Huffington Post
26 06 2014
Auschwitz, il ballo sui luoghi della Shoah. Su Facebook hanno 9mila "Mi piace". Le foto scandalo dei liceali israeliani
Una ragazza sorridente si fa fotografare seduta accanto ad un cumulo di ceneri umane. Altre danzano sui luoghi della morte. Due fidanzatini si abbracciano felici sul treno che portava via per sempre i prigionieri. Hanno creato scandalo gli scatti di alcuni studenti e studentesse israeliani pubblicati su una pagina Facebook, sotto il titolo "Con le mie ragazze ad Auschwitz".
Una provocazione che ha generato un'ondata di indignazione: molti hanno giudicato le pose "sconvenienti". Ma c'è anche chi sembra aver apprezzato il tentativo di portare leggerezza in un posto in cui da tempo quest'ultima non abita più. La pagina Facebook ha ricevuto, infatti, circa novemila "mi piace".
In tre giorni, le immagini sono diventate virali, finendo sui giornali e diventando un caso. L'autore (o l'autrice) ha sentito allora l'esigenza di intervenire nel dibattito e difendere la "superficialità" di quelle foto. E ha criticato il premier Benjamin Netanyahu, accusandolo di sfruttare la tragedia solo per fini politici: "Per me è duro usare del sarcasmo su un argomento come questo ma il dolore che provo per chi sfrutta l'Olocausto per fini politici è intollerabile. E mi risulta difficile biasimare quei ragazzi quando il ministro rispolvera la shoah dentro qualsivoglia discorso".
Il Fatto Quotidiano
09 06 2014
Molto presto in Egitto Facebook, Twitter, YouTube e forse anche WhatsApp, Viber e Instagram potrebbero essere sottoposti a una sorveglianza sistematica.
Il 1° giugno il quotidiano Al Watan ha rivelato che il ministero dell’Interno ha pubblicato un bando in cui s’invitano le aziende straniere di tecnologia informatica a presentare proposte per l’istituzione di un sistema di “monitoraggio dei social media”.
Il giorno dopo, in un’intervista ad Al Ahram, il ministro Mohammed Ibrahim ha confermato tutto, sottolineando che il governo intende combattere il terrorismo e proteggere la sicurezza nazionale attraverso la ricerca nella Rete di definizioni concernenti attività considerate illegali e l’individuazione delle persone che le utilizzano nelle loro comunicazioni.
Le definizioni “sospette” dovrebbero essere 26, anche se la lista non è ancora pubblica e si teme che non lo sarà mai, lasciando gli utenti della Rete nel dubbio se quello che stanno scrivendo sarà legale o no. Al momento, da quello che si sa, dovrebbe comprendere la diffamazione della religione, la convocazione di manifestazioni illegali, di scioperi e sit in, nonché il terrorismo e l’incitamento alla violenza.
Secondo il ministro Ibrahim, questo sistema non sarà usato per limitare la libertà d’espressione.
Siamo sicuri? O non si tratta piuttosto di un’indiscriminata sorveglianza di massa, incompatibile col diritto alla privacy e peraltro vietata dalla stessa Costituzione egiziana che, all’art. 57, stabilisce l’inviolabilità della corrispondenza postale, telegrafica, elettronica, telefonica e tramite altri mezzi di comunicazione salvo quando disposta da un’ordinanza giudiziaria motivata e per un periodo limitato di tempo?
Gli standard del diritto internazionale riconoscono che, per ragioni di sicurezza nazionale, le autorità possono legittimamente ricorrere a forme di sorveglianza che però devono essere mirate e bilanciate dal rigoroso rispetto della privacy delle persone.
In Egitto, i precedenti in tema di repressione della libertà d’espressione, di associazione e di manifestazione sono scoraggianti. Un sistema di sorveglianza indiscriminata e di massa nei confronti dei social media, come quello prospettato, rischia di diventare l’ennesimo strumento di repressione nelle mani del governo del presidente al-Sisi.
Al momento, su Twitter prevalgono l’ironia e la sfida.
Amnesty International
18 04 2014
Si svolgerà il 21 aprile, presso il tribunale n. 1 di Smirne, la seconda udienza del processo nei confronti di 29 persone accusate di aver diffuso messaggi attraverso Twitter nei primi giorni delle proteste di Gezi Park, a Istanbul, nel giugno 2013.
Gli imputati, "colpevoli" di aver postato tweet in cui denunciavano le violenze delle forze di polizia o sollecitavano cure mediche per i manifestanti, rischiano fino a tre anni di carcere per incitamento a violare la legge.
Andrew Gardner, ricercatore di Amnesty International sulla Turchia, assisterà all'udienza:
"Questo caso è una farsa che non avrebbe mai dovuto arrivare in un'aula di tribunale. Siamo di fronte a una chiara violazione del diritto alla libertà d'espressione. È assurdo che delle persone rischino di finire in carcere solo per aver condiviso informazioni e opinioni del tutto pacifiche sui social media. Farlo è un loro diritto" - ha dichiarato Gardner.
Mentre i principali mezzi d'informazione non hanno documentato le proteste, i social media hanno avuto un ruolo determinante nelle proteste di maggio e giugno del 2013 che da Gezi Park e piazza Taksim di Istanbul si sono propagate a tutto il paese.
Le autorità turche hanno reagito attaccando Twitter e altri social media. Nel marzo 2014, Twitter e YouTube sono stati bloccati. Il bando nei confronti di Twitter è stato revocato, ma le autorità continuano a minacciare la sua chiusura. YouTube rimane bloccato nonostante un tribunale abbia disposto la revoca del provvedimento.