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Ius Music (o del #metodoBalotelli)

Nazione Indiana
04 07 2014

Dopo le amenità profuse su Mario Balotelli per la sua insolente reazione su Instagram all’ennesimo commento razzista, oggi “Libero” ha dato il via a una nuova campagna di squadrismo 2.0 contro il rapper romano Amir Issaa (nel senso di: nato e cresciuto a Roma, se – porca puttana- dovesse essere necessario precisare.) Amir sarebbe reo di “incitamento all’odio e alla violenza” per il video qui sotto, in cui compare anche il deputato PD Khalid Chaouki, quello che si era barricato insieme ai profughi e migranti nel cosidetto “Centro di accoglienza” a Lampedusa.

Per squadrismo 2.0. intendo quella pratica per cui una testata piuttosto visibile o ben ramificata (giornale o blog noto) inquadra il bersaglio e apre le danze alla diffusione sui social media di messaggi d’odio che vanno dal più gentile “torna in Africa!” agli auspici e alle minacce di morte esplicite, che in questo caso sono valanga.
Sinora il meccanismo dello hate-speech propagato in rete non si è ancora tradotto in violenza fisica organizzata (qualcuno però si è sucididato), ma non è detto che questo rito di sfogo collettivo debba restare per sempre confinato alla realtà virtuale. Chi si serve di questo strumento, oltre a scatenare una indubitabile violenza simbolico-verbale, in ogni caso espone una o più persone con nome e cognome che esistono in carne e ossa a una schiera di nemici anonimi, di cui magari qualcuno possiede qualche mazza o spranga e avrebbe piacere di usarla non solo nelle vicinanze di uno stadio. Questo è naturalmente più facile che avvenga nel caso in cui il bersaglio non sia superfamoso e dunque superprotetto. Ma – sempre naturalmente- questo non è un problema dell’incendiario che si è semplicemente avvalso della sacrosanta libertà d’opinione.

Non mi pare casuale che l’attacco in questione avvenga sulla scia della questione Balotelli, secondo me parecchio sottovalutata da molte persone senza dubbio non razziste, ma qui dovrei fare un discorso diverso (rimando, per chi non l’avesse visto, a un divertente articolo di Quit the Doner) e assai più lungo.
Qui invece il problema mi pare risaltare in modo adamantino. Il problema – per “Libero” e per una grossa pancia assai più gonfia di flatulenze tossiche – è il semplice fatto che gli italiani non “etnici” esistono e sono tanti. Peggio: che hanno coscienza di sé, coscienza dei loro diritti negati o ostacolati con ogni cavillo e mezzuccio sporco (inclusi i costi vergognosi per le pratiche di cittadinaza che partono da 200 euro a capoccia). Coscienza di dover lottare per il proprio riconoscimento, coscienza – in questo caso – di come vorrebbero fosse l’Italia, per loro, ma non soltanto.
Questo è un rap: genere per definizione veicolo di rabbia, ricettacolo di turpiloquio, esaltazione della violenza più disparata e talvolta più schifosa (tipo omofobica, biecamente maschilista, persino nazi), articolato in un sottogenere che si chiama gangsta-rap – nonostante il nome dica tutto, passato come global mainstream beccandosi solo le intermittenti accuse di essere un pelo diseducativo. Solo Jovanotti, con rispetto parlando e per quel che ne sappia, ha sviluppato una versione molto nostrana dove “esiste solo una grande chiesa che passa da CHE GUEVARA e arriva fino a MADRE TERESA passando da MALCOM X attraverso GANDHI e SAN PATRIGNANO…”.
Insomma Amir in questa canzone non dice “volemose bene” o “vogliateci bene, siamo tanto bravi e carucci, come in un poster Benetton” e ha ottime ragioni per non farlo. Rivendica l’assalto al diritto (anche del futuro), prognostica casini se non cambia lo stato delle cose (il ché è diverso dal minacciare o incitare alla rivolta, cosa che tra l’altro, ogni sorta di musicisti anche superaffermati fanno), nomina con disprezzo una parte degli italiani che (gli) fa schifo.
Vale a dire: esprime, con il proprio linguaggio musicale, quella che si chiamava una coscienza politica anche se questa non si esplicita in invito alla militanza e tantomeno sovrastruttura ideologica. E questo, a mio avviso, è utile non solo per loro, i G2, la seconda generazione di immigrati (ossimoro che dovrebbe allappare i denti).

Ius Music (testo)

I miei fratelli sono afro fieri, maghreb e cinesi, filippini con i piedi qua e il sangue da altri paesi, chi ha la madre che lavora nelle case di ignoranti che abbandonano le loro sole in braccio alle badanti. Gente stupida rimasta ancora al medioevo, li sveglio di notte sono l’incubo dell’uomo nero e se il futuro è il nostro lo vogliamo in esclusiva, stanchi di elemosinare diritti e metterci in fila, Da Palermo a Torino scoppierà un casino, se l’Europa è un altra storia se Roma non è Berlino, è la paura di qualcosa che ormai vive qua vicino e non ti salverai in Padania non esiste in nessun libro, Non sono un G2 Italiano col trattino, una Fiat uno col bazooka sul tettino è la storia di un normale cittadino impazzito era clandestino adesso è un assassino.

Questa è Ius Music, Ius Music
Questa è Ius Music, Ius Music
Questa è Ius Music, Ius Music
Non c’è frontiera quando la mia gente parla

Questa è Ius Music, Ius Music
Questa è Ius Music, Ius Music
Questa è Ius Music, Ius Music
Orfano di quest’Italia un superstite resto a galla

La mia non è una razza la mia è una tribù quelli sempre al centro del mirino è questa la mia crew, la mia gente stanca di essere accusata di essere considerata il pericolo dentro casa
amici laureati fermati da uno con la terza media umiliati e maltrattati, e non c’è scusa quando l’ignoranza parla se qua l’essere Italiano è solamente sulla carta, Se ti senti fuori luogo in questa situazione, e diventi uno straniero nella tua nazione, stessa lingua stessa rabbia stesso cibo, siamo nella stessa merda non sono io il tuo nemico, siamo scacchi nella stessa battaglia noi orfani superstiti fratelli d’Italia, oltre i muri le frontiere e i confini Balotelli faccio gol e sono tutti felici.

Ps. Siete mai passati da un campo di calcio dell’oratorio? Quelli dove vanno i ragazzini di tutti colori, alcuni che corrono dietro al pallone in Salwar Kamiz, approdati freschi dal Pakistan? (copyright: oratorio del centro di Gallarate) Se sì, magari vi sarete resi conto che un’ apertura decente allo Ius Soli e alla naturalizzazione di chi in Italia vive e cresce, sarebbe un’ottima risposta al coro di lamenti sul declino del calcio italiano che ci hanno rintronato in questi giorni. Non che questo sia prioritario. Più interessante sarebbe invece immaginare che nei prossimi quattro anni Balotelli mettesse “la testa apposto”, diventasse fortissimo ma poi decidesse: “fanculo, gioco per il Ghana!” O Stephan El Sharawy…

Helena Janeczek

27ora
30 04 2014

Da quando la rapper diciottenne egiziana Mayam Mahmoud è apparsa in tv nel programma “Arabs Got Talent” lo scorso ottobre, è diventata una celebrità. Nei giorni scorsi, mentre riceveva il prestigioso “Index Freedom of Expression Award” a Londra, ha spiegato ai giornalisti che “i rapper uomini parlano spesso delle donne, dando loro la colpa di tutti i loro problemi. Io ho deciso di occuparmi dei problemi delle donne”. Ha cominciato a 10 anni (considera il rap una “estensione” delle poesie che scriveva sin da bambina), e ora studia scienze politiche e sociali. Eppure su YouTube, tra i commenti al suo video si legge: ”E’ carina e sarebbe molto più carina senza quella tovaglia in testa”.

La canzone che l’ha resa famosa si intitola “Femminilità”, e parla del modo di vestire delle ragazze e dei condizionamenti della società:


Le donne della nostra società sono divise
C’è l’hijab, il niqab e in mezzo un po’ di tutto
ci sono molte questioni che ci circondano, legate alle ragazze
sugli abiti e l’apparenza, che non era una condizione in origine
Come puoi controllare tu i miei capelli o il velo sulla testa?
Tu mi guardi, io non mi vergogno
Tu flirti e mi molesti, eppure pensi di non avere torto
Ma queste sono solo parole, non è flirtare, e non sono pietre
Non ci siamo vestite in modo sconveniente, ma l’idea è problematica?
…. Chi dice che la femminilità dipende da come ti vesti?
La femminilità si vede dall’intelligenza…


Proprio un paio di giorni fa, El Paìs raccontava la storia di Ramika Khabari, rapper afghana che dà voce alle rivendicazioni delle donne. Ma ha deciso di non portare più il velo, mentre Mayam vuole dimostrare che non deve per forza essere un simbolo di oppressione.

"Nel mio Paese molte ragazze che indossano l’hijab rinunciano al mondo dello spettacolo, mettono da parte la musica, la recitazione. La mia risposta è: perché guardate solo il velo che porto in testa mentre saltello sul palco, ma non ascoltate quello che dico?"

In realtà, Mayam non è l’unica rapper velata, nè la prima. Yukka, 23 anni, studentessa di giurisprudenza, compone dal 2011 canzoni sulla rivoluzione egiziana vista dal punto di vista delle donne. Anche lei ha cominciato a 10 anni, anche lei porta il velo, ma la sua famiglia non la sostiene (a differenza di quella di Mayam), e dice che è difficile per una ragazza come lei trovare un fidanzato. Ha avuto anche problemi con le autorità (non perché sia donna ma perché le sue canzoni criticavano il governo).

Di recente, un gruppo di donne musulmane che vivono in America hanno lanciato una campagna per dimostrare che si può essere islamiche e alla moda allo stesso tempo. Si fanno chiamare Mipsterz (cioè hipster musulmane) e hanno lanciato un video diventato “virale” su internet, anche se poi alcune di loro hanno finito per criticare il risultato.

"Non sapevamo che saremmo apparse in un filmato con il sottofondo di Jay-Z che parla di ‘niggers’ e ‘bitches’ e cose che non ci rappresentano."

La prossima volta potranno usare la musica dell’egiziana Mayam.

Tout tourne autour de Keny Arkana

  • Martedì, 16 Aprile 2013 10:54 ,
  • Pubblicato in DINAMO PRESS
Dinamo Press
16 04 2013

Un racconto del concerto e di un incontro con la rapper francese al Forte Prenestino.

Finalmente arriva il 13 aprile, una data a Roma tanto attesa per chi da anni ascolta la rappeuse d'oltralpe, Keny Arkana, sempre al fianco dei movimenti di lotta e resistenza. Le sue canzoni hanno fatto da colonna sonora a moltissime manifestazioni in tutta Italia, e hanno dato voce a diverse istanze, esattamente come è accaduto nelle banlieue francesi emarginate dalle politiche liberali di Sarkozy. Il suo grido di rabbia contro le ingiustizie, la sua celeberrima rage, si è fatta sempre più strada a livello internazionale perchè incarna lo spirito di chi vuole denunciare apertamente le contraddizioni insite al sistema capitalistico, e attaccare con veemenza le politiche neoliberali che tentano di distruggere le relazioni umane tra i popoli. Keny, nel suo attacco ai poteri forti, non risparmia nemmeno i media mainstream, accusati di nascondere troppo spesso la verità di ciò che accade: il testo di V pour verité è in questo senso esemplare, poichè invoca l'unione dei popoli a lottare contro le rappresentanze istituzionali che non sono in grado di dare reale espressione ai problemi dei cittadini in ogni parte del mondo.

La sua voce energica ed il suo accento marsigliese la rendono amabile anche a chi non conosce il significato dei testi perchè è capace di intercettare i sentimenti ed i desideri di chi cerca di costruire un mondo diverso, e riesce a trasmettere i suoi messaggi attraverso dei video-clip che sanno restituire visivamente lo spirito di denuncia e indignazione, oltre che fotogrammi delle lotte portate avanti dai movimenti. Non a caso, in più di un occasione si è dichiarata, più che una rappeuse, una militante che fa del rap.

Sin da giovane, infatti, ha militato tra le fila dei movimenti e nel 2004 ha contribuito alla creazione di "La rage du peuple", un collettivo marsigliese itinerante che ha indetto moltissime assemblee popolari in Francia, Svizzera, Germania e Belgio con l’intento di favorire lo sviluppo territoriale e implementare la partecipazione attiva dei cittadini nella gestione della politica locale. Le tesi altermondiste che il collettivo ha portato avanti anche in seno ai controvertici e ai forum mondiali, e il dialogo diretto e continuo inaugurato con le comunità zapatiste sono due capisaldi che hanno motivato anche Keny a partecipare alla nascita e allo sviluppo di questo movimento politico. D’altronde, il suo amore per l’America centrale e meridionale emerge non solo in molti dei suoi testi più recenti, ma anche e soprattutto dai racconti emozionati dei molti viaggi fatti nelle terre argentine, messicane, colombiane e boliviane. Come lei stessa ha dichiarato: “la mia persona fisica è europea, ma nelle mie vene scorre sangue argentino”.

Alla sua passionalità e determinazione il pubblico italiano ha risposto con altrettanto calore: il centro sociale Forte Prenestino -che ha ospitato il concerto- ha, infatti, registrato più di 4000 ingressi. L’atmosfera, così carica e trepidante, ha fatto pendant con la prorompenza e la vitalità della piccola grande Keny. Le prime dieci file erano stra-gonfie! Abbiamo ballato sui ritmi più variegati: dal drum'n'bass al rap vero e proprio…e poi ogni tanto quel saluto squisitamente francese dal palco: “Grazie mmille Rrrrroma!” (inconfondibile la r).

Credo che ciò che la rende grande e così amata è la sua capacità di raccontare sia la durezza della vita di strada -che lei ha sempre abitato in prima persona- sia, al contempo, la delicatezza dei sentimenti umani universali, come l’amore per les enfants (i bambini), protagonisti in più occasioni dei suoi testi perchè bisognosi di protezione e di un mondo che li sappia accogliere e crescere dignitosamente. Lo sguardo femminile di Keny Arkana dona al rap italiano ed internazionale una visione più integra del mondo di oggi, in cui si avvicendano la necessità di una rivolta dei popoli ed il desiderio di fondare un nuovo modo di vivere tra gli esseri umani più onesto, rispettoso della natura e degli esseri viventi, delle relazioni e dei sentimenti. Una sorta di cosmovisione, insomma, quella di Keny, che sa tenere insieme lotta e amore, materialità e spiritualità entro la sua arte musicale che evoca terre e culture d’oltremare.

Ci ha regalato grandi emozioni, sorrisi ma soprattutto voglia di continuare a urlare la nostra rabbia. La sua semplicità nel presentare ogni componente del gruppo con un divertentissimo e caldissimo “Perfabore”, come a richiamare la grandezza del suo entourage affiatatissimo, si è rispecchiata anche nel dopo-concerto: Keny saltellava anonima tra le persone che via via lasciavano il Forte Prenestino, rifuggiva gli sguardi dei fan ma al tempo stesso non riusciva a fare a meno di abbracciarli tutti per ringraziarli. Proprio in questo frangente, le siamo andati incontro per salutarla: ci ha fatto segno di nasconderci un po’ in penombra e trovato un posticino più apportato ci ha abbracciato con affetto.

Le abbiamo ricordato di ESC e del suo primo concerto a Roma nel 2007, e lei dispiaciuta di non averci rivisto tutti/e, ci ha invitati a tornare il giorno dopo: sarebbe infatti rimasta un giorno in più per godersi il Forte Prenestino alla luce del sole, e per approfittare della piccola oasi di pace che diventa, rifugio lontano dal caos della metropoli. Mi ha fatto promettere di non divulgare la notizia dell’incontro perché ama l’intimità e vuole condividere momenti veri con le persone che incontra. Devo ammettere che in un primo momento questa sua ostentata sfuggevolezza al pubblico mi ha lasciato un pò perplessa: in fondo, il suo pubblico è fatto di persone che con lei condividono la voglia di cambiare il mondo, attivisti e militanti che si spendono con forza ogni giorno per realizzare questo desiderio. Ma il giorno dopo ho dovuto ricredermi, ho compreso la sua sincera voglia di scambiare parole, silenzi e risate senza muri e senza barriere come se ci si conoscesse da una vita.

Lungi da voler rendere formale l’incontro ci ha invitati subito a fare l’”aperò” di fronte alle camere dove lei e gli altri del gruppo hanno dormito, sulla parte alta del Forte,da cui si può vedere tutto il centro sociale. L'incontro è ancora più speciale se ci si immagina il Forte Prenestino di domenica, silenzioso pieno della luce soffusa del tramonto: una piccola oasi di serenità e rifugiodal caos della metropoli. Ancora più gradevole è il sottofondo delle musiche che nel frattempo mandava Omar. Ci siamo goduti così le ultime ore di luce, ascoltando gli incredibili racconti di una quindicenne, che, minuta com’è, cercava di farsi passare per 18enne, e -chissà come mai- nessuno le credeva. Con autoironia ci rinfacciava il fatto che gli italiani la prendessero in giro sulla sua altezza: “ma come fanno a dirmi -Grande Keny!!!- se sono così piccola”.

Ci ha raccontato dei suoi viaggi, di quanto ama il Sudamerica ed in particolare i paesi andini come la Bolivia, l'Argentina ed, in particolare, la Colombia perché mantengono ancora una natura incontaminata dal turismo scellerato e dalla mano pesante del cemento che l'uomo cala dappertutto. Parlava tanto, con entusiasmo, non riusciva a trattenere la voglia di raccontarci i suoi trascorsi a Roma quando da ragazzina a soli 15 anni dormiva tra Villa Borghese, il Villaggio globale ed il vecchio Rialto a via nazionale.

Ci spiegava che senza zaino, senza vestiti, senza soldi viaggiava per tutta Europa senza pagare i biglietti dei treni, e che la prima cosa che ha fatto per passare del tempo in Italia è stata andare al commissariato per dichiarare che gli avevano rubato lo zaino, così da ottenere nuovi documenti che le permettessero di andare in giro senza alcun problema. Le uniche frasi che ricorda in italiano erano “Mi scusi, hai una sigaretta perfabore” oppure “dove posso rubare da mangiare”. Ama tantissimo Roma, come città, e odia i parigini perché credono che la loro città sia la più bella mondo, ma solo perché sono cechi o non hanno mai visto Roma. Ci ha confessato però che non ci potrebbe mai vivere, perché non parla italiano. Ma in fondo nemmeno a Marsiglia, la città in cui lei ha più vissuto, si potrebbe stabilizzare: è come una trottola che non vuole mai fermarsi in nessun luogo e che vuole essere allo stesso tempo dappertutto.

Stephane, il “manager” - perché tutto è fuorché che un manager- ci ha invitato ad andare con loro a mangiare la pizza, senza sapere però il dove, né il quando, tranne che già da tempo venti persone la stavano aspettando fuori in macchina ed il tavolo era prenotato per quindici.

Ci siamo stretti un po' e abbiamo festeggiato con una cena a base di pizza, con brocche di vino che arrivavano continuamente piene e se ne andavano rapidamente vuote! Momento clou della serata quando Samir, l'altro rapper che accompagnava Keny durante il concerto, ha esordito dicendo che a Marsiglia le pizze sono più buone. Non fosse stato che a soli due posti dopo il suo c'era seduto Ciccio di Napoli. Da ciò la disputa Marsiglia vs Napoli, che si è subito risolta con una grassa risata di tutta la tavolata. Keny nel frattempo era stanca, un po' affaticata forse, o più riflessiva: in disparte, osservava la tavolata e ascoltava incuriosita.

La scelta di intrecciare la recensione del concerto con il resoconto di un incontro informale e genuino, che ha saputo restituirci non solo l’immagine dell’artista, ma anche quella della compagna, della straniera, della ragazza di trent’anni che ama le sue terre e lotta per queste, è mirata: volevamo dimostrare che c'è un modo di stare insieme in questo mondo che ci rende tutti uguali, come fossimo sorelle e fratelli. Anche se non ci conosciamo, siamo uniti da obiettivi e progetti comuni che ci rendono “compagni” di viaggio, di strada e di lotta. E Keny Arkana quest'idea di fondo di fratellanza non solo la canta ma la pratica.
“È a nome della bambina di ieri che la [sua] sfacciataggine vi saluta”.

Il rap che rispetta le donne

08 04 2013

Non solo parolacce e signorine sculettanti: il rap di oggi riserva alle donne un trattamento ben più rispettoso    
 
di Matt Manent*
 
Inutile nascondersi dietro un dito: il rap ha più volte veicolato una visione poco edificante della donna. E ve lo dico io, Matt Manent, rapper in prima persona. Questo avviene nei testi per mano di personaggi con, evidentemente, qualche problema esistenziale; poi talvolta giunge a tradursi in video con la complicità di fanciulle che –c’è da dirlo- si dimostrano come minimo poco propense a rispettarsi.

Ad ogni modo, io non sono qui per rubare i panni del moralizzatore all’ottimo Filippo Roma. Sono qui per dirvi che, pur nei meandri della medesima tipologia musicale, esiste altro. Tutt’altro. E se non conquista la ribalta è perchè siamo nell’era della musica legata allo scalpore, allo «shock-value». Perché esatto: il rispetto non fa né classifica né notizia, quindi c’è poco da camparci sopra. Su questa via molto finisce perduto, «oggetto musicale non identificato», e una forma d’arte nobile -pura poesia moderna in molte occasioni- finisce bollata come materiale per misogini.
Con sommo dispiacere mio e di coloro che si sono spinti oltre la siepe del mainstream e dell’alta rotazione. Perché oltre quella siepe si trovano artisti come Common, che nella sua The Light esplicita il rifiuto verso discutibili vocaboli con cui negli States molti sono soliti epitetare la propria donna («I never call you my bitch or even my boo/ there’s so much in a name and so much more in you») perché «c’è così tanto in un nome e così tanto di più in te».
Oppure come Talib Kweli, che con For women ha steso un eccezionale ritratto in versi di quattro donne d’America, terra in cui le questioni economiche e razziali hanno spesso condizionato l’universo femminile.

Oppure ancora come il newyorkese Wordsworth, che grazie al ruolo di neo-padre di una bambina ha il coraggio di un mea culpa in Trust, dove riconsidera alcuni suoi comportamenti giovanili nei confronti della sfera femminile.
E come poi non parlare di Tupac Shakur, recentemente al centro di una discutibile polemica lanciata da una ragazza svedese in cui è stato etichettato come «Lo stupratore sulle felpe H&M». Bene, colui che nel caso a cui fa riferimento la giovane scandinava si vide scagionare dalle accuse più infamanti –grazie, tra l’altro, al verdetto di una giuria composta da 9 donne e 3 uomini- è anche l’autore del capolavoro Dear mama, dedicato a colei che lo mise al mondo: Afeni Shakur, attivista delle Black Panther. Una signora che conobbe il carcere e la dipendenza dal crack, ma che allo stesso tempo fu capace di crescere Tupac e la sorella senza l’aiuto della controparte genitoriale.

    «And there’s no way I can pay you back/ but my plan is to show you that I understand/ You are appreciated» è il culmine di ciascuna delle tre strofe del pezzo: «Non c’è modo in cui io possa ricompensarti/ ma il mio obiettivo è farti vedere che ti capisco/ Ti ammiro». Versi che commuovono, capaci di celebrare non solo una specifica persona, ma ogni madre del pianeta che compie sacrifici per i propri figli.
E in Italia, invece? Sono lieto di poter testimoniare una situazione ancora migliore.

Oltre a portarvi il mio esempio tramite pezzi quali Ovunque tu sia, Aria e fumo e la strofa centrale di Strettamente personale, moltissimi sono gli artisti che potrei citare per l’occasione. Un esercito di «poeti sul beat» coscienziosi e profondi, talvolta magari ironici e pungenti ma comunque ben lontani da coloro che spesso conquistano i riflettori ricalcando i peggiori stereotipi del made in Usa.

    Con una chance nei vostri lettori mp3 potremmo forse essere noi a riscattare la cattiva reputazione di un genere musicale e, magari, a dare anche un piccolo contributo affinché l’universo femminile possa ridefinire la propria concezione su chi e cosa sia un uomo.
E' come quando l'esercito decise di accettare le donne. Il mondo maschile - e maschilista - dell'hip hop arruola la sua prima rapper. 
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