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Media e pregiudizi, giornata di formazione con i giornalisti

  • Venerdì, 21 Aprile 2017 05:13 ,
  • Pubblicato in L'Articolo
Media e Pregiudizi21 aprile 2017

Come si forma il pregiudizio? Il politicamente corretto ci mette al riparo dai nostri pregiudizi?
Che ruolo ha il linguaggio giornalistico nel contrasto alle discriminazioni? Come conquistare una posizione di neutralità rispetto ai fatti di cui dobbiamo parlare?
Come funziona il processo di crescita di un individuo e come si costruisce l'identità di genere?
la Repubblica
30 07 2015

Lo sapevate che in Italia c'è una delle percentuali di rom più basse di tutta Europa? Che solo uno su cinque vive nei campi? Che la metà ha cittadinanza italiana, con punte del 90% in Emilia Romagna?

L'intervista doppia realizzata con Elio Germano e Piotta è la risposta a chi vorrebbe dare a Roma il primato della città più degradata d'Italia.

Germano e Piotta sono tra i sottoscrittori di "Accogliamoci", la campagna di raccolta firme per promuovere due delibere di iniziativa popolare contenenti un piano per il superamento definitivo di campi nomadi e centri di accoglienza.

Questa iniziativa è portata avanti da Radicali Roma, Arci, Asgi, Associazione 21 luglio, A buon diritto, Cir, E' possibile, Un ponte per, ZaLab. Insieme a loro altre personalità del mondo politico, del giornalismo e dello spettacolo hanno sottoscritto le due proposte, tra cui Khalid Chauoki, Pippo Civati, Emma Bonino, eccetera.

Il valore dell’immigrazione

  • Mercoledì, 11 Febbraio 2015 08:46 ,
  • Pubblicato in Flash news

Corriere delle migrazioni
09 02 2015

di Martina Zanchi 

images_giornaliChe cosa accade quando si mettono da parte i pregiudizi per affidarsi ai dati reali? Si scopre che, in Italia, gli stranieri producono ricchezza. Precisamente l’8,8% delle risorse nazionali, circa 123 miliardi di euro l’anno.

Ce lo racconta la Fondazione Leone Moressa, grazie a uno studio portato avanti nel 2014 – intitolato “Il valore dell’immigrazione” – che si è posto l’obiettivo di fornire un’immagine realistica, scevra da speculazioni ideologiche, sui costi e i benefici della presenza straniera in Italia.
Ma la ricerca è andata oltre, spingendosi ad analizzare il tipo di informazione veicolata dalla stampa italiana sul tema dell’immigrazione e scoprendo – non troppo inaspettatamente – che proprio il giornalismo nostrano, in molti casi, tende a veicolare stereotipi e pressappochismo.

Perché se l’8,2% delle imprese in Italia è straniero, se l’Irpef pagata da contribuenti nati all’estero nel 2013 è ammontata a quasi 45 miliardi di euro, sembrerebbe invece che i fenomeni migratori facciano notizia nel nostro paese solo quando si tratta di sbarchi, di “emergenza” profughi, di fatti di criminalità. Il monitoraggio della Fondazione Leone Moressa ha riguardato tre delle principali testate giornalistiche nazionali (Repubblica, Il Corriere della Sera, Il Sole 24 Ore), delle quali sono stati esaminati 846 articoli lungo un periodo di sei mesi. «Le testate giornalistiche privilegiano un’identificazione generica dei soggetti – si legge sulla ricerca – si parla principalmente di migranti e profughi». «Solo il 12% degli articoli trattati si occupa di economia e immigrazione».
Nelle notizie, secondo la Fondazione, manca la voce dei migranti, manca l’analisi della questione immigrazione non più come emergenza ma come fatto strutturale, manca il racconto di modelli positivi e “produttivi”, che pure non scarseggiano.

Nel 2008 l’Ordine dei Giornalisti e la Federazione Nazionale della Stampa Italiana hanno sentito il bisogno di dotare i professionisti dell’informazione di un ulteriore codice deontologico, la Carta di Roma, attraverso la quale presentare le modalità adeguate con cui trattare argomenti relativi ai migranti. Grazie ad essa, negli ultimi anni la situazione è leggermente migliorata – ad oggi non è più così frequente trovare su un quotidiano termini come “clandestino” o “extracomunitario” – ma persiste una certa confusione nel linguaggio. Avevamo affrontato questo tema, in tempi non sospetti, con un’intervista al professor Jeroen Vaes dell’Università di Padova, secondo cui nella fabbrica di stereotipi alimentati sulla stampa interviene sia una certa superficialità che la pressione dell’agenda politica.

«In Italia manca il fact-checking». E’ questa la dura opinione della dottoressa Hermanin, senior policy officer dell’Open Society European Policy Institute di Bruxelles, presente per Open Society Foundation al convegno di presentazione del volume “Il valore dell’immigrazione. Il tema si lega fortemente alla necessità di una legge sulla cittadinanza: «la politica non è interessata ai voti degli immigrati», secondo Hermanin, e questo favorirebbe la deresponsabilizzazione di buona parte della stampa nostrana.

Intanto gli stranieri continuano silenziosamente a lavorare e produrre, smontando con i fatti molti degli stereotipi che gli sono stati affibbiati. I dati parlano di un saldo positivo di 3,9 milardi, nel 2013, tra le spese e le entrate dello Stato italiano relative a chi non è nato in Italia. E non c’è Lega Nord che tenga.

Gay.it
13 01 2015

«Non parlare con me. Se parli con me la gente penserà che sono frocio». Questa è stata una delle frasi che, quando ero adolescente, mi sono sentito dire più volte in classe, nei corridoi, nei bagni della mia scuola. A volte ciò succedeva di fronte gli insegnanti stessi, che si limitavano a invitare al silenzio. A volte imbarazzati, incapaci di reagire e di dire l’unica cosa possibile. Ciò mi umiliava due volte, come essere umano e come studente. E la mia vita è andava avanti così per diversi anni, fino a quando le cose si sono normalizzate. Ho fatto coming out e quel corredo di insulti e di parole acuminate si è dissolto nel nulla. La gente ha paura delle cose che addita come sbagliate e quando queste si palesano con un volto, un nome e il coraggio di dire «sì, è così. E allora?» certe persone scappano via. Come sempre succede ai codardi. Ma questa è, appunto, una storia vecchia. Almeno per quello che mi riguarda.

bullismo scuolaQualche anno fa insegnavo in una scuola di un quartiere popolare di Roma, fuori raccordo. Una scuola ritenuta difficile. Moltissimi migranti, bambini/e i cui genitori si alzano alle quattro e tornano a casa col buio. Persone umili e oneste, ma a causa delle condizioni di lavoro a cui sono sottoposti, spesso assenti. Quei bambini e quelle bambine, in non pochi casi, sono lasciati a loro stessi e lo vedi dai loro volti, dal loro sguardo, quanta rabbia può fare vivere in un mondo che ti descrive come corpo estraneo, ostile, e ti tratta come un reietto. In quella scuola qualcuno ebbe la brillante idea di fare un profilo falso su Facebook con il mio nome, intervallato da un bell’insulto a sfondo omofobico. “Dario er frocio Accolla” mi chiese l’amicizia. Sprofondai in un malessere che pensavo di aver archiviato più di venti anni prima, ma evidentemente certe ferite erano ancora lì, per quanto piccole o lontane. Il sostegno di colleghi e colleghe e delle mie classi stesse mi diede il coraggio necessario. Una volta un bulletto di un metro e novanta, quasi sedicenne, venne perché voleva picchiarmi, a sentir lui. Perché ero frocio. Mi vide da lontano e mi raggiunse. Una mia allieva, nigeriana e bellissima, si frappose tra noi. «Embè? Qualche problema?» e il tipo scappò via. Come sempre succede ai codardi, appunto.

L’altro pomeriggio, durante l’ultima ora di lezione, un mio alunno mi ha detto che i suoi compagni di classe lo insultano dandogli del “gay”. Capirete da soli le ragioni per cui ho fatto coming out…
«Non c’è niente di male, ad essere gay» gli ho detto.

«Ok, ma a me dà fastidio!»
«E allora impareremo due cose» ho detto alla mia classe «la prima è che non si dice “gay” per insultare nessuno e la seconda è che se dite questo potreste offendere anche altre persone. Magari avete un prof omosessuale e non lo sapete. Oppure lo sapete, e fate finta di nulla…».
E quando i loro occhi si sono cercati, forse vedendosi scoperti, ho sorriso e sono andato avanti con le mie parole.
«Ho già detto che usare la parola “ebreo” come offesa non fa male solo a chi la subisce, ma a tutte le persone che sono ebree. Ebbene usare “gay” come parolaccia, non dà fastidio solo al vostro compagno, ma rischia di offendere anche me».
Ne è seguita una discussione sul rispetto reciproco, sulla pacifica convivenza e per premiarli ho mandato tutti e tutte a giocare in giardino qualche minuto prima.

Quanto accaduto quel pomeriggio, nella mia aula, è una tappa di un percorso lungo, che si sovrappone a una vita intera. Credo sia un atto di onestà intellettuale dare un nome alla propria identità, soprattutto di fronte a casi di discriminazione, in un contesto così delicato come quello scolastico. Fare coming out ci rende forti, aiuta ad incontrarsi, a capire che il mostro descritto da chi ne ha paura e scappa via quando lo vede, è solo un essere umano. Forse è per questo che i soliti noti non vogliono che se ne parli a scuola: per non essere scoperti di fronte alla loro vigliaccheria.

Ai miei tempi mi avrebbe fatto piacere che un prof avesse detto ai miei compagni quel «non c’è nulla di male nell’essere gay, non ha senso usare quella parola come insulto». Quel pomeriggio, un po’ grigio e un po’ gelido, ho sanato quella ferita fatta al bambino che ero trent’anni fa. E, lo credo davvero, non solo a lui.

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