Corriere della Sera11 12 2012
La fotografa Silvia Amodio racconta il suo progetto: sono note le gravissime persecuzioni subite dagli albini africani. Ma siamo sicuri che questi meccanismi di difesa non siano molto più diffusi?
di Marta Serafini
Pelle bianco latte, capelli chiari. E occhi altrettanto chiari che faticano ad adattarsi alla luce del sole. Gli albini in tutto il mondo sono vittime dei pregiudizi, della supertstizione, e dell’emarginazione sociale, discriminati in famiglia, a scuola, e nel lavoro. In Africa sono i ”neri bianchi” e vengono letteralmente perseguitati e uccisi.
“Sebbene si presenti come un progetto fotografico apparentemente semplice è il frutto di un lavoro complesso”, racconta Silvia Amodio, fotografa. “Dopo aver incontrato molte persone albine negli ultimi quattro anni mi sono fatta una mia personale idea a riguardo. Sono individui dotati di grande talento, soprattutto nella musica e nelle lingue, ma sono anche piuttosto diffidenti, “conquistarli” è stata la parte più dura di questo percorso”.
Silvia Amodio, fotoreporter laureata in filosofia con una tesi sperimentale, svolta alle Hawaii, sulle competenze linguistiche dei delfini e che ha lavorato per Famiglia Cristiana, Airone, D la Repubblica delle Donne, Anna, l’Espresso, Mondo Sommerso, New Age, ha deciso di raccontare la loro storia attraverso una serie di scatti raccolti in quattro anni di lavoro e che ora sono esposti in due mostre, una a Verona dal 13 dicembre fino al 7 gennaio allo spazio Ph Neutro, e l’altra a Roma presso Spqwork fino al 13 gennaio.
Il progetto, dal titolo Tutti i colori del Bianco è stato infatti autofinanziato ed è appoggiato da Albinit, associazione italiana sul tema, per cui Silvia ha realizzato anche un calendario.
“L’albinismo è una anomalia genetica che colpisce in misura molto variabile in ogni angolo della terra. Rientra nella lista delle malattie rare, per questa ragione è poco studiata e conosciuta, infatti, sebbene tutti sappiano riconoscere gli aspetti più appariscenti di una persona albina, quasi nessuno è al corrente delle problematiche e delle difficoltà che vivono quotidianamente”.
Secondo Silvia, la condizione difficile degli albini è confermata anche dai dati, molto variabili: “In Europa pare ci sia un’incidenza di 1 su 17mila, in Africa le percentuale è molto più alta a causa delle unioni tra consanguinei e varia da 1 su 2000/5000, a seconda della regione, mentre tra i Kuna di Panama si raggiungono cifre molto alte, circa 1 su 100/150. Vien da sé che nascere albino in un paese del nord sia molto diverso che nascere albino in Africa”.
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Nel contintente nero infatti succede ancora che se qualcosa va storto (una carestia o un’epidemia o qualche altro evento straordinario), la soluzione sia il sacrificio. E gli albini sono considerati qualcosa di anomalo, di strano che ha interrotto la routine. E come tali vanno uccisi per placare l’ira del dio. Ma non solo. In molte zone è diffusa la credenza che pozioni o talismani fatti con parti del corpo di queste persone portino fortuna.
Silvia non è ancora andata in Africa: “Non so se riuscirò mai ad andarci trattandosi di un progetto autogestito e molto faticoso da seguire. Ma l’albinismo è un tema interessante per il mio lavoro perché mi consente di spaziare da una disciplina all’altra e indagare gli aspetti sociali, antropologici e scientifici di questa condizione. Sono note le gravissime persecuzioni subite dagli albini africani, la cui matrice è sempre l’ignoranza e la paura del diverso. Ma siamo sicuri che questi meccanismi di difesa non siano molto più diffusi?
Per questa ragione ho voluto indagare e raccogliere testimonianze di persone albine che vivono in Europa, cioè dove pensiamo che queste forme di emarginazione non siano presenti. Ho verificato, purtroppo, che la diffidenza nei confronti di ciò che non si conosce è estesa ovunque e che nascere albino non è facile da nessuna parte”.
Il lavoro di questa fotografa è però andato oltre l’apparenza e la curiosità: “Le persone ritratte sono molto belle e i bambini, in particolare, sembrano bambole di porcellana. Credo che questo crei nel fruitore un certo spaesamento perché risulta difficile accostare queste immagini ad una condizione di disagio.
“Ma credo che questo sia anche il senso più profondo di questo mio ultimo lavoro, imparare a guardare oltre l’apparenza di chi abbiamo di fronte per coglierne tutte le sfumature, anche quelle meno appariscenti.”