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Sul monitor dell'ecografo il cuoricino pulsa velocemente. Il rimbombo rapido del battito si diffonde nella sala. È la vita che palpita nel corpo esanime di una giovane donna i cui respiri sono legati a una macchina. Carolina è in coma. ...
Anche qui l'indicazione che la visita sarà orientativa e preventiva è chiara: per ora nessun portale italiano fa diagnosi definitive e indica vere e proprie terapie. Ma è solo questione di tempo. ...

I medici e le diseguaglianze nella salute

  • Lunedì, 02 Settembre 2013 09:22 ,
  • Pubblicato in Flash news
L'Unità
01 09 2013

Gavino Maciocco

Le diseguaglianze socio-economiche nella salute sono oggi il più importante problema di sanità pubblica.  Quale il possibile ruolo dei medici.
 
Si definiscono “determinanti di salute” i fattori che in varia misura sono in grado di influenzare lo stato di salute delle persone e delle comunità: fattori strettamente biologici (sesso, età, patrimonio genetico), comportamentali, relazionali e affettivi, legati all’ambiente di vita e di lavoro (impiego, reddito, classe sociale, istruzione, servizi sanitari) e al contesto più generale di carattere culturale, sociale, economico e ambientale.    Fattori in grado di costituire una catena di cause (“le cause delle cause”) nella genesi di una malattia: dalle cause più generali (es: la condizione socio-economica) a quelle più specifiche (es: un comportamento nocivo per la salute).

Le crescenti diseguaglianze socio-economiche stanno producendo crescenti e inaccettabili diseguaglianze nella salute e nell’assistenza sanitaria, tra differenti gruppi di popolazione, di cui più volte abbiamo trattato in questo blog (leggi qui, qui e qui).

Le diseguaglianze nella salute sono oggi il più importante problema di sanità pubblica. Nell’insieme dei paesi dell’Unione Europea (EU-25) i decessi attribuibili alle disparità di istruzione (che riflettono anche le disparità socioeconomiche)  sono 707.000 all’anno, circa 140 per centomila persone per anno. In Toscana l’impatto delle diseguaglianze è stato stimato in circa 70-110 decessi per centomila persone per anno attribuibili al differenziale di livello di istruzione.

Nonostante ciò la sensibilità e l’impegno di politici e amministratori verso questo problema sono quasi irrilevanti.  Per non parlare del mondo medico che – nella quasi totalità – è da sempre ancorato a una visione puramente biologica dell’origine delle malattie.
Per questo colpisce molto un documento prodotto dalle principali associazioni mediche britanniche (tra cui il Royal College of Physicians e il Royal College of General Practitioners) dal titolo: “How doctors can close the gap. Tackling the social determinants of health through culture change, advocacy and education.” (“Come i medici possono ridurre le diseguaglianze nella salute. Affrontare i determinanti sociali di salute attraverso il cambio di cultura, la difesa dei più deboli e la formazione”). (Per scaricare clicca qui).
Di seguito alcuni brani del documento.
Molti medici rimangono completamente focalizzati sugli interventi clinici, mentre tutti i professionisti dovrebbero adottare una prospettiva di salute che guarda oltre i bisogni immediati dei singoli pazienti e lavora per promuovere attivamente la salute e il benessere.
Per fare questo è necessario produrre dei cambiamenti  a) nelle attitudini dei medici nei riguardi dei determinanti della salute, b) nell’assistenza sanitaria e nel sistema sociale, e c) nella formazione dei medici.
CAMBIARE LA PROSPETTIVA  (Changing perspectives)
Per affrontare efficacemente i determinanti di salute è necessario un approccio olistico ai problemi, con i medici che non solo si fanno promotori della salute e della prevenzione delle malattie, ma che collaborano  con tutti gli altri settori della società per sviluppare soluzioni per ridurre le diseguaglianze.
C’è bisogno di un più alto livello di coesione tra professionisti impegnati in diversi campi dell’assistenza sanitaria, in modo da occuparsi dei determinanti sociali della salute in modo più efficace e più mirato.  Una maggiore interazione tra i team che si occupano di sanità pubblica e ricercatori, clinici, operatori sociali e amministratori locali, e un migliore flusso d’informazioni tra questi gruppi, aiuterà a stabilire quali iniziative di promozione della salute sono più efficaci e quali gruppi di popolazione sono meno serviti e protetti. La condivisione delle informazioni sulle migliori pratiche su come affrontare i determinanti sociali di salute dovrebbe essere incoraggiata e centralizzata.
E’ comunemente riconosciuto che i medici sono tra i più rispettati professionisti nella società e questa benevolenza  deve essere incanalata in programmi che affrontano le diseguaglianze nella salute. Bisogna che i medici a tutti i livelli  si uniscano alle forze che si battono per l’equità nella salute, dagli studenti in medicina ai più potenti presidi delle facoltà di medicina.  L’intera professione medica può usare la sua voce influente, sia a livello personale sia a livello locale o nazionale, per promuovere azioni sui determinanti sociali di salute.

CAMBIARE I SISTEMI  (Changing systems)
La sfida chiave per affrontare le diseguaglianze nella salute è rappresentata dal fatto che i più svantaggiati e marginalizzati sono spesso gli ultimi nella società a ricercare l’aiuto medico. Ciò deriva da impedimenti fisici o mentali, problemi logistici, barriere linguistiche o anche da un’attitudine fatalistica verso la salute e dal considerare la malattia come inevitabile.  Tutti i professionisti della salute devono impegnarsi con le loro comunità locali  e lavorare per ampliare l’accesso ai servizi e per connettersi con i gruppi di popolazione più difficili da raggiungere.  I programmi sanitari dovrebbero essere progettati per dare agli utenti più potere e più possibilità di aumentare il controllo sulla loro salute. E’ vitale fornire ai gruppi socialmente svantaggiati, e in particolare ai giovani,  un’informazione accessibile e amichevole sui problemi sanitari.  Questi tipi di programmi devono procedere insieme a una generale ristrutturazione dei servizi di cure primarie che preveda una loro forte integrazione con i servizi sociali, educativi e per l’impiego.       
Le visite mediche devono essere l’occasione per conoscere i problemi sociali dei pazienti e individuare le aree di bisogno che potrebbero richiedere il supporto di settori non sanitari.

CAMBIARE L’EDUCAZIONE (Changing education)
Noi dobbiamo dare agli studenti in medicina e agli specializzandi l’incoraggiamento e il supporto per interessarsi dei determinanti sociali della salute e promuovere la salute tra la popolazione, piuttosto che concentrarsi soltanto sulla cura dei singoli pazienti.
E’ importante convincere gli studenti già nelle fasi iniziali della loro carriera di studi che imparare i determinanti sociali di salute li aiuterà veramente a migliorare la salute della società.
I problemi di sanità pubblica riguardanti le diseguaglianze nella salute e dei determinanti sociali di salute dovrebbero essere inseriti in tutte la parti del curriculum degli studi e nella formazione pratica.
Gli attuali corsi di sanità pubblica sono spesso aridi e poco interessanti e devono essere modificati per attirare l’attenzione degli studenti sui problemi delle diseguaglianze nella salute.  E’ riconosciuto che il contesto in cui s’impara è importante quanto il contenuto dell’apprendimento; per questa ragione agli studenti dovrebbe essere offerta l’opportunità di fare esperienze in ambito sociale, a contatto con operatori sociali, gruppi comunitari, organizzazioni di volontariato.
La formazione sui determinanti sociali di salute dovrebbe essere inclusa anche nelle discipline cliniche, dove la discussione sulle cause di una malattia dovrebbe tener conto del contesto familiare del paziente, del suo ambiente di vita e di lavoro.  Per esempio quando si studiano le malattie respiratorie gli studenti dovrebbero conoscere in che modo il contesto socio-familiare può influenzare l’abitudine al fumo dei pazienti, e quali potrebbero essere le misure per ridurre tale impatto.  Anche nell’ambiente ospedaliero la discussione dei casi clinici dovrebbe includere la prospettiva socioculturale.    
PS. Domanda impertinente. Se le associazioni mediche britanniche si pongono questi problemi, perché non se li pone il PD?
Corriere.it
21 08 2013

«Così sottolineiamo i suoi diritti» L'ematologo Mandelli: si può avere bisogno di un dottore ma non della sua assistenza.

Ne hanno discusso per mesi. E alla fine l'indicazione è stata unanime. Il paziente non esiste più. Si chiamerà «persona assistita», nuovo termine introdotto nella bozza del codice deontologico che regola la professione dei seguaci di Ippocrate. La Fnomceo, la federazione nazionale degli ordini dei medici, tornerà ad esaminarla a settembre per poi approvarla entro l'autunno. Il testo è stato aggiornato in alcune parti e sottoposto a un restyling semantico rispetto alla versione del 2006. Previste piccole modifiche. Sul termine che identifica nei 79 articoli colui che ha contatti per qualsiasi ragione con un dottore sono però tutti d'accordo. Non malato, né ammalato, né soggetto o individuo o cittadino, parole che sopravvivono solo in capoversi dal contesto tecnico.

Meglio persona assistita perché, spiega Amedeo Bianco, presidente di Fnomceo e senatore Pd «trasmette il significato immediato di chi ha diritto a ricevere cure e assistenza senza passività. Anzi deve essere più che mai al centro del sistema. È un cambiamento importante. C'è stato un ampio dibattito, non va considerato un esercizio accademico». Bisognerà vedere se e quanto la nuova definizione verrà utilizzata nella pratica quotidiana sia nel linguaggio tra colleghi in camice bianco sia, per iscritto, nelle cartelle cliniche o nella documentazione sanitaria. È probabile che la vecchia parola manterrà il netto predominio perché è entrata ormai a far parte della professione.

In ogni caso però è stato compiuto un tentativo di ulteriore emancipazione. Un tempo il malato veniva identificato col numero del letto. Questa modifica è servita comunque come spunto di riflessione.

Storce la bocca l'ematologo Franco Mandelli, laurea nel '55, una vita in corsia a combattere le leucemie: «Preferisco dire paziente perché si addice a un malato che deve avere pazienza nell'accettare le cure e aspettare di guarire. Il concetto legato ad assistito non mi piace perché si può avere bisogno di un medico ma non della sua assistenza. Penso ad esempio a chi ha un valore sballato di globuli bianchi e non ha necessità di restare in ospedale. Continuerò a esprimermi come sempre ho fatto».

In realtà la parola che il codice abolisce ha una radice che ne cambia il significato rispetto a quello comunemente attribuito. Viene da patiens , participio presente del verbo latino patio , che vuol dire soffrire o sopportare. Dunque si accompagna non al concetto dell'attesa ma del patimento.

Ha partecipato attivamente alla revisione del codice Giuseppe Lavra, segretario generale della Cimo, la confederazione dei medici ospedalieri: «Trovo felice la nuova definizione in quanto richiama alla nostra funzione e al rapporto con il malato. Paziente non mi è mai piaciuto però ha scontato i pregiudizi generati da un equivoco. Ricordo la celebrazione del centenario della Fnomceo da parte del ministro della Giustizia con il governo Prodi, Giovanni Maria Flick. Criticò il termine facendo riferimento al pazientare». Roberto Lala, presidente dell'Ordine dei medici di Roma e provincia, il più grande d'Europa per numero di iscritti, è favorevole al cambiamento: «Ogni passaggio che agevola il processo verso la centralità del cittadino che ha bisogno di cure è benvenuto. A volte in ospedale si sentono espressioni che fanno rabbrividire. La peggiore è utente. Ne approfitto per lanciare una proposta a chi fa le leggi. Perché non ritornare all'antico termine di primario? Oggi sul camice veniamo identificati come dirigenti medici e il paziente, pardon, la persona assistita, fa confusione».
Huffingtonpost
31 07 2013

Sono già intervenuta più volte sul tema degli ospedali psichiatrici giudiziari, sostenendo con forza il dovere delle istituzioni di adoperarsi affinché fosse realizzata l'agognata chiusura di questi istituti. Adesso, a seguito delle preoccupazioni e delle perplessità rilanciate dal Comitato StopOPG, mi sento in dovere di intervenire di nuovo.

L'annosa e dolorosa questione - sulla quale speravamo di poter finalmente pronunciare la parola "fine" nei tempi indicati dal decreto legge n. 24 del 2013 - sembra ancora lontana dalla sua conclusione e sembra aver intrapreso un percorso diretto a realizzare gran parte di quelle criticità e problematiche che, come Sinistra Ecologia Libertà, avevamo più volte sollevato e contrastato durante l'approvazione della legge di conversione del decreto in questione.

Ritengo utile ricordare brevemente le travagliate vicende normative che hanno determinato la permanenza e attuale operatività degli ospedali psichiatrici giudiziari. All'inizio del 2012, con la conversione del decreto legge n. 211 del dicembre 2011, si fissava il termine per il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari allo scorso febbraio, con il compito - assegnato alle regioni - di mettere a punto specifici piani per il raggiungimento di tale obiettivo.
Preso atto dell'impossibilità, per le istituzioni coinvolte, di giungere alla auspicata chiusura nei termini stabiliti, il 25 marzo veniva disposta la proroga di un ulteriore anno per lo smantellamento degli Opg, ora fissata al primo aprile 2014.

Nel prendere la sofferta decisione di ricorrere all'ennesima proroga sulla questione, ci siamo fatti portavoce delle associazioni che da anni si battono con tenacia per la chiusura degli istituti, perché, se la realtà imponeva un rinvio dei termini di chiusura degli Opg, le condizioni dei 1.400 internati e le violazioni dei loro diritti esigevano, senza discussioni e con assoluta chiarezza, che tale proroga fosse l'ultima.
Facendo nostra la valutazione sugli ospedali psichiatrici giudiziari più volte ribadita dal Comitato StopOpg, che li ritiene inaccettabili per "la loro natura, il loro mandato, per l'incongrua legislazione a sostegno, frutto di obsolete concezioni della malattia mentale e del sapere psichiatrico", abbiamo preteso che, alla proroga della loro chiusura, corrispondessero il rispetto delle condizioni e dei percorsi di cura e il reinserimento sociale dei degenti, nonché tempi certi e impegni precisi da parte di tutte le istituzioni, in modo da voltare definitivamente questa vergognosa pagina della storia italiana.
Grazie anche all'attività parlamentare di Sinistra Ecologia Libertà - un'interrogazione rivolta al Ministro della Salute presentata da me e dal capogruppo alla Camera Gennaro Migliore e numerosi emendamenti alla legge presentati in Senato - siamo riusciti a ottenere che la chiusura degli Opg fosse garantita dalla presentazione, entro il 15 maggio 2013, di piani regionali che prevedessero tempi certi nei quali effettuare, oltre a interventi strutturali, soprattutto attività volte a incrementare percorsi terapeutico-riabilitativi individuali, prevedendo anche la dimissione di tutti coloro per i quali l'autorità giudiziaria avesse escluso, o escludesse successivamente, la pericolosità sociale.
I programmi regionali dovranno inoltre sancire l'obbligo di presa in carico dei pazienti da parte delle Asl all'interno dei citati percorsi terapeutico-riabilitativi individuali, assicurando così il diritto alle cure e al reinserimento sociale e favorendo l'esecuzione di misure di sicurezza alternative al ricovero in Opg o all'assegnazione a case di cura e custodia.
Programmi tardivi o lacunosi avrebbero dovuto causare una reazione diretta del governo, al quale spettava provvedere in via sostitutiva, attraverso la nomina di un commissario unico per tutte le regioni eventualmente inadempienti.
Evidente era il timore che lo stanziamento di fondi destinati alle regioni per la chiusura degli Opg portasse unicamente a creare repliche territoriali di questi istituti, con la nefasta eventualità di dar vita a realtà manicomiali di ridotta portata.
Altra grave preoccupazione era data dalla necessità che tutte le realtà istituzionali coinvolte si attivassero celermente per realizzare le precise scadenze determinate dalla legge, affinché non si verificasse ancora quel deficitario corto circuito tra Stato e regioni che aveva reso impossibile la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari nei termini previsti in origine.

Se il decreto legge n. 24 del 2013, convertito lo scorso maggio, aveva stabilito chiaramente come ed entro quando giungere alla chiusura degli Opg, l'attuale stato di avanzamento della progettualità regionale non fa che ridestare tutti i timori che erano sorti al momento dell'emanazione della legge di proroga e getta delle ombre inquietanti sull'effettiva osservanza dei tempi e delle modalità di chiusura.
Alla data del 15 maggio, infatti, non tutte le regioni avevano presentato un completo e dettagliato programma per il superamento degli Opg e la Regione Veneto non ne aveva addirittura presentato alcuno.
Tale stato disomogeneo e lacunoso della pianificazione regionale pregiudica notevolmente la reale possibilità di rispettare i termini di chiusura degli Opg e, inoltre, non tutti i programmi regionali presentati prevedono un utilizzo dei finanziamenti che tenga conto delle primarie finalità di cura e reinserimento sociale dei pazienti, in quanto non tutte le regioni hanno previsto un apposito e idoneo potenziamento dei Dipartimenti di Salute mentale territoriali.
Come sarà possibile garantire percorsi terapeutico-riabilitativi individuali senza rafforzare i servizi territoriali di salute mentale?
Dall'impianto dell'ultimo decreto legge in materia, si evince con assoluta chiarezza come sia fondamentale, all'interno dei piani regionali, delineare percorsi di presa in carico globale degli individui interessati dalla riforma, lasciando che l'accoglimento dei pazienti in residenze sanitarie sostitutive agli Opg venga utilizzato solo come ultima ratio.
Al giorno d'oggi, tale impianto normativo appare del tutto ribaltato: certo è l'utilizzo delle risorse per la costruzione delle strutture sostitutive degli Opg, con una serie di interrogativi aperti sulla effettiva ed esclusiva gestione sanitaria delle stesse; meno certa - o assolutamente carente - è l'osservanza delle prescrizioni di maggior pregio della legge, quelle che sanciscono finalmente un approccio al disagiato psichico che commette un reato nel segno della cura e dell'inclusione sociale e nel solco della legge Basaglia.

Riecheggia sempre più forte lo spettro contro cui il Comitato StopOpg aveva fin dal principio sollevato l'attenzione: chiudono gli Opg o riaprono i manicomi?
Per chiarire le modalità e lo stato attuale di avanzamento della programmazione regionale, ho presentato, assieme ad alcuni miei colleghi, una nuova interrogazione al ministro della Salute, chiedendo espressamente di verificare i contenuti dei progetti stessi e l'utilizzo dei finanziamenti, nonché di intraprendere apposite iniziative nel caso in cui i programmi presentati risultino inidonei a realizzare le prescrizioni normative.
Tutto ciò in attesa del 30 novembre, termine entro il quale i ministri della Salute e della Giustizia dovranno riferire alle Commissioni competenti lo stato di attuazione dei programmi regionali, come la legge stessa prevede espressamente.

Nella consapevolezza che una completa e compiuta opera di superamento degli Opg non potrà prescindere dalla riforma del Codice penale Rocco, non rimarremo inerti ad assistere al tradimento del dettato e dello spirito di una legge che chiaramente prevede la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari e l'avvio di percorsi di cura e reinserimento sociale, né potremo accettare un'ennesima proroga che gravi sulla pelle degli internati.
La battaglia per la chiusura definitiva degli Opg non si preannuncia breve, eppure noi non abbiamo intenzione di tirarci indietro: proseguiremo convinti in questa direzione.

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