l'Espresso
17 09 2015
È giovedì mattina. «Buongiorno, il consultorio familiare di Larino?». «Sì, dica». «Una mia amica deve fare un'interruzione volontaria di gravidanza. Siamo molto preoccupate». «Eh ma deve andare a Termoli». «Abbiamo bisogno del certificato medico». «No, no, noi non lo facciamo il certificato, non abbiamo il ginecologo. Ma, insomma, se vuole passare qui, possiamo invitare la signora a riflettere. A cambiare idea». No, grazie.
«Buongiorno è il consultorio di Brescia?». «Il consultorio Cidaf, sì». «Una mia amica ha bisogno di un'interruzione volontaria di gravidanza». «Noi non le facciamo queste cose». «Scusi?». «Non le facciamo. A parte che siamo in chiusura, ma soprattutto abbiamo l'obiezione di coscienza, per cui si rivolga ad altri, si rivolga al pubblico». «Ma voi siete un consultorio accreditato, vi ho trovati indicati sul sito web del ministero della Salute». «Ripeto: siccome è una scelta, i consultori Cidaf sono cattolici, e fanno l'obiezione di coscienza. Ne trova parecchi altri». «Mi può dare almeno un numero?». «Lo cerchi su Internet». E appende.
No, non è andata dappertutto così. Una ginecologa di Salò è disponibilissima, attenta, dà indicazioni chiare al telefono e si rende subito raggiungibile per un appuntamento. A Conegliano Veneto lo stesso: un'operatrice aiuta con attenzione e senza pregiudizi. A Jesi? Aprono solo dopo mezzogiorno.
A Milano entriamo in un consultorio cattolico accreditato dalla Regione. Sede: dentro una chiesa, a due passi da uno dei più noti ospedali della città per reparto di maternità. Al primo piano, due donne. Chiediamo indicazione per la pillola dei cinque giorni dopo. Nessuna reazione ostile, anzi: sorridenti indicano un medico che in un certo ospedale dà EllaOne senza problemi. In farmacia? Non si sa mai se accettano di fornirla senza opporsi.
Questa è l'Italia che festeggia i 40 anni della legge sui consultori familiari. Anniversario in sordina, passato sotto silenzio il 29 luglio a fronte di un'applicazione reale piena di vuoti. A cominciare dalla presenza sul territorio: ne mancano circa mille rispetto agli standard previsti come obiettivo (uno ogni 20mila abitanti), con in testa il record negativo della Lombardia e delle regioni del Nordest.
Dove governa Roberto Maroni infatti i consultori sono solo 209, meno della metà di quanti dovrebbero essere. In Veneto sono 99: su 250 che avrebbero dovuto aprire secondo la legge. Va peggio in Friuli Venezia Giulia e in Provincia di Trento, dove ne sono presenti solo un terzo del previsto. Il primato va però alla provincia di Bolzano, dove i consultori pubblici sono zero: tutti privati.
E non è una questione atavica. Al contrario. La situazione è peggiorata, adesso, rispetto al 2004, anno della prima rilevazione del ministero della Salute ad oggi reperibile. Un deficit di servizio pubblico che lascia buon gioco al privato, quasi tutto cattolico. Al livello nazionale si contano 283 consultori privati d'ispirazione religiosa, tra Cfc e Ucipem, le principali organizzazioni del settore. Non va diversamente nel resto d'Italia. Le eccezioni? Basilicata, Emilia Romagna, Toscana e Valle d'Aosta, che di consultori pubblici ne hanno addirittura di più del dovuto.
ALL'ORIGINE DEI CONSULTORI
C'è anche un fronte che s'apre in retrovia: e non è la battaglia sui numeri - quanti consultori, quanti indirizzi per 20mila abitanti -. È una battaglia sul come. Sul cosa. A cosa servono i consultori familiari? A cosa dovrebbero servire? Che attività dovrebbero garantire alle ragazze?
«Io c'ero», racconta Lisa Canitano , presidente dell'associazione Vita di Donna : «Io c'ero quando parlare di contraccezione e pianificazione familiare era un tabù, quando le donne non andavano dal medico se non per il parto e non sapevano cosa fosse un pap test».
«Io c'ero», continua: «quando i consultori nacquero con l'obiettivo indispensabile di dare un servizio laico, gratuito, accessibile e collettivo alle giovani, dell'Italia dalla sanità ancora cattolica». Insiste su questi tre punti, la fondatrice di Vita di Donna, una rete di riferimento in Italia per la salute femminile: laici, accessibili, collettivi.
Laici: perché se un luogo pubblico deve dare risposte, le dovrebbe dare a partire dalla scienza, dalla cura, e non dalla fede. Per questo la normalità di situazioni come quella lombarda, dove tutti i consultori privati accreditati sono cattolici (tutti, tranne uno), o come quella del Lazio, dove la decisione del governatore Nicola Zingaretti di impedire l'obiezione al loro interno è stata per ora sospesa dal Tar, è stonata rispetto allo spirito della legge del 1975.
«Verso chi si rivolge a noi sospendiamo qualsiasi tipo di giudizio», raccontano le operatrici del "Cemp", un ente privato, laico, di Milano, che segue centinaia di mamme e giovani donne da due generazioni: «Le scelte personali vanno sempre rispettate, e accompagnate nel modo migliore per la salute della persona. Senza imporre soluzioni». Ma come racconta il carotaggio telefonico de l'Espresso, non sempre funziona così.
L'AVANZATA DEI CENTRI PER LA VITA
Quando si tratta di scelte individuali su temi eticamente sensibili, l'interferenza c'è, eccome. Mediamente in Italia circa un ginecologo consultoriale su quattro è obiettore di coscienza. In Sicilia salgono a due su tre e sono circa la metà in Basilicata, ma non se la passano meglio le donne di Toscana, Marche e Valle d'Aosta, dove le percentuali variano tra il 30 e il 44 per cento.
C'è poi il buco nero della Lombardia, che nell'era Formigoni era solita non trasmettere il dato al ministero. Non pervenuto anche il Molise. Insomma: sono evidenti le difficoltà che incontra una donna che scelga di interrompere la gravidanza. In alcune regioni, infatti, il rapporto tra colloqui per l'Ivg e il successivo rilascio del certificato, mette in luce delle anomalie. Eclatante, fra tutti, il caso Marche: dove viene rilasciato un solo certificato per ogni 12,3 donne che lo hanno chiesto.
Un caso patologico rispetto alla normale proporzione tra quante sono inizialmente intenzionate ad abortire e quante arrivano in fondo a questa scelta. L'Espresso si era già occupato del caso della " bacheca degli orrori ": il volantino affisso in un consultorio pubblico di Jesi per iniziativa del Movimento per la vita.
E infatti in molti casi il consultorio pubblico è diventato un front-office dei militanti pro-vita, per intercettare le donne intenzionate a interrompere la gravidanza e demonizzarne questa scelta per spingerle verso i loro Centri per la vita (Cav), il cui scopo è convincere a seguire la gravidanza, con aiuti in denaro e altre forme di assistenza, compresa l'accoglienza temporanea. Sono circa il 7 per cento del totale, secondo dati dello stesso Movimento per la vita, le donne che i consultori pubblici inviano nei Cav per far loro cambiare idea.
I Cav sono strutture private gestite da volontari e sostenute al 68 per cento con soldi pubblici, di cui il 58 sono versati da comuni, asl e province, che in alcuni casi inviano a queste strutture anche vittime di tratta e di diverse forme di disagio; mentre per l'altro dieci per cento si tratta di non meglio definiti "contributi pubblici vari". Attualmente in Italia ce ne sono 355, presenti principalmente in Lombardia, Piemonte, Veneto e Sicilia.
UN SERVIZIO PER CHI?
Poi ci sono gli altri principi. L'essere gratuito, accessibile e collettivo: «Oggi viviamo un paradosso», spiega Lisa Canitano: «I consultori magari ci sono, ma non fanno quello per cui sono stati fondati. Ora tutti insistono per occuparsi di "prevenzione", "corsi pre parto" e simili. Ma se arriva una ragazza che sta male, che ha delle perdite, la mandano in ospedale. In ospedale, al pronto soccorso».
Non ha senso, sostiene la ginecologa. E lo stesso vale per le malattie sessualmente trasmesse : chi se ne dovrebbe occupare? «Il pronto soccorso, anche qui? Non è un uso sbagliato del servizio?», risponde lei: «Non dovrebbero occuparsene i consultori? Certo che sì! Ma non vogliono, evitano "l'utenza difficile": le immigrate con gravidanze non seguite da subito? Le mandano in ospedale». Il risultato è che è più semplice farsi accogliere dai centri per la vita cattolici, come mostrano i dati raccolti da l'Espresso: l'80 per cento delle donne che si rivolgono ai Cav sono straniere.
«L'altro giorno», conclude la Canitano: «mi ha chiamata una ragazza di Venezia: aveva bruciori e un problema alla vagina. Era sola. Non c'erano dottori al centro, e non aveva i 250 euro per pagarsi la visita al ginecologo privato. Cosa doveva fare? I consultori non si prendono più le loro responsabilità». Anche perché spesso non hanno nemmeno i medici necessari: in 7 regioni i ginecologi sono in media meno di uno per centro. In altre otto regioni non si va sopra l'uno e mezzo. Il che significa non poter garantire sempre il servizio.
Il paradosso sta lì: nella distanza fra bisogni e realtà. Quell'ideale di apertura, accessibilità e possibilità di condivisione, che era il cuore della legge, si è frammentato in alcuni casi di fronte a nuove attività, come quelle familiari (previste per decreto in alcune regioni) e la prevenzione, a volte non sanitaria, concreta, ma solo teorico-formativa. E non è solo una questione di preservativi, pillole, spirali - dove può andare oggi una ragazza a farsi mettere la spirale seguita da un medico? - o interruzioni volontarie di gravidanza.
QUELLO CHE SERVE
È anche un problema più ampio. «Nel nostro ospedale facciamo 10mila ecografie all'anno. Diecimila», spiega Paolo Scollo, primario di ginecologia dell'ospedale di Catania e presidente della Società italiana ostetricia e ginecologia- Sigo : «È uno spreco: questo è un servizio che per le maternità non a rischio potrebbe benissimo fare il consultorio. Ma lì non hanno gli strumenti. E così ricade su di noi».
Lo stesso per le situazioni più complicate, come quelle legate all'emarginazione: «Ho fondato un servizio di emergenza per donne immigrate: un ambulatorio, dentro l'ospedale, dove le donne possano venire e avere tutti gli esami e avere l'assistenza necessaria in un solo giorno, seguite in modo professionale, anche se sono sbarcate da poche ore», racconta il primario.
«All'inizio eravamo aperti un solo giorno a settimana», continua: «Ora tre. E fra i nostri pazienti ci sono anche molte italiane indigenti. Per le quali venire a Catania per le visite è un costo, ma così sono sicure di non essere lasciate in attesa. È considerato un'eccellenza ora, ma per noi è uno sforzo, in periodo di tagli poi, e su un servizio di frontiera in cui il consultorio potrebbe aiutare moltissimo».
In alcune regioni si pensa proprio a questo: integrare i "fronti di contatto" con le donne all'interno di poliambulatori dove si possano fare subito gli esami necessari. «In Sicilia l'abbiamo fatto con la riforma dei punti nascita della nuova legge sanitaria», (quella dell'assessore Lucia Borsellino), continua il presidente della Sigo: «Dove sono stati soppressi perché troppo poco attivi, il consultorio sarà portato all'interno dell'ospedale per offrire le attività di assistenza alla gravidanza pre e post parto».
Lorenzo Di Pietro e Francesca Sironi
L’Espresso
16 09 2015
giovedì mattina. «Buongiorno, il consultorio familiare di Larino?». «Sì, dica». «Una mia amica deve fare un'interruzione volontaria di gravidanza. Siamo molto preoccupate». «Eh ma deve andare a Termoli». «Abbiamo bisogno del certificato medico». «No, no, noi non lo facciamo il certificato, non abbiamo il ginecologo. Ma, insomma, se vuole passare qui, possiamo invitare la signora a riflettere. A cambiare idea». No, grazie.
«Buongiorno è il consultorio di Brescia?». «Il consultorio Cidaf, sì». «Una mia amica ha bisogno di un'interruzione volontaria di gravidanza». «Noi non le facciamo queste cose». «Scusi?». «Non le facciamo. A parte che siamo in chiusura, ma soprattutto abbiamo l'obiezione di coscienza, per cui si rivolga ad altri, si rivolga al pubblico». «Ma voi siete un consultorio accreditato, vi ho trovati indicati sul sito web del ministero della Salute». «Ripeto: siccome è una scelta, i consultori Cidaf sono cattolici, e fanno l'obiezione di coscienza. Ne trova parecchi altri». «Mi può dare almeno un numero?». «Lo cerchi su Internet». E appende.
No, non è andata dappertutto così. Una ginecologa di Salò è disponibilissima, attenta, dà indicazioni chiare al telefono e si rende subito raggiungibile per un appuntamento. A Conegliano Veneto lo stesso: un'operatrice aiuta con attenzione e senza pregiudizi. A Jesi? Aprono solo dopo mezzogiorno.
L'ingresso del consultorio privato...
L'ingresso del consultorio privato accreditato a Milano
A Milano entriamo in un consultorio cattolico accreditato dalla Regione. Sede: dentro una chiesa, a due passi da uno dei più noti ospedali della città per reparto di maternità. Al primo piano, due donne. Chiediamo indicazione per la pillola dei cinque giorni dopo. Nessuna reazione ostile, anzi: sorridenti indicano un medico che in un certo ospedale dà EllaOne senza problemi. In farmacia? Non si sa mai se accettano di fornirla senza opporsi.
Questa è l'Italia che festeggia i 40 anni della legge sui consultori familiari. Anniversario in sordina, passato sotto silenzio il 29 luglio a fronte di un'applicazione reale piena di vuoti. A cominciare dalla presenza sul territorio: ne mancano circa mille rispetto agli standard previsti come obiettivo nel 1975 (uno ogni 20mila abitanti), con in testa il record negativo della Lombardia e delle regioni del Nordest.
Dove governa Roberto Maroni infatti i consultori sono solo 209, meno della metà di quanti dovrebbero essere. In Veneto sono 99: su 250 che avrebbero dovuto aprire secondo la legge. Va peggio in Friuli Venezia Giulia e in Provincia di Trento, dove ne sono presenti solo un terzo del previsto. Il primato va però alla provincia di Bolzano, dove i consultori pubblici sono zero: tutti privati.
E non è una questione atavica. Al contrario. La situazione è peggiorata, adesso, rispetto al 2004, anno della prima rilevazione del ministero della Salute ad oggi reperibile. Un deficit di servizio pubblico che lascia buon gioco al privato, quasi tutto cattolico. Al livello nazionale si contano 283 consultori privati d'ispirazione religiosa, tra Cfc e Ucipem, le principali organizzazioni del settore. Non va diversamente nel resto d'Italia. Le eccezioni? Basilicata, Emilia Romagna, Toscana e Valle d'Aosta, che di consultori pubblici ne hanno addirittura di più del dovuto.
ALL'ORIGINE DEI CONSULTORI
C'è anche un fronte che s'apre in retrovia: e non è la battaglia sui numeri - quanti consultori, quanti indirizzi per 20mila abitanti -. È una battaglia sul come. Sul cosa. A cosa servono i consultori familiari? A cosa dovrebbero servire? Che attività dovrebbero garantire alle ragazze?
Il consultorio? E' un miraggio
Pochi. Fondi e personale insufficienti. Aperti solo raramente. Difficilmente accessibili. Un'indagine svela le carenze dei centri di assistenza alle donne
«Io c'ero», racconta Lisa Canitano , presidente dell'associazione Vita di Donna : «Io c'ero quando parlare di contraccezione e pianificazione familiare era un tabù, quando le donne non andavano dal medico se non per il parto e non sapevano cosa fosse un pap test».
«Io c'ero», continua: «quando i consultori nacquero con l'obiettivo indispensabile di dare un servizio laico, gratuito, accessibile e collettivo alle giovani, dell'Italia dalla sanità ancora cattolica». Insiste su questi tre punti, la fondatrice di Vita di Donna, una rete di riferimento in Italia per la salute femminile: laici, accessibili, collettivi.
Laici: perché se un luogo pubblico deve dare risposte, le dovrebbe dare a partire dalla scienza, dalla cura, e non dalla fede. Per questo la normalità di situazioni come quella lombarda, dove tutti i consultori privati accreditati sono cattolici (tutti, tranne uno), o come quella del Lazio, dove la decisione del governatore Nicola Zingaretti di impedire l'obiezione al loro interno è stata per ora sospesa dal Tar, è stonata rispetto allo spirito della legge del 1975.
«Verso chi si rivolge a noi sospendiamo qualsiasi tipo di giudizio», raccontano le operatrici del "Cemp", un ente privato, laico, di Milano, che segue centinaia di mamme e giovani donne da due generazioni: «Le scelte personali vanno sempre rispettate, e accompagnate nel modo migliore per la salute della persona. Senza imporre soluzioni». Ma come racconta il carotaggio telefonico de l'Espresso, non sempre funziona così.
L'AVANZATA DEI CENTRI PER LA VITA
Quando si tratta di scelte individuali su temi eticamente sensibili, l'interferenza c'è, eccome. Mediamente in Italia circa un ginecologo consultoriale su quattro è obiettore di coscienza. In Sicilia salgono a due su tre e sono circa la metà in Basilicata, ma non se la passano meglio le donne di Toscana, Marche e Valle d'Aosta, dove le percentuali variano tra il 30 e il 44 per cento.
C'è poi il buco nero della Lombardia, che nell'era Formigoni era solita non trasmettere il dato al ministero. Non pervenuto anche il Molise. Insomma: sono evidenti le difficoltà che incontra una donna che scelga di interrompere la gravidanza. In alcune regioni, infatti, il rapporto tra colloqui per l'Ivg e il successivo rilascio del certificato, mette in luce delle anomalie. Eclatante, fra tutti, il caso Marche: dove viene rilasciato un solo certificato per ogni 12,3 donne che lo hanno chiesto.
Un caso patologico rispetto alla normale proporzione tra quante sono inizialmente intenzionate ad abortire e quante arrivano in fondo a questa scelta. L'Espresso si era già occupato del caso della " bacheca degli orrori ": il volantino affisso in un consultorio pubblico di Jesi per iniziativa del Movimento per la vita.
"Vedevo il barattolo riempirsi del mio bambino fatto a pezzi". Inizia così un testo fotocopiato che stava in bella mostra nel consultorio pubblico del comune marchigiano, inviato all'Espresso da una lettrice. Che denuncia: «Così lasciamo spazio ai fanatici»
E infatti in molti casi il consultorio pubblico è diventato un front-office dei militanti pro-vita, per intercettare le donne intenzionate a interrompere la gravidanza e demonizzarne questa scelta per spingerle verso i loro Centri per la vita (Cav), il cui scopo è convincere a seguire la gravidanza, con aiuti in denaro e altre forme di assistenza, compresa l'accoglienza temporanea. Sono circa il 7 per cento del totale, secondo dati dello stesso Movimento per la vita, le donne che i consultori pubblici inviano nei Cav per far loro cambiare idea.
I Cav sono strutture private gestite da volontari e sostenute al 68 per cento con soldi pubblici, di cui il 58 sono versati da comuni, asl e province, che in alcuni casi inviano a queste strutture anche vittime di tratta e di diverse forme di disagio; mentre per l'altro dieci per cento si tratta di non meglio definiti "contributi pubblici vari". Attualmente in Italia ce ne sono 355, presenti principalmente in Lombardia, Piemonte, Veneto e Sicilia.
UN SERVIZIO PER CHI?
Poi ci sono gli altri principi. L'essere gratuito, accessibile e collettivo: «Oggi viviamo un paradosso», spiega Lisa Canitano: «I consultori magari ci sono, ma non fanno quello per cui sono stati fondati. Ora tutti insistono per occuparsi di "prevenzione", "corsi pre parto" e simili. Ma se arriva una ragazza che sta male, che ha delle perdite, la mandano in ospedale. In ospedale, al pronto soccorso».
Non ha senso, sostiene la ginecologa. E lo stesso vale per le malattie sessualmente trasmesse : chi se ne dovrebbe occupare? «Il pronto soccorso, anche qui? Non è un uso sbagliato del servizio?», risponde lei: «Non dovrebbero occuparsene i consultori? Certo che sì! Ma non vogliono, evitano "l'utenza difficile": le immigrate con gravidanze non seguite da subito? Le mandano in ospedale». Il risultato è che è più semplice farsi accogliere dai centri per la vita cattolici, come mostrano i dati raccolti da l'Espresso: l'80 per cento delle donne che si rivolgono ai Cav sono straniere.
«L'altro giorno», conclude la Canitano: «mi ha chiamata una ragazza di Venezia: aveva bruciori e un problema alla vagina. Era sola. Non c'erano dottori al centro, e non aveva i 250 euro per pagarsi la visita al ginecologo privato. Cosa doveva fare? I consultori non si prendono più le loro responsabilità». Anche perché spesso non hanno nemmeno i medici necessari: in 7 regioni i ginecologi sono in media meno di uno per centro. In altre otto regioni non si va sopra l'uno e mezzo. Il che significa non poter garantire sempre il servizio.
Il paradosso sta lì: nella distanza fra bisogni e realtà. Quell'ideale di apertura, accessibilità e possibilità di condivisione, che era il cuore della legge, si è frammentato in alcuni casi di fronte a nuove attività, come quelle familiari (previste per decreto in alcune regioni) e la prevenzione, a volte non sanitaria, concreta, ma solo teorico-formativa. E non è solo una questione di preservativi, pillole, spirali - dove può andare oggi una ragazza a farsi mettere la spirale seguita da un medico? - o interruzioni volontarie di gravidanza.
QUELLO CHE SERVE
È anche un problema più ampio. «Nel nostro ospedale facciamo 10mila ecografie all'anno. Diecimila», spiega Paolo Scollo, primario di ginecologia dell'ospedale di Catania e presidente della Società italiana ostetricia e ginecologia- Sigo : «È uno spreco: questo è un servizio che per le maternità non a rischio potrebbe benissimo fare il consultorio. Ma lì non hanno gli strumenti. E così ricade su di noi».
Non se ne discute a scuola. Alle ragazze non ne parlano i ginecologi. Gli anticoncezionali costano troppo e i medici non sono preparati. Così l’ignoranza sessuale dilaga. "Nel Paese di verificano ancora 9 mila maternità in ragazze di età inferiore ai 19 anni, un numero altissimo. È evidente che c’è un problema di conoscenza"
Lo stesso per le situazioni più complicate, come quelle legate all'emarginazione: «Ho fondato un servizio di emergenza per donne immigrate: un ambulatorio, dentro l'ospedale, dove le donne possano venire e avere tutti gli esami e avere l'assistenza necessaria in un solo giorno, seguite in modo professionale, anche se sono sbarcate da poche ore», racconta il primario.
«All'inizio eravamo aperti un solo giorno a settimana», continua: «Ora tre. E fra i nostri pazienti ci sono anche molte italiane indigenti. Per le quali venire a Catania per le visite è un costo, ma così sono sicure di non essere lasciate in attesa. È considerato un'eccellenza ora, ma per noi è uno sforzo, in periodo di tagli poi, e su un servizio di frontiera in cui il consultorio potrebbe aiutare moltissimo».
In alcune regioni si pensa proprio a questo: integrare i "fronti di contatto" con le donne all'interno di poliambulatori dove si possano fare subito gli esami necessari. «In Sicilia l'abbiamo fatto con la riforma dei punti nascita della nuova legge sanitaria», (quella dell'assessore Lucia Borsellino), continua il presidente della Sigo: «Dove sono stati soppressi perché troppo poco attivi, il consultorio sarà portato all'interno dell'ospedale per offrire le attività di assistenza alla gravidanza pre e post parto».
Abbatto i muri
11 09 2015
Lei scrive:
Scrivo a te perché voglio essere letta. Non nella mia bacheca, non nel mio blog, non in un forum, ma in piedi, davanti alla tua piazza piena di persone che giornalmente usano i social, che giornalmente ti scrivono dalle loro poltrone dei commenti, consci che forse non arriverà mai il loro turno di parlare a te in maniera anonima e mettersi loro tra le mani del pubblico.
Sono una blogger, lo sono da quando per scrivere sul web dovevi collegare il cavo al telefono e sperare che non cadesse la connessione. Sono giovane, non sto assolutamente dicendo che io son più figa perché c’avevo la 56k, sai com’è, non voglio ritrovarmi commenti in cui si dice “Bellina, vedi che io sono nato/a ai tempi del Commodore” et similia.
Perché è proprio questo il fulcro della mia lettera a te, al tuo pubblico. Rubo un’espressione dialettale non mia per dirvi ciò che penso quando leggo i commenti: “ma che davero?”.
Ricordo con nostalgia sebbene sia passato solo un decennio, il momento in cui scrivevo un pezzo e lo pubblicavo sul mio blog: dietro un nickname cercavamo tutti di mostrarci brillanti e ad un commento molto “saggio”, si aspettava per rispondere anche un giorno, per ordinare i pensieri e rispondere per bene.
La comunicazione anonima sarebbe dovuta essere più diretta, spontanea, più “tanto chi mi conosce?”, eppure si cercava di superarsi, come se l’io virtuale potesse essere una possibilità per riscattarci da una vita normale, come se internet fosse il mo(n)do che ci permetteva di trasformarci in piccoli supereroi. Consigli, incoraggiamenti, riflessioni acute.
Adesso la comunicazione è diventata un “rispondimi subito”, “perché hai visualizzato e non rispondi?”, “se non scrivo subito poi gli altri mi ‘superano’”, “devo leggere subito ché non ho tempo”. Cerchiamo per parole chiave, leggiamo parole chiave -anche io lo faccio-, parliamo raffazzonando lessico rubato dalla TV, perché un libro chi ha tempo di leggerlo, e il web design ci impone di scrivere pezzi corti, font leggibile, altrimenti gli occhi si stancano, immagini, principalmente, ché statisticamente la gente si rompe a leggere mille parole su uno schermo.
Adesso internet si vive con il nome e cognome, foto, amicizie in comuni e selfies in copertina. Foto di guerre e foto di cupcakes. Video che non ci faranno mai vedere alla televisione, cure per il cancro che le case farmaceutiche non ci daranno mai perché ci vogliono morti, questi cazzo di migranti che ci rubano il lavoro e noi sistematicamente commentiamo. Potrei anche stare a cercare qualche statistica o studiare il fenomeno che ci induce a commentare principalmente le cose che ci fanno rabbia o quelle in cui possiamo contraddire o quelle per cui semplicemente, non siamo le persone più adatte per farlo, ma sono seduta qui, come loro, come voi, come noi, e non capisco.
Scrivo perché ho letto questa lettera e mi sono messa a piangere, mi ha dato emozioni e non sono stata capace di scrivere nulla. Ho pianto perché ho sentito la sofferenza di una coppia e il male di una precarietà di vita che ci sta riducendo all’osso, che ci fa marcire. La depressione. Non la tristezza, non l’angoscia, la depressione, che è un buco nero, ti succhia via ogni organo, ti chiede costante attenzione, costante alimentazione. All’inizio gli dai tutto il superficiale che possiedi, poi inizi con ciò che è fondamentale per la tua sopravvivenza. All’improvviso ti ritrovi solo a respirare, quando ci riesci. A non sopportare nemmeno il battito del tuo stesso cuore, lo senti così forte che ti sembra di essere in discoteca, per usare una metafora. Ché però non servono, non si riesce a descrivere la depressione. Come tutte le malattie che colpiscono la psiche, è qualcosa che nessuno riesce a far capire o spiegare. Si vive in modo diverso, perché intacca noi nella nostra unicità, non delle regole di anatomia. Sfugge alle leggi della chimica. Con me gli psicofarmaci non hanno funzionato, con alcune persone che conosco nemmeno. Si dorme, e a volte questo è sufficiente per non sentirsi un cadavere che cammina. Quando può.
Io stavo al letto al buio, figuriamoci se avevo tempo di avere una relazione e guardare ai bisogni di un eventuale ragazzo. Con la depressione non si vive. Prendete un foglio e coloratelo tutto di nero, con i gessetti, calcando la mano, sfumando. Qualsiasi cosa si tocca con il gessetto nero automaticamente prenderà quel colore. Ecco, questa è.
Mi sono ricordata di tutto questo quando l’ho letta e mi sono immaginata a fare male alla persona che amo e mi si è stretto il cuore. Non ho avuto il coraggio di scrivere nulla, se non aprire un editor di testo per scrivere la mia esperienza. Poi ho letto i commenti e tutto è cambiato.
Perché nessun elenco delle “cose da NON dire a chi è depresso” serve ad arginare il male di non avere tempo per elaborare le emozioni che dà uno scritto. Avere tempo di pensare che una persona che sta soffrendo per colpa di una malattia non si consola con i “forza, reagisci” che arrivano da una specie di personal trainer. Io sono fiduciosa: se trovassimo del tempo per chiederci “cosa diremmo alla persona che più amiamo?”, riusciremmo a scrivere cose migliori, più ponderate, lasceremmo spazio a chi sa e chi non può potrebbe stringersi in un abbraccio, una stretta di cuore.
La prossima volta che qualcuno scrive, prima di commentare, andate voi all’aria aperta, fuori, prendete energia positiva e pensate a ciò che avete letto. Cercate le parole che non sapete, documentatevi su cosa poter dire, sulle fonti, ricordate che non sempre le esperienze dirette sono verità assoluta che vale per tutti.
E alla coppia che ha scritto a questo blog, io voglio mandare un abbraccio.
Alla mia prima crisi di panico una mia amica mi strinse la mano dicendomi “tranquilla, calmati che ora passa”. Non è passata, ma adesso sorrido. Spero, anzi sono sicura, che cercando la professionista giusta (uno psicologo non va bene sempre per tutti, io ne ho cambiati due) e mettendo da parte il foglio nero, aprirai questa pagina blu e bianca (quella di facebook) e riderai. Perché l’ignoranza si combatte, la depressione si cura.
laglasnost
Il Fatto Quotidiano
11 09 2015
L’iniziativa di disobbedienza civile “SOS eutanasia”, promossa da Marco Cappato, Mina Welby e Gustavo Fraticelli, dirigenti della Associazione Luca Coscioni, comincia ad avere riscontri significativi, tenendo conto della delicatezza del tema. Da marzo 2015, mese d’inizio dell’attività, sono state date informazioni a 54 persone presentatesi in forma non anonima. Nelle risposte, oltre a dare notizie sulla sospensione delle terapie in Italia, si forniscono informazioni sulle cliniche svizzere, solo a coloro che abbiano i requisiti previsti dalle leggi elvetiche, fermo restando che saranno poi le cliniche stesse a decidere sulla base di quella normativa.
Nel mese di agosto, in particolare, sono giunte 16 richieste di informazioni (più molte altre anonime). Dei 16 richiedenti, 10 sono donne e 6 uomini.
Calcolando anche le molte richieste di notizie prevenute in forma anonima, le cause prevalenti riguardano malattie degenerative (il 43%) o tumorali (28%), così come la comparsa dei primi segni di Alzheimer.
Il 60% delle richieste arriva dal Nord Italia, il 20% dal Centro o dal Sud.
Nello stesso mese di agosto ha superato le 100mila sottoscrizioni la proposta di legge di iniziativa popolare depositata il 13 settembre del 2013 dalla Associazione Luca Coscioni presso i due rami del Parlamento.
Malgrado il sollecito del Presidente Napolitano al Parlamento (18 marzo 2014) perché discuta di scelte di fine vita; malgrado l’impegno in questo senso del Presidente Boldrini e di molti autorevoli esponenti di Camera e Senato; malgrado i numerosi sondaggi sul favore degli italiani (70%) per l’eutanasia: sono trascorsi due anni dal deposito della legge e la sua calendarizzazione nei lavori della Camera è ancora di là da venire. In violazione dell’articolo 71 della Costituzione.
E questo alla fine di una estate che ha visto – oltre alla clamorosa e argomentatissima cover story di “Economist” a favore della eutanasia e la inattesa svolta di “Lancet” nello stesso senso – una serie di proposte di legge e di sentenze a sostegno della eutanasia o del suicidio assistito che fanno compiere un deciso passo avanti verso l’autodeterminazione nella scelte di fine vita ai paesi più lontani e disparati: dal Canada al Sud Africa, dalla California all’India, dall’Australia all’Argentina. Ed alle soglie di un autunno che vedrà i Parlamenti di due paesi comparabili con l’Italia, la Gran Bretagna e la Germania, discutere e votare leggi ampiamente condivise su eutanasia e suicidio assistito, dopo la decisione primaverile del Parlamento francese che ha fatto risolutivi passi avanti rispetto alla vigente legislazione sul “laisser mourir”.
Non a caso, il 16 settembre promuoveremo la nascita un “intergruppo” per eutanasia e testamento biologico cui parteciperanno parlamentari di diversi orientamenti politici, tutti intenzionati a far sì che anche l’Italia si doti finalmente di leggi di stampo europeo sulle scelte di fine vita.
Ritenendole, nella loro dolorosa umanità, più efficaci di ogni possibile argomentazione, sottopongo all’attenzione delle competenti autorità politiche, all’opinione pubblica ed ai troppi silenziosi “maitres à penser” alcune delle e mail pervenute a Sos Eutanasia.
1. Mia madre ha quasi 86 anni. La comparsa dell’Alzheimer risale a circa 5 anni fa. Ha un aneurisma all’aorta a limite dell’operabilità da circa 5 anni. Soffre di fibrillazione atriale da circa tre anni, fa prelievi settimanali per stabilire la terapia. Dal dicembre 2013, da quando si è rotta il femore ed è risultato impossibile operarla, è a letto con il catetere. Non riconosce più i familiari, si esprime con fonemi o parole raramente comprensibili. Per nutrirla va imboccata. Ultimamente ha piaghe da decubito nonostante creme atte a preservarla da tale problema.
2. Ho 43 anni e sono affetto da sclerosi multipla primaria progressiva da circa 15 anni, un terzo della mia vita. Vivo solo e mi arrangio in tutto, ma la patologia procede con costanza e vorrei avere la serenità di poter decidere quando finire con dignità, senza dipendere dalla decisione di nessun altro.
3. Mia madre è affetta da una malattia degenerativa (una forma di mielopatia). Non è ancora gravemente invalida, ma è destinata a diventarlo (tetraplegica). Per questo mi ha chiesto di informarmi su cosa deve/può fare per manifestare la sua intenzione di ricorrere all’eutanasia nel caso sia ridotta all’invalidità totale e dove/come l’eutanasia può essere praticata.
4. Sono costretto su una sedia a rotelle a causa di una lesione infettiva a livello midollare che mi ha portato ad una tetraplegia. A questa si associano problemi collaterali tipo lesioni da decubito. Dal punto di vista familiare mi ritrovo solo. Questa è un tipo di vita che non voglio e non sono in grado di vivere. Per questo chiedo il vostro aiuto per arrivare a concludere il mio percorso di vita.
5. Sono giovane. Sana e robusta costituzione. Ho una vita davanti a me: una vita che semplicemente non mi va di vivere. Non riesco. Vorrei sapere perché la società preferisce lasciarmi morire da sola, magari con metodi violenti o dolorosi, in solitudine, quando potrei rendere dignitose altre vite, con la mia morte. Vorrei lasciare questo mondo sapendo di aver fatto almeno una sola cosa giusta: ho bisogno di sapere se esistono Stati che permettano l’espianto di organi senza morte cerebrale avvenuta.
Lettere che aiutano a capire perché poi, in una sistema di leggi che puniscono con pene fino a 15 anni ogni forma di eutanasia, ogni anno 1.000 malati terminali siano costretti al suicidio, altri 1.000 lo tentino invano e 20mila medici coraggiosi e pietosi trovino solo nella eutanasia clandestina la “uscita di sicurezza” per i loro pazienti terminali.
Carlo Troilo