si possono scattare foto sexy dappertutto, anche nella lobby di un albergo. La mia speranza era di riuscire a fotografarle come persone vere”. Segretarie e venditrici di frutta, pensose future madri e allegre sessantenni. Nel 2009 il fotografo Peter Beard aveva proposto tutt’altra visione.

Disse, dopo il putiferio mondiale seguito alla diffusione dell’immagine,  che gli scatti si riferivano a “un rito boscimano che appartiene alle tradizioni delle popolazioni del deserto del Kalahari”: ma l’impatto, come ognun vede, rimandava a tutt’altro. La scelta di McCurry potrà piacere o meno: mi sembra però che corrisponda a un progetto diverso dal consueto, che sceglie di evitare il nudo perché il medesimo è inflazionato, ed è dunque stato privato, al momento, di ogni valenza trasgressiva.  Semplicemente, insomma,  mostra e dimostra che le persone - le donne, nel caso - sono diverse le une dalle altre e che non esiste un modello unico cui conformarsi. Se poi qualcuno interpreterà il calendario come il trionfo della censura femminista che detesta il nudo e la giovinezza e vuole obbligare l’universo mondo al burka, be’, è un problema suo. Davvero.

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