D I S . A M B . I G U A N D O
11 03 2014
Sulle cosiddette “quote rosa elettive” – per cui la legge elettorale dovrebbe imporre una rappresentanza paritetica di uomini e donne – in questi giorni stiamo leggendo e ascoltando, da parte di molti politici e giornalisti, sciocchezze e inesattezze di tutti i tipi. Tanto per dirne una: non ci sono mai state quote rosa imposte dalle leggi elettorali né in Svezia, né in Norvegia, né in Danimarca, che sono i paesi più spesso citati su questo argomento. Le quote rosa elettive in Svezia e Norvegia sono solo all’interno degli statuti di alcuni partiti, che riservano alle donne il 40% o il 50% dei posti nelle liste, e furono introdotte tra gli anni ’80 e ’90, quando le donne occupavano già il 20-30% dei seggi in Parlamento. Anche in Danimarca furono introdotte negli statuti di alcuni partiti fra la fine degli anni ’70 e la metà degli anni ’80, ma furono abbandonate fra l’inizio e la metà degli anno ’90, per cui ora non ci sono più.
Viceversa, la Francia è stato il primo paese al mondo ad aver adottato, negli anni ’90, una legge che prevede un numero uguale di candidati uomini e donne per alcuni tipi di elezione, e la Spagna ha approvato una legge sulle quote rosa nelle elezioni nel 2007, che prevede che nessun sesso possa avere una rappresentanza superiore al 60% e inferiore al 40%.
Per evitare svarioni e saperne di più sulle quote rosa elettive nel mondo – non solo in Europa – consiglio di studiare il sito QuotaProject. Global Database of Quotas fro Women, a cui rimandano gli approfondimenti sui singoli paesi che ho linkato sopra. È davvero ben fatto. Per un quadro generale sulla normativa nei paesi europei, che vada oltre la mera questione elettorale, consiglio la pubblicazione della Banca d’Italia «L’evoluzione della normativa di genere in Italia e in Europa» (2013).
Il Fatto Quotidiano
15 10 2013
Usare il proprio cognome? Per una moglie italiana era impossibile fino al 1975. Intraprendere la carriera di magistrato? Niente da fare, per una donna del nostro Paese, fino al 1963. Più facile, invece, essere condannate per tradimento, visto che l’adulterio femminile cessa di reato solo nel 1968.
A ripercorrere le leggi che hanno cambiato la vita delle donne italiane – a partire dal diritto di voto attivo e passivo, riconosciuto solo nel 1945 e nel 1946 – è un libro a cura della fondazione Nilde Iotti (‘Le leggi delle donne che hanno cambiato l’Italia‘, Ediesse editore), che verrà presentato oggi pomeriggio in Senato a Roma e al quale interverranno, oltre al ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza, Isabelle Chabot, presidente della Società italiana delle storiche, la mediatrice culturale Anab Farah, la vicepresidente del Senato Valeria Fedeli, il giurista Stefano Rodotà e Livia Turco, presidente della fondazione Iotti ed ex ministro della Salute nel secondo governo Prodi. Un incontro per ricordare l’iter spesso travagliato di quelle normative, approvate grazie alla determinazione di politiche e legislatrici italiane, a partire dalle 21 donne presenti all’Assemblea costituente e fare il punto anche sulla condizione femminile oggi in Italia.
Non si parlerà però solo di aborto e divorzio, le due leggi – rispettivamente del 1970 e 1978 – più discusse e controverse, ma anche di normative meno note ma egualmente importanti: come la legge del 1975 che, riformando il diritto di famiglia, stabilisce quella parità tra i coniugi nel diritto di famiglia che la Costituzione aveva già recepito (mentre la piena parità giuridica tra i figli nati dentro e fuori il matrimonio arriverà solo nel 2012). O quella del 1981, grazie alla quale sparisce dal diritto penale il cosiddetto “delitto d’onore”.
Il libro si sofferma anche sulle misure che hanno introdotto forme di tutela specifiche per le donne e le mamme lavoratrici, prive di qualsiasi aiuto fino al 1950: è di quell’anno, infatti, la legge che vieta il licenziamento fino al primo anno del bambino e introduce il trattamento economico dopo il parto. Nel 1956 arriva la legge sulla parità retributiva tra uomo e donna, mentre nel 1963 si dichiarano nulle le cosiddette “clausole di nubilato” nei contratti di lavoro, che molte donne erano costrette a firmare, e si consente alle donne pieno accesso a tutte le professioni e gli impieghi pubblici. Importanti, in questa direzione, anche le leggi che istituiscono la scuola materna e gli asili nido comunali (1971) o la parità tra padri e madri nei congedi parentali (1983), infine l’indennità di maternità per le lavoratrici autonome (1987) e per quelle disoccupate (1998).
E poi ci sono, ovviamente, le leggi per fermare la violenza: quella del 1996, quando finalmente, e tardivamente, la violenza sessuale diventa reato contro la persona e non contro la moralità pubblica e si stabiliscono pene gravi per chi compie violenza; e quella del 2009 che introduce il reato di stalking, per arrivare a quella contro il femminicidio appena approvata in Senato. Infine, nel volume si ripercorrono le norme che introducono un’adeguata rappresentanza femminile, grazie anche a una modifica costituzionale del 2003 che prevede la promozione della parità con appositi provvedimenti, sia nei cda delle società quotate in borsa che nelle liste di candidati per le elezioni locali.
Il bilancio però, a oltre sessant’anni dall’Assemblea costituente, resta ancora amaro. “Da alcuni anni – si legge nel volume – abbiamo vissuto un lento, ma inesorabile arretramento non solo sul rispetto dei diritti acquisiti, ma anche sulla conquista di nuovi”. Basti pensare al numero crescente di obiettori di coscienza che allunga i tempi per l’aborto, agli scarsi o nulli servizi di sostegno alla maternità, a una legge sulla fecondazione svuotata dalle sentenze, ma ancora in vigore (e che il governo Monti ha cercato di proteggere fino alla fine). Basti pensare che non esiste ancora una normativa che impone una quota di genere alle elezioni per il Parlamento.
Ma il problema più drammatico resta il lavoro, dove una precarizzazione crescente ha reso fragili o inutili leggi importanti pensate per un mondo ormai quasi scomparso, mentre persistono pratiche aberranti come le cosiddette “dimissioni in bianco” e la scarsità di fondi pubblici rende servizi come il posto al nido simile alla vittoria a una lotteria. Per questo, concludono le autrici, serve un passaggio epocale che richieda “un ripensamento generale delle nostre società”. E, per l’Italia, “un ulteriore avanzamento del concetto di cittadinanza nazionale, intesa come corpus di tutele e diritti, in direzione di una piena cittadinanza europea”.
GiULiA
13 09 2013
Daniela Carlà, portavoce delle Associazioni dell'Accordo per la democrazia paritaria, già alta dirigente al Ministero del Lavoro e oggi Presidente del collegio dei sindaci Inps, ha rilasciato alla direttrice di "Noi donne", Tiziana Bartolini, una interessante intervista in controtendenza di analisi sui mali delle strutture che governano il Paese.
"Nel nostro paese c'è un problema che riguarda complessivamente la classe dirigente. È semplice e rassicurante pensare che siamo solo di fronte a una crisi della politica. La crisi, invece, riguarda tutti i meccanismi di selezione dei gruppi dirigenti e la Pubblica Amministrazione è l'anello che consente alla classe dirigente, nel suo complesso, di essere credibile, di guidare le trasformazioni, di poter realizzare le riforme. Siamo di fronte a un avvitamento della società su sé stessa".
Il linguaggio degli alti funzionari dello Stato solitamente è misurato, attento a calibrare espressioni e concetti. Le riflessioni che ci affida Daniela Carlà, al contrario, sono nette e a tratti impietose. Sono la summa di un lungo percorso di dirigenza ai vertici di un Ministero nevralgico come quello del Lavoro e che oggi la vede Presidente del Collegio dei Sindaci dell'INPS.
"È indispensabile per i funzionari pubblici recuperare credibilità, sento il bisogno di una cerimonia con un valore simbolico in cui si torni a giurare sulla Costituzione come segno di orientamento valoriale della propria attività, che risponde alle leggi fondamentali, ai valori del Paese". Non a caso Daniela Carlà è tra i fondatori dell'Associazione Etica PA e della rivista on line "Nuova Etica Pubblica".
"Avverto la difficoltà di assumere la questione del genere nella sua portata nazionale; una classe dirigente attrezzata non può più essere parziale e riguardare metà della popolazione, con eccezioni, deroghe e cooptazioni che sono persino peggiori delle vecchie discriminazioni: sono i tentativi del vecchio di assimilare il nuovo senza innovarsi veramente. L'immigrazione è l'altra questione nazionale in cui registriamo incapacità di governo del fenomeno e difficoltà a coglierne la portata: non si riesce ad uscire da una discussione che prima era ideologica, poi è diventata vecchia e ora annoia. Le continue offese, gravissime, alla Ministra per l'Integrazione Cécile Kyenge se sono prova concreta".
Concordiamo: una Pubblica Amministrazione arretrata e, oltretutto, poco stimata e non solo per i continui episodi di corruzione.
C'è un troppo di leggi inapplicate, un eccesso di incomprensibile burocrazia, un continuo evocare riforme che non arrivano mai.
"Ci può essere il paradosso di cambiamenti senza riforme e di leggi di riforma che non provocano cambiamenti. Le ravvicinate riforme nella P.A. rischiano davvero di non generare cambiamento e innovazione. Il cambiamento deve essere interiorizzato, intenzionale. Occorre individuare gli agenti del cambiamento, radicarlo, intridere le cose di cambiamento, monitorare e valutare i processi. Il cambiamento ha anche bisogno di tempi, e questo non c'entra nulla con i ritardi o con la burocrazia inutile. Parlo dei tempi necessari per fare le cose utili. Il problema non è nell'avere poche o troppe leggi, ma nel cambiarle continuamente e nel farle susseguire velocemente, nel non avere il tempo di lasciarle sedimentare e valutarne gli effetti. E attenzione: dietro l'ansia di continuo cambiamento ci sono spesso i soliti interessi che si mobilitano per non rimettere in moto risorse e per non distoglierle dal vecchio utilizzo. Decretare i limiti e l'inadeguatezza del nuovo appena emerge è, apparentemente, una operazione presentata come rivoluzionaria, in realtà è il vecchio che sopravvive e che resiste a una differente allocazione delle risorse e dell'attribuzione del potere".
Resta il fatto che siamo appesantiti da un apparato costoso e tutto sommato poco efficiente.
"Il punto è che c'è troppa burocrazia legata alla politica, quindi il problema non è l'assenza della politica ma, al contrario, l'eccesso di politica che ha prodotto funzionari servili e non sempre capaci, spesso non di carriera ma a termine, scelti perché rispondono a qualcuno. Domandiamoci perché difficilmente i dirigenti pubblici diventano Capo di Gabinetto, eppure la legge lo consente e non si può certo sostenere che non ci siano in giro competenze adeguate".
Come mettere lo Stato in sintonia con i bisogni dei cittadini e ridare vigore ad un progetto organico è questione aperta e non sembrano esserci soluzioni a portata di mano.
"L'unica via concreta è partire dalla P. A. e dal suo ruolo, dalle competenze, dalla chiarezza sulle cose da fare e dalla capacità di farle con i relativi meccanismi di valutazione. Questo è prioritario anche rispetto alla discussione sui sistemi elettorali, che pure reputo urgente. Non vi è sistema elettorale che tenga senza una P.A. in grado di realizzare le scelte. L'efficienza della P.A. è importante anche per attivare meccanismi di mercato, perché l'economia ha bisogno di un'amministrazione che la sappia 'accompagnare'. La presunta enfasi sul mercato da parte di chi ogni giorno attacca il sistema pubblico la considero la spia di un atteggiamento di chi in realtà vuole oligopoli o monopoli, sottraendo segmenti al mercato. Il vero mercato, invece, necessita di una P.A. informata e che informa, rivolta a tutti, che incrementa le opportunità di accedere al mercato medesimo".
Però una maggiore flessibilità nel sistema pubblico potrebbe essere d'aiuto a sbloccare la situazione.
"Nella P.A. è più difficile dire dei 'no' che dei 'sì' e può farlo più facilmente un funzionario di carriera rispetto a chi è a termine, flessibile e con maggiori incertezze. Inoltre il limite non è solo quello della legittimità: devo fare bene il funzionario non solo per evitare di incorrere nel reato, ma devo usare le risorse bene e con efficienza. Ecco, forse, quel 'no' non lo dirà mai la persona che è stata scelta temporaneamente da un ministro. Penso che i dirigenti pubblici debbano essere, forse, di meno, ma selezionati sulla base di una carriera. Invece, oggi, è la politica che tende alla sua inamovibilità. Una politica fatta di parzialità, non più di partiti ma di persone, tende inevitabilmente ad appoggiarsi a funzionari contigui e così il sistema si autoalimenta peggiorando se stesso. Invece quello nella P.A. è il lavoro più bello che ci sia, e il più difficile. Un lavoro che non si improvvisa, che richiede studio e attitudine. Va ripensata e rilanciata la funzione del dirigente pubblico, che non è solo esperto in questa o quella materia, condizione pure importante, ma persona capace di governare la complessità, di connettere i livelli di governo, di assumere le competenze, di mediarle, di comporre gli interessi, di identificare i bisogni e di progettare un sistema che consenta, sul terreno concreto amministrativo, di identificare gli interessi in gioco e prospettare soluzioni. Non si tratta, sia chiaro, di proporre una nuova gergalità che genera timore e rispetto apparente, ma di selezionare persone in grado di parlare chiaro perché consapevoli di ciò che va fatto".
Le sue tesi sembrano un po' in controtendenza rispetto al dibattito in atto e che sollecita meno Stato e meno vincoli.
"Sono convinta che senza un'amministrazione pubblica che funzioni non ne usciamo. Il problema non si misura a chili: invece di un chilo di burocrazia ne lascio tre etti. Il punto vero è che la burocrazia deve essere di una qualità diversa, mettendo fine al circuito perverso della cattiva politica che genera cattiva burocrazia. La qualità richiede più professionalità e non meno, più capacità giuridica e non meno, più competenze tecniche e non meno, più capacità di dirigere e di mettere insieme le cose. Non vedo altra strada: il nodo è la qualità delle regole e della loro attivazione. Abbiamo bisogno di un meccanismo di selezione che premi le persone capaci di impegno, tenacia, dedizione e competenza: il "talento" non basta".
Ma in Italia, alla fine, tutto si aggiusta.
"Dobbiamo comprendere che la risposta non è l'intuizione, non è il coniglio che esce dal cappello, ma la capacità di costruire soluzioni non individuali e neppure improvvisate in un sistema organizzato. Sono convinta che ci dobbiamo credere".
Tiziana Bartolini