La bidonville fra gli agrumeti. "Sono i fantasmi di Rosarno"

  • Lunedì, 17 Dicembre 2012 16:09 ,
  • Pubblicato in REPUBBLICA
Repubblica.it
17 12 2012

Una situazione insostenibile per un migliaio di braccianti: "E c'è meno lavoro di prima". La lotta solitaria di un sindaco. Ecco perché, in due anni, non è cambiato nulla.

SAN FERDINANDO (RC)  -  Abayomi ha appena finito di piantare i quattro legni del perimetro. E ora sta tentando di dare forma al telone che ha trovato in una discarica. Non sa ancora che tra qualche ora la sua capanna non ci sarà più. Nè il sindaco Domenico Madafferi glielo vuole dire. Ha già firmato l'ordinanza di sgombero da consegnare alle forze dell'ordine, ma "a questi ragazzi africani", tenterà di dare una mano fino all'ultimo momento: "Farò tutto il possibile". Anche ieri mattina il primo cittadino era in mezzo alla tendopoli della campagna reggina. La sua vita si divide tra la Prefettura di Reggio Calabria e quel campo diventato ormai una bidonville a pochi passi dal mare e dal grande porto di Gioia Tauro. In mezzo agli agrumeti calabresi c'è una polveriera, pronta ad esplodere come accadde a Rosarno due anni fa. Stesse dinamiche, simili le situazioni, identici i volti di migranti stagionali. Una sola differenza, "qui di lavoro per tutti purtroppo non ce n'è" e la crisi ne ha fatti arrivare ancora di più, a migliaia bivaccano nella Piana dove crescono gli alberi delle clementine più dolci d'Italia.

LE IMMAGINI

Dopo i fatti di Rosarno, quando la rabbia degli africani esplose in tutta la sua violenza, il Ministero dell'Interno, la Regione e la Protezione civile si misero assieme per cercare una soluzione. Si realizzarono alcune tendopoli e arrivarono i container. C'era almeno un pasto caldo al giorno e un minimo di assistenza. A distanza di 24 mesi "sono spariti tutti", dice Madafferi. E i sindaci "sono rimasti soli". Per fortuna i rapporti con la popolazione locale sono buoni, le tensioni di un tempo si sono attenuate. I Pianigiani per mesi hanno fatto quel che hanno potuto per aiutare i braccianti neri. Ora però non basta più, sono troppi e ne continuano ad arrivare.

A San Ferdinando c'erano 40 tende, un medico, una cucina da campo e un salone per farli mangiare. In primavera sono finiti i soldi e la situazione è precipitata. Oggi nel campo che poteva ospitare fino a 250 persone ce ne sono oltre mille. Nelle tende dove si dormiva in sei, trovano riparo 10 o 12 persone. E tutto intorno ci sono centinaia di capanne costruite con qualsiasi cosa. Legna, plastica e cartone sono diventati merce rara da queste parti. L'acqua calda è un miraggio, così come tutto il resto. Un medico volontario viene al campo una volta a settimana, Emergency fa altrettanto. Poi ci sono quelli dell'associazione "Il mio amico Jonathan". Avevano vinto l'appalto di 40 mila euro per far da mangiare ai migranti che tornavano dai campi alla sera. E anche quando ad aprile scorso il loro compito era formalmente finito non se la sono sentita di lasciare la gente senza un minimo di aiuto.

Michelangelo, uno dei volontari spiega: "Organizziamo le collette, mettiamo assieme quel che la gente ci regala e quando ci riusciamo veniamo qua a fare qualcosa da mangiare". Domenica mattina il menu diceva verdure cotte e riso, niente altro. I fuochi su cui si fanno bollire i pentoloni dell'acqua addossati ai rifugi ti tela e celofan. E sono tutto quei bivacchi. Sono riscaldamento e cucina. Quattro pali e le pareti di eternit, da queste parti le chiamano docce. All'esterno c'è un gradino di terra. E mentre da fuori uno dei ragazzi versa acqua tiepida dall'alto, dentro un altro prova a levarsi di dosso il fango e la fatica dei campi.

Il sindaco si è arreso: "A 72 anni certe cose non le posso vedere più. L'Azienda sanitaria mi ha mandato una relazione nella quale si parla di gravissimo rischio igienico, per non parlare di quello per l'ordine pubblico. Non posso assumermi la responsabilità di tenere in piedi questa storia. Siamo soli e può succedere qualsiasi cosa". Madaffari al campo lo conoscono tutti, come anche in paese. Con la sua indennità paga le bollette della luce del Comune e la voce "spese di rappresentanza" non c'è un euro. "Quando arriva qualche ospite importante e lo invitiamo a pranzo, pago io di tasca mia". Della politica dice: "Non me ne frega niente, mica devo fare carriera, e poi quello che ho visto ultimamente mi è bastato".

Decine di appelli, lettere, richieste di incontri, Madaffari ha bussato alla porta di tutti. Ma niente. E racconta: "L'ultima riunione del tavolo istituzionale per l'emergenza immigrati è stato pochi giorni fa. C'era la Regione. Ma il direttore generale Franco Zoccali ha detto che non è un problema loro. Il prefetto è rimasto a bocca aperta. Solo pochi mesi fa avevano promesso due milioni di euro".
 
Il prefetto si chiama Vittorio Piscitelli, è quello che ha sciolto il comune di Reggio Calabria per infiltrazioni mafiose. Sarà un caso, ma prima c'erano i soldi, ora non più. E anche lui non può che alzare le mani. "La vuole vedere l'ultima  -  continua il sindaco  -  la Presidenza della Repubblica ci ha mandato poco meno di 500 coperte, costo 5mila euro e 17 centesimi. Sono coperte di "materiale di seconda scelta, non commerciabile", così c'è scritto nella fattura. Lo sa cosa significa? Che quel che non va bene per la gente normale può andar bene per questa gente. Come se non fossero persone come tutte le altre. E' umiliante". E a nulla sono valsi i richiami del vescovo Francesco Milito che nei giorni scorsi ha consegnato 10 mila euro alla Caritas per un piccolo intervento. Anche quelle parole cadute nel vuoto.

A sera i migranti stanno attorno ai fuochi, bruciano tutto quello che possono per scaldarsi. Da queste parti li chiamano i "fantasmi della Piana", perché sembrano invisibili alle istituzioni. All'alba proveranno ancora a trovare una giornata di lavoro. I "capi neri", li conoscono tutti qui. Sono loro che al mattino ne prendono 10 o 20 per volta. Li portano sui campi e dicono cosa fare. Una volta a settimana danno loro quello che vogliono, da 25 a 35 euro, a qualcuno 5 centesimi a cassetta per le arance e un euro per le clementine. Il resto lo tengono loro.

I migranti non vedono mai i proprietari delle terre su cui lavorano. Qualcuno si arrabbia, prova a ribellarsi. Soprattutto quelli che hanno la carta d'identità italiana in tasca. Prima erano registrati al nord, a Brescia o in Romagna. Per questo sanno cos'è un contratto e un salario veri. Poi la crisi li ha portati in Calabria. Ma se provano a protestare restano al campo, senza la giornata. I "capi neri", quelli che procurano rogne non li vogliono tra i piedi. Il documento italiano qui non vale. Qui siamo alla bidonville di San Ferdinando.

Vite senza valore nell'Italia indifferente

  • Sabato, 15 Dicembre 2012 08:24 ,
  • Pubblicato in L'Analisi

Annamaria Rivera, Micromega

14 dicembre 2012

La notte fra l’8 e il 9 dicembre, un sessantenne di origine egiziana, detto Jimmy, muore assiderato per strada a Napoli. Il mattino dell’11 dicembre, a Torvajanica, sul litorale romano, in un casolare abbandonato è rinvenuto un cadavere carbonizzato: secondo i carabinieri, è di una donna immigrata da un paese dell’Est europeo che era solita rifugiarsi lì.

Anche quello venne chiamato raptus

  • Giovedì, 13 Dicembre 2012 13:03 ,
  • Pubblicato in Flash news
Lipperatura
13 12 2012

Firenze, 13 dicembre 2011. Gianluca Casseri, simpatizzante di Casapound, uccide Modou Samb e Mor Diop. Primo, proviamo a non dimenticarlo, specie in vista dei mesi che verranno (ma non dimentichiamolo comunque, per favore). Secondo, è stato lanciato un ‘appello per i tre senegalesi che vennero feriti gravemente un anno fa: Sougou Mor, Mbengue Cheike e Moustapha Dieng. Ora, l’Associazione senegalesi di Firenze chiede per loro la cittadinanza italiana. Qui c’è l’appello. Firmatelo.

Oggi, un anno fa

  • Giovedì, 13 Dicembre 2012 11:39 ,
  • Pubblicato in Flash news

Giap
13 12 2012

Oggi esce nelle sale italiane il primo episodio della trilogia cinematografica tratta dal romanzo Lo Hobbit di J.R.R.Tolkien. Questo nostro post però non parlerà del film, e inizierà invece ricordando che oggi cade l’anniversario della strage di Firenze, nella quale Gianluca Casseri, armato di una 357 magnum, ha ucciso a sangue freddo i cittadini senegalesi Samb Modou e Diop Mor, e ha ferito gravemente Sougou Mor, Mbenghe Cheike e Mustapha Dieng (quest’ultimo rimasto tetraplegico e afono a vita). Dopodiché, una volta circondato dalla polizia, l’assassino ha rivolto l’arma contro se stesso e si è suicidato.

La coincidenza è due volte triste, se si pensa che l’omicida, oltre a essere un simpatizzante di Casa Pound Italia, era anche un fan di Tolkien e faceva parte di quella cerchia di commentatori di destra che per decenni hanno imposto all’opera del professore di Oxford le più bislacche letture tradizionaliste (WM4 se n’è occupato dettagliatamente qui). Casseri era stato uno degli autori inclusi nella collettanea ‘Albero’ di Tolkien (Bompiani, 2007), curata da Gianfranco De Turris – già segretario della Fondazione intestata al pensatore razzista e antisemita Julius Evola – nella quale sono raccolti i contributi di svariati esponenti della suddetta cerchia (insieme ad alcuni sparuti “esterni”).
Nel giorno in cui Lo Hobbit, a tre quarti di secolo dalla sua pubblicazione, diventa un prodotto cinematografico destinato all’intrattenimento delle platee mondiali, con tutto il portato di glamour, merchandising, e penetrazione nell’immaginario collettivo, noi vogliamo ricordare le vittime dell’odio razzista e al tempo stesso sostenere ancora una volta la liberazione di Tolkien dalla presa di certi suoi ammiratori.

Per farlo citiamo il saggio di Verlyn Flieger (Università del Maryland) dal titolo “Ci sarà sempre una fiaba”: J.R.R.Tolkien e la controversia sul folklore, contenuto nella collettanea fresca di stampa “C’era una volta Lo Hobbit”: alle origini del Signore degli Anelli, Marietti 1820 (€ 22).
Flieger spiega che nella celebre conferenza Sulle Fiabe (1939), Tolkien non solo traccia una guida operativa per la sua attività di narratore messa in atto ne Lo Hobbit, ma risponde anche alle maggiori teorie sul folklore ancora in auge a quell’epoca. Nella controversia tra teoria indo-ariana e teoria primitivista/evolutiva che aveva connotato il secolo d’oro degli studi sul folklore e sulle fiabe, Tolkien ribatte a entrambe piuttosto nettamente e lo fa forse più da narratore che da filologo. Tra gli studiosi che affronta c’è Sir George Dasent (1817-1896), sostenitore dell’origine ariana del folklore e delle fiabe nordiche, il quale parlava di queste in termini di «letteratura popolare della razza» e «racconti che l’Inghilterra aveva un tempo in comune con tutte le razze ariane». Tolkien definisce l’impostazione di Dasent «un guazzabuglio di preistoria fasulla, basata sulle prime supposizioni della filologia comparata», e contesta la futilità dell’ossessiva ricerca delle origini, che porta a scarnificare le storie fino a ridurle all’osso, sacrificando ogni stratificazione, ogni elemento inventivo, creativo, originale, alla pretesa di scovarne il nocciolo duro (e, nella fattispecie, ariano). Questa ossessione fa perdere per strada «l’effetto letterario» e la «significanza letteraria», i veri responsabili del perdurare delle fiabe nella nostra cultura. Nel 1939 il mitopoeta Tolkien teneva a marcare la propria distanza da un certo approccio, in un momento in cui era ormai palese dove fosse andato a parare, grazie all’uso che ne avevano fatto i nazisti in Germania.

Per Tolkien «chiedere quale sia l’origine delle storie è chiedere quale sia l’origine del linguaggio e della mente»: le storie nascono con noi e sono più importanti della loro presunta radice primigenia. Insomma, non c’è trippa per gatti con gli stivali di cuoio lucidato. Tanto meno per i pistoleri di oggi e per i loro sodali, che ancora vorrebbero arruolare a forza il sottotenente Tolkien nella loro nefasta battaglia.

Domani sarà già passato un anno da quando in Piazza Dalmazia a Firenze furono assassinati Modou Samb e Mor Diop durante l’attacco armato di un fanatico razzista.

Sarà già passato un anno anche per quelli che vennero gravemente feriti: Sougou Mor, Mbengue Cheike e Moustapha Dieng. Quest’ultimo, questo lungo anno lo ha trascorso nel letto di un ospedale.

Dieng non potrà più essere autosufficiente, la pallottola gli ha lesionato il midollo spinale e non può più camminare, è tetraplegico e non riesce ad emettere suoni perché la trachea è stata compromessa e poi trapiantata. Ha accanto un fratello disoccupato che vive vicino Pisa e Madiagne, un amico che non conosceva prima, ma che dal giorno della sparatoria lo va a trovare tutti i giorni.

L’Associazione dei senegalesi di Firenze in questi giorni è molto attiva. Ha lanciato un appello e nella solidale città di Firenze sta organizzando una manifestazione.

L’Associazione chiede inoltre la cittadinanza italiana per i tre ragazzi feriti gravemente dal killer Gianluca Casseri. Lo chiede al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano attraverso la petizione su Change.org.

Che senso ha la cittadinanza per questi tre ragazzi di 32, 34 e 42 anni?

Ha un senso: cercare di comunicare, di ribadire che il clima razzista nel quale è avvenuto il terribile gesto di Casseri un anno fa non ci appartiene come Paese e che non lo abbiamo dimenticato. Mandare un segnale di solidarietà a Dieng, affinchè Madiagne non sia l’unico ad essergli vicino.

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